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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Amos Oz, Scene dalla vita di un villaggio 24/05/2010

Scene dalla vita di un villaggio      Amos Oz
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli                                             Euro 16


“Ho scritto perché ho dovuto, ho scritto fin da quando ero un bambino piccolo. All’inizio ho scritto con tanto entusiasmo delle poesie patriottiche, più tardi ho cominciato a scrivere racconti. Il mio libro più recente, “Scene dalla vita di un villaggio”, completa il cerchio, perché ho restituito forma alla parola dopo una pausa durata molti, troppi anni”
A due anni dal romanzo “La vita fa rima con la morte”, l’ultima opera di Amos Oz nelle librerie in questi giorni, magistralmente tradotta da Elena Loewenthal, è un nuovo emozionante regalo per i lettori italiani che da anni apprezzano i romanzi dello scrittore e saggista israeliano, una delle voci più alte della narrativa d’Israele.
Considerato parte della triade dei “tenori” (insieme a David Grossman e A.B. Yehoshua), Amos Oz diventa celebre nel 1968, allorché dà alle stampe Michael mio, romanzo che ha per protagonista una donna alla ricerca di qualcosa che non sa definire. Da allora lo scrittore israeliano, attivista del movimento per la pace, ha scritto numerosi racconti e saggi ricevendo nel 2005 il Premio Goethe, assegnato in passato a Thomas Mann e nel 2007 il Premio Principe delle Asturie. Fra i suoi ultimi lavori spicca il romanzo Non dire notte e la straordinaria e spietata autobiografia Una storia di amore e di tenebre.
Le luci e i colori del paesaggio israeliano ma anche le inquietudini dei personaggi che declinavano le pagine di romanzi come Non dire notte o La vita fa rima con la morte tornano in questa sua ultima fatica, una raccolta di otto racconti ambientati in un villaggio immaginario, Tal Ilan, abbandonato alla solitudine e abitato da uomini e donne che nascondono segreti e misteri.
L’autore con grande capacità narrativa e avvalendosi del pennello più che della penna ritrae personaggi originali e quasi surreali nei momenti della loro vita quotidiana dove tutto sembra scorrere in una quiete che confina con la noia. Perché Tel Ilan è un villaggio pacifico e tranquillo che ricorda le atmosfere marqueziane dove la vita segue un percorso solo in apparenza armonico: il senso di mistero, di “non detto”, di inquietudine, di vergogna è il filo conduttore dei racconti che traspare in ogni pagina.
Tel Ilan è uno dei primi insediamenti israeliani costruito all’inizio del XX secolo e situato fra le alture della regione di Manasse: “…circondato di piantagioni e frutteti mentre i declivi delle colline a oriente erano coperti da vigneti. Oltre la strada d’accesso in paese, c’erano filari e filari di mandorli”. Un luogo magnifico che uno dei personaggi, l’avvocato Maftzir, definisce “la Provenza d’Israele” ma anche approdo privilegiato per i visitatori che dalla città arrivano ogni sabato per fare acquisti di formaggi artigianali, olive e spezie vivacizzando l’atmosfera quieta e monotona del villaggio che durante la settimana “pareva deserto perché la gente si chiudeva in casa a riposare, con le persiane chiuse”.
In questo luogo incantevole dove emerge in maniera inequivocabile il senso dell’abbandono, gli abitanti nascondono segreti e storie incredibili in un presente privo di qualità che si scoglie in un futuro senza prospettive.
L’ingenuità di Kobi Ezra il giovane di diciassette anni, “esile con due gambe a stecchino,la carnagione scura e sul viso quasi sempre spalmata un’espressione di mesto stupore, innamorato senza speranza di Ada Devash un’impiegata trentenne delle poste, simpatica e cordiale, che coglie perfettamente i turbamenti del giovane Ezra, si scontra con la disillusione e l’amarezza del vecchio deputato laburista Pesach Kedem che vive con la figlia Rachel, una vedova che insegna alla scuola di Tel Ilan, in una delle ultime case in fondo al villaggio. L’anziano Pesach è uno dei personaggi più originali del libro: “…ossuto, nodoso e scabro con una pelle che pare corteccia d’ulivo” alla veneranda età di 86 anni è ancora lucido e non nasconde la diffidenza nei confronti del ragazzo arabo che vive in una piccola costruzione a fianco della loro abitazione ma anche la rabbia per l’operato di alcuni compagni di partito. E’ una figura indimenticabile quella di Pesach Kedem nei cui confronti la figlia Rachel riversa in egual misura insofferenza, comprensione e affetto.
Altri personaggi catturano per il senso di mistero che li pervade l’attenzione del lettore: Arieh Zelnik abbandonato dalla moglie Naama attende che la madre novantenne muoia; Yardena la figlia di Eldar Rubin, un famoso scrittore di libri sulla Shoah morto da alcuni anni suscita desiderio e tenerezza nell’immobiliarista Yossi Sasson che vorrebbe acquistare “Il Rudere”, la casa dove sono rimaste a vivere la nonna e la madre di Yardena (“Il Rudere è un vecchio edificio costruito dai fondatori più di cent’anni fa in via Tapat, si trova in una posizione appartata con il retro rivolto verso l’esterno e intorno un giardino abbandonato all’incuria…”); Benni Avni il sindaco di Tel Ilan un uomo allampanato con le spalle curve, un poco trasandato nel vestire, benvoluto dai suoi cittadini che, inspiegabilmente, viene abbandonato dalla moglie la quale gli fa recapitare dal giovane arabo Adel nel suo ufficio in Comune un messaggio inquietante “Non preoccuparti per me”; Ghili Steiner è il medico condotto del villaggio, una dottoressa competente anche se burbera nei modi, attende invano alla fermata dell’autobus il nipote Gideon Ghet, militare di leva, che doveva arrivare da Tel Aviv per trascorrere con lei un periodo di convalescenza dopo un ricovero ospedaliero. Questa galleria di personaggi che vive a volte in una dimensione parallela quasi onirica si ritrova al termine del libro nella casa di Abraham e Dalia Levin per trascorrere una serata “…in una notte tempestosa di pioggia, ripescando vecchie canzoni di un tempo in cui tutto era chiaro a tutti” dove i canti ebraici e le canzoni russe si mescolano agli inni patriottici in un clima di nostalgica armonia.
E’ un libro profondo e maturo l’ultima opera di Amos Oz: un’analisi sulla dolorosa condizione degli esseri umani quando si avvicinano al crepuscolo della vita o quando il fallimento esistenziale frantuma gli equilibri dell’anima. Con una cifra linguistica che si declina in frasi semplici e trasparenti Oz, impareggiabile architetto di luoghi e sentimenti, ci narra della fragilità degli uomini che si confrontano con il senso di vergogna e smarrimento, di inquietudine e rimorso.
Su tutto emerge, in un tripudio di colori stupefacenti, la bellezza e l’intensità del paesaggio d’Israele.

Giorgia Greco


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