Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 26/05/2010, a pag. 14, l'articolo di R. A. Segre dal titolo " I boicottaggi? Hanno fatto grande Israele ".
La notizia del boicottaggio di Coop e Conad dei prodotti israeliani non è stata trattata nello stesso modo da tutte le testate italiane. Anzi. Mentre su alcune (Il GIORNALE, LIBERO, Il FOGLIO) è stato dato molto rielivo al fatto e sono stati pubblicati commenti che condannavano l'iniziativa antisraeliana/antisemita dei due supermercati, su altre lo spazio dedicato è stato minimo (CORRIERE della SERA, L'UNITA', Il MANIFESTO) o addirittura nullo (Il RIFORMISTA, La STAMPA, Il MESSAGGERO,ILSOLE24ORE). Su REPUBBLICA, a pag.15, con il titolo " Stop ai prodotti dei coloni, il PD filo-Israele attacca le Coop", conferma da che parte sta il quotidiano di proprietà dell'ing. De Benedetti. Da un lato conferma che le Coop boicottano, smentendo il loro comunicato che tende a negare che sia un vero e proprio boicottaggio, dall'altra lascia credere alla presenza di una lobby nel partito. Dopo il pezzo di Segre, riportiamo il comunicato dell'On.Gianni Vernetti, gia sottosegretario agli esteri sotto il governo Prodi, chiaro e senza ambiguità, caratteristica di altri deputati PD, lievemente critici con le Coop.
Ecco l'articolo di R. A. Segre:
R. A. Segre
Col boicottaggio Israele è abituato a convivere sin da prima della creazione dello Stato quando ancora al tempo del Mandato britannico, le merci degli ebrei di Palestina erano boicottate dalla Lega araba, fondata nel 1944. In tempi più recenti si è aggiunto il boicottaggio delle università israeliane da parte di università inglesi - ultimamente sudafricane - e una campagna per il ritiro degli investimenti fatti da fondi di pensioni inglesi o scandinavi, o dalle Chiese protestanti nel corso di un’estesa campagna anti israeliana modellata su quella contro l'apartheid sudafricano.
Per quanto irritanti, queste forme di boicottaggio non solo non hanno avuto effetto ma hanno prodotto quello contrario, stimolando l'iniziativa di un piccolo paese che per motivi strategici ha fondato la sua politica sul principio della qualità contro quantità. Altre ragioni hanno contribuito a far fallire il boicottaggio arabo. Ad esempio la condanna di molti governi, Italia inclusa, di accettarlo. D'altra parte è difficile mantenere il boicottaggio contro uno Stato che con sette milioni di abitanti ha un commercio estero superiore a quello di tutti i 21 Stati arabi (petrolio escluso) messi assieme e si trova al terzo posto mondiale (dopo Stati Uniti e Cina) in fatto di creatività industriale. (Senza il pentium israeliano nessun computer funzionerebbe).
L'arma anti israeliana del boicottaggio quasi universalmente spuntata sembra invece paradossalmente funzionare quando è usata dagli ebrei ortodossi in Israele e da fuori di Israele. Sono stati loro a far scomparire dalle fermate degli autobus in Israele la propaganda di abiti, lingerie, cibo, gioielli promossi con foto di donne anche se solo un po’ scollate. Sono stati loro a imporre alla società aerea nazionale di non volare nei giorni di sabato religiosamente festivi; a bloccare il movimento delle linee nazionali di autobus (all'infuori della città «rossa» di Haifa) e dei trasporti ferroviari nei giorni in cui la Bibbia - e l'interpretazione rabbinica - impone il riposo. Il che non ha certo fermato - e in molti casi aumentato - gli spostamenti in auto dei privati, o l'allargamento del numero dei negozi, ristoranti e luoghi pubblici che in base alla differenti autonomie municipali, restano aperti il sabato. Ci sono però stati altri casi in cui il boicottaggio degli ortodossi ha dimostrato la sua forza. Per esempio il boicottaggio, accompagnato da manifestazioni e lanci di pietre, contro il laboratorio a Gerusalemme del gigante tecnologico Intel, (vitale per l'economia israeliana) terminato con un compromesso che permette solo a personale non ebreo di lavorare il sabato. È facile comprendere da dove nasca la «forza d'urto» economica degli ortodossi. È la forza che nasce da un’assoluta obbedienza della comunità ultraortodossa - quella che in ebraico si chiama dei Haridim (i pii, i tremanti di fronte al volere divino) - alle decisioni dei loro rabbini, anche se il loro peso economico non supera il 10%. È però una percentuale che ha effetto, se diretta contro una specifica istituzione economica, bancaria, industriale aperta alla logica della concorrenza. Ma cosa succede quando il tribunale rabbinico di uno dei segmenti più religiosamente radicali dell'arcipelago religioso israeliano sfida la Borsa. Ordinando, ad esempio, di investire dalle società quotate in Borsa, in Israele. Un libretto di «istruzioni per l'uso» distribuito recentemente dal Badatz - l'alta autorità giuridica ultra ortodossa - spiega che è proibito detenere o comprare azioni collegate con «strumenti di investimento, specialmente fondi di pensione, che traggono profitti dal commercio nel sabato o persino - che Dio non voglia - il giorno di Kippur o da canali televisivi pieni di sudiciume e pubblicità oscena... in cui sei inconsciamente parte». Il libretto continua specificando che attratti da promesse di alti guadagni si diventa senza saperlo coinvolti in società sussidiarie a peccaminose di fondi di investimento. Menziona ad esempio, la grande compagnia di cemento Nesher, quella dei trasporti aerei cargo Maman «che operano di sabato come se fossero giorni feriali» e persino «azioni innocenti» della Banca Leuni partner nella catena di mode Fox... o Strauss che con la Coffee Togo opera di sabato». Secondo un’inchiesta condotta da una società di pubblicità ortodossa, questo settore della popolazione israeliana controlla capitali di risparmio e investimenti del valore di 500 milioni di dollari all'anno. Saranno sufficienti a piegare il «mostro» della Borsa? È tutto da vedere anche se le perdite registrate nel corso del mese e che gli economisti legano a cause internazionali stanno convincendo non pochi ortodossi che anche in questo campo di battaglia il Signore sa da che parte stare.
MO: VERNETTI (API), BOICOTTARE PRODOTTI ISRAELE E' ATTO RAZZISTA
E INTOLLERANTE
"Penso che la scelta di Coop e di Conad
di boicottare i prodotti agricoli di Israele sia un fatto di una
estrema gravita', che denota una cultura razzista e intollerante che
ritenevo estranea al movimento cooperativistico". Lo ha sottolineato
in una nota Gianni Vernetti, deputato di Alleanza per l'Italia e gia'
sottosegretario agli Affari esteri. "La motivazione della non
tracciabilita' dei prodotti - ha proseguito Vernetti - e' grottesca e
il risultato che si ottiene non e' altro che alimentare una pericolosa
cultura del disprezzo nei confronti dello stato democratico di
Israele".
"Voglio ricordare ai dirigenti di Coop e Conad che Israele e' un paese
con una democrazia matura (l'unica purtroppo in Medio Oriente), con
stampa libera, multipartitismo, diritti umani e diritti sindacali
pienamente rispettati. I lavoratori israeliani e palestinesi delle
fabbriche e delle aziende agricole di Israele - ha proseguito Vernetti
- godono degli stessi diritti ed hanno eguale rappresentanza
sindacale".
"E la stessa liberta' politica e sindacale non c'e' purtroppo in molti
paesi asiatici ed africani i cui prodotti abbondano negli scaffali
degli Ipermercati di Coop e Conad. Da un'azienda come la Coop - ha
concluso Vernetti- che tanti vantaggi ha avuto dal collateralismo con
la politica, ci si aspetterebbe maggiore sobrieta' e pacatezza".
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