Da FONDAZIONECDF.IT, riportiamo l'analisi di Nigel Biggar dal titolo " Non sono certo che invadere l'Iraq sia stato un errore ".
Nigel Biggar regius professor di morale e teologia pastorale all’Università di Oxford. Sta attualmente scrivendo un libro sull’etica di guerra. Da Financial Times 10/03/2010. Traduzione di Fulvio Miceli.
A giudicare dalla reazione prevalente della stampa britannica, la sola funzione dell'inchiesta Chilcot sulla guerra in Iraq (il 15 giugno 2009 il primo ministro britannico ha annunciato un'inchiesta sulle “lezioni della guerra in Iraq, diretta da Sir John Chilcot, ndt) è di provare ciò che tutti già sappiamo essere vero: che l'invasione fu immorale e che Tony Blair deve essere condannato. L'eccesso di certezza morale tra i commentatori è sospetta. Certamente, l'invasione e l'occupazione dell'Iraq sono state moralmente difettose. La motivazione dell'amministrazione statunitense è stata arrogante e la preparazione per la ricostruzione nel dopoguerra completamente inadeguata. Anche molte guerre giuste sono state piene di errori. Prendiamo la guerra contro la Germania nazista. I bombardamenti indiscriminati delle città tedesche da parte della RAF furono ampiamente diretti dall'odio vendicativo di “'Bomber'” Harris (Sir Arthur Harris, comandante in capo delle forze aeree britanniche durante la seconda guerra mondiale, ndt). Mentre la distruzione dell'egemonia nazista fu un grande bene, il radicarsi di Stalin fu un grande male. Ogni impresa umana complessa comporterà difetti morali. È necessario determinare se e quanto questo mini la sua giustizia complessiva.
Come prova dell'immoralità dell'invasione dell'Iraq i critici invocano il numero di morti civili, attendibilmente stimato tra i 100.000 e i 150.000. La liberazione dell'Europa dai nazisti, però, costò la vita di 70.000 civili francesi e di 500.000 tedeschi per via dei bombardamenti e, mentre questa fu una diretta responsabilità di britannici e americani, la maggior parte dei civili iracheni sono stati uccisi da insorti stranieri o locali. Certamente i poteri occupanti sono obbligati a mantenere la legge e l'ordine e inizialmente hanno mancato l'obiettivo, ma gli insorti non avevano giustificazioni per inviare terroristi suicidi in mercati affollati e la loro mancanza di etica è stata costante. I ragionamenti sulla sproporzione delle forse sono spesso privi di esito. Se si assume che la guerra in Iraq è stata ingiusta perché ha cau! sato tante vittime civili, allora nessuna guerra vale neppure un solo morto civile. Eppure affermando la giustizia della guerra contro Hitler implichiamo che valesse la morte di 30 milioni di civili. La perdita di 150.000 civili, pertanto, di per sé non rende la guerra in Iraq ingiusta.
L'invasione sarebbe stata più difficile da difendere se il nuovo regime del paese fosse fallito, ma questo non è ancora accaduto e quei critici che hanno a cuore la sorte degli Iracheni più di quanto odino George W. Bush e Tony Blair sperano che non fallisca.
Se determinare la proporzionalità della guerra in Iraq rispetto al pericolo è difficile, potrebbe essere più facile determinarne la illegalità. Potrebbe sembrare così, data la sicurezza con la quale alcuni legali l'hanno condannata prima di Chilcot. Ma queste condanne sono solo opinioni, dato che la legge internazionale può essere variamente interpretata. Anche volendo assumere che l'invasione fu illegale, dobbiamo ancora confrontarci con il fatto che allora lo era anche l'intervento Nato in Kosovo nel 1999, il quale ora è diffusamente considerato legittimo. La conclusione? La legalità non è l'ultima parola.
L'attuale legge internazionale è moralmente problematica. Nega il diritto degli stati a usare la forza unilateralmente, se non per autodifesa, mentre riserva il compito di imporre la legge internazionale al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la cui capacità di azione è vanificata dal diritto di veto, posto a salvaguardia di interessi nazionali.
La questione decisiva per valutare l'invasione dell'Iraq non è se fosse moralmente difettosa o sproporzionata o illegale, ma se fosse realmente necessaria per fermare o prevenire un male sufficientemente grande.
Nessuno nega che il regime di Saddam Hussein fosse enormemente feroce. Nel 1998 usò le armi chimiche contro i civili curdi in quello che, secondo Human Rights Watch, costituì un genocidio, e dal 1988 al 2003 uccise almeno 400.000 persone del suo stesso popolo. I critici dell'invasione presumibilmente non tollererebbero un simile regime a casa loro; e un'autorità politica internazionale efficace lo avrebbe deposto. La coalizione deve essere condannata per aver riempito un vuoto di potere? Certo, ci sono vuoti simili che nessuno ha riempito - Ruanda, Zimbabwe, Darfur - ma non è meglio essere incoerentemente responsabili che coerentemente irresponsabili ?
Si aggiunga la preoccupazione per le armi di distruzione di massa. Questa è stata sufficientemente grave da spingere le Nazioni Unite a produrre nel periodo dal 1991 al 2003 17 risoluzioni che chiedevano a Saddam di disarmare definitivamente. Data la scoperta scioccante, a metà degli anni 90, del successo iracheno nell'arricchire uranio che avrebbe portato entro 24 mesi agli armamenti nucleari, e tenuto conto del persistente farsi beffe da parte del regime della volontà delle Nazioni Unite, vi era una buona ragione per rifiutare il beneficio del dubbio e per supporre che l'Iraq stesse sviluppando armi di distruzione di massa. Non erano solo Bush e Blair a farlo. Fecero così Jacques Chirac, l'allora presidente francese, e Hans Blix, l'ispettore capo dell'ONU sugli armamenti.
Ora sappiamo che questa supposizione ragionevole era sbagliata e che il problema era meno urgente di quello che appariva. Ma era comunque urgente. Saddam era deciso a dotarsi di armi nucleari e il sostegno per il boicottaggio si stava dissolvendo. David Kelly, esperto capo della Gran Bretagna sulle armi di distruzione di massa irachene, famoso per essere stato spinto al suicidio, è meno famoso per la sua convinzione che l'unica soluzione duratura del problema fosse il cambio di regime.
Forse i critici della guerra vedono con equanimità quel che sarebbe successo senza l'invasione del 2003, confidando che la razionalità secolare della Realpolitik avrebbe impedito alla rivalità tra l'Iraq del sanguinario Saddam e l'Iran del millenarista Mahmoud Ahmadinejad di condurre a una catastrofe nucleare.
In questa età di attentatori suicidi, tuttavia, è difficile dar credito a tale fiducia.
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