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La Repubblica Rassegna Stampa
23.05.2010 Gaza: troppo facile fare un pezzo di colore
L'articolo di Alberto Stabile

Testata: La Repubblica
Data: 23 maggio 2010
Pagina: 34
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Un muro sotterraneo attraverso la solitudine di Gaza»

Su Gaza, in realtà, non ci sarebbe molto di nuovo da dire, tranne che se non fosse governata da un'entità criminale, la vita vi si potrebbe svolgere in modo quasi normale. Peccato che questa osservazione non faccia parte dei reportage, che continuano ad infliggere frasi e luoghi comuni, come ha fatto ancora una volta Alberto Stabile su REPUBBLICA di oggi, a pag. 34-35, in un articolo dal titolo "Un muro sotterraneo attraverso la solitudine di Gaza".
E' sufficiente leggere il servizio di Stabile per rendersi conto che l'unica intenzione del cronista è confezionare un pezzo di colore. Si sprecano, come dicevamo, le parole abusate: "livello umanitario", "i tunnel sono la vita", "Gaza come una retrovia", e poi le solite interviste con i trafficanti di ogni genere di prodotti, tanto per incuriosire il lettore.
Che Gaza possa essere un territorio diversamente governabile a Stabile non passa proprio in mente di scriverlo.
Riportiamo l'articolo per dovere di cronaca.


Tunnel al confine tra Gaza e l'Egitto

Qui la guerra è parte del paesaggio. E non solo perché gli aerei israeliani ogni uno e due fanno il tiro al bersaglio con i tunnel che attraversano in profondità il confine tra la Striscia di Gaza e l´Egitto. Quel che succede sulla parte egiziana di Rafah non è più rassicurante. Protette da mezzi blindati, torrette con i tiratori scelti, nidi di mitragliatrici, potenti trivelle bucano il terreno fra le palme. Lunghe travi d´acciaio ondeggiano sospese dalle gru prima di finire inghiottite dalla sabbia. Così, la barriera sotterranea che il governo egiziano ha deciso di costruire per bloccare il contrabbando va mettendo le sue radici. E i capi di Hamas, padroni della vita e della morte di un milione e mezzo di palestinesi, gridano al tradimento contro i governanti del Cairo.
La sensazione, girando per le strade di Rafah, è di trovarsi in una retrovia. E come in ogni retrovia, fioriscono i traffici, concentrati, soprattutto, sulla piazza principale, «la nostra Porto Said», dice la guida, una sorta di duty free a cielo aperto dove sono esposte le merci che arrivano dai tunnel: elettrodomestici e computer, generatori e macchine agricole, dispensatori di acqua minerale e pezzi di ricambio d´ogni genere, animali di tutti i tipi, pecore, asini, pappagalli rari, stoffe, vestiti, tute sportive e naturalmente benzina, gasolio, combustibili vari.
Mancano le armi che, attraverso i tunnel, vanno ad irrobustire l´arsenale di Hamas. Ma quello è un mercato che non si mostra al grande pubblico. Tuttavia, è proprio per bloccare il traffico di armi che, dopo l´operazione "Piombo fuso", Stati Uniti e Israele hanno deciso di mettere in mora il governo egiziano. I militari americani hanno elaborato l´idea di costruire una barriera sotterranea, munita di sensori, che i tunnel non potranno superare, almeno sulla carta. La Germania ha offerto la propria tecnologia. Il Congresso degli Stati Uniti ha finanziato il progetto. A quel punto, il rais Hosny Mubarak ha deciso di dare il via ai lavori, anche perché, nel frattempo, i rapporti tra Il Cairo e Hamas si erano fortemente deteriorati (con accuse egiziane agli islamisti di aver ordito, assieme agli Hezbollah libanesi, un complotto per gettare il paese nel caos).
Questo, il contesto in cui è stato concepito il muro egizio. Ma alla gente di Gaza, cioè alle decine di migliaia che dai tunnel traggono di che vivere e alle centinaia di migliaia che grazie ai tunnel possono mantenere un livello di vita e di consumi appena al di sopra dei «bisogni umanitari», pur sempre garantiti dalle organizzazioni internazionali, degli aspetti politici e militari di questo mercato sotterraneo importa poco e niente.
Per la stragrande maggioranza del milione e mezzo di palestinesi di Gaza i tunnel sono la vita. Dai cunicoli che si aprono tra le macerie di Rafah e sfociano in Egitto non dipendono soltanto le ambizioni dei politici ma passano anche i sogni della povera gente: un abito da sposa, generalmente made in Turchia, una motocicletta, generalmente made in China, un condizionatore d´aria, generalmente made in Corea. Tutte cose che, esorbitando dal «livello umanitario», non supererebbero mai l´embargo israeliano, come non l´hanno superato i quaderni e le matite dell´Unicef bloccati per mesi al di là della frontiera.
Ma il vero business dei prossimi mesi saranno le automobili: «Upon request», ci assicura Mahmud Abu Raya, il quale traffica con i tunnel sin dal 2001, quando, ricorda, «cominciammo con le armi perché era scoppiata la seconda Intifada e per ogni carico di diverse tonnellate, si arrivava a guadagnare anche duecentomila dollari, mentre oggi il guadagno basta appena a far campare la famiglia».
«Upon request», spiega Mahmud, «vuol dire che chiunque abbia bisogno di una macchina nuova andrà dall´agente del tunnel il quale gli mostrerà il catalogo delle auto disponibili dall´altra parte del confine e la riceverà nuova, così come esce dalla concessionaria». C´è un solo problema, par di capire, ma non è insormontabile: l´auto costerà il doppio del suo valore di mercato, perché questo è il sovrapprezzo che si paga ai signori dei tunnel: il cento per cento del valore d´ogni cosa importata. L´economia sotterranea di Gaza, dunque, fiorisce e si espande. Si dice che un tunnel di un metro e venti d´altezza per un metro e venti di larghezza, lungo 700-800 metri costi fra i 180mila e i 250mila dollari, ma l´esercito delle formiche sembra in grado d´investire molto danaro per migliorare la rete delle gallerie sommerse.
Andando sulla Philadelphy Road, la terra di nessuno che separa la Striscia dall´Egitto, ci si può rendere conto facilmente delle dimensioni raggiunte dal business. Coperti da tendoni di plastica bianca stesi tra mucchi di sabbia e terra di riporto per nasconderli agli aerei israeliani, una miriade di piccoli cortili, alcuni dei quali chiusi da grate di ferro, permettono l´accesso ai tunnel. Gli statistici del luogo ne contano 1.050 che, assicura il sindaco di Rafah, Issah Nashas danno lavoro a quindicimila persone. Un´industria.
Mahmud, un gigante dall´aria sorniona, di tunnel ne gestisce due e un terzo ne ha in costruzione. Al più grande si accede attraverso una piattaforma circolare di un metro e cinquanta di diametro che viene calata da un montacarichi elettrico fino a diciannove metri di profondità. Scendiamo, appoggiandoci a una ringhiera di metallo che serve di solito per legarvi gli animali. Giunti alla base, si apre un lungo cunicolo quasi ad altezza d´uomo, illuminato da lampade al neon poste sui due lati della galleria. Date le condizioni generali, si direbbe una soluzione confortevole ed efficiente.
Nell´altro tunnel, quello in costruzione, seduti su un seggiolino di plastica che sembra un trapezio da circo, le mani aggrappate ai cavi, salgono e scendono sospinti dal montacarichi giovani scavatori che indossano pantaloni alle ginocchia. Una macchina pompa ossigeno a ventiquattro metri di profondità. Un uomo sta di guardia sulla bocca del pozzo, pronto a dare l´allarme in caso di crolli. In quattro anni, di giovani come quelli che risalgono dal buio per rilassarsi davanti a una tazza di tè ne sono morti centotrentaquattro. E questo per ottanta shekels al giorno, quaranta euro, niente, rispetto alla paga di cento dollari al giorno di qualche anno fa, ma pur sempre una fortuna nella miseria di Gaza.
Dall´altro lato del confine assicurano, però, che i tunnel hanno i giorni contati. Secondo le indiscrezioni trapelate sul progetto, la barriera di metallo che neanche l´esplosivo potrà perforare, un brevetto del corpo dei genieri americani, dovrebbe bloccare il passo degli scavatori. I sensori collegati al muro dovrebbero attivare le pompe che immetteranno imponenti masse d´acqua di mare rendendo la terra friabile.
Le proteste di Hamas, riprese e amplificate dai Fratelli musulmani, l´unica vera opposizione contro il regime egiziano, che ha accusato Mubarak di aver «voltato le spalle ai palestinesi», non hanno intimidito i governanti del Cairo. «Noi non abbiamo voltato le spalle a nessuno - ha replicato il ministro degli Esteri, Abul Gheit - al confine di Rafah è in gioco la sovranità dell´Egitto sul proprio territorio».
Nel frattempo i lavori proseguono. Pare che sia stato ultimato il primo chilometro dei dodici o tredici lungo i quali correrà la barriera sotterranea a una profondità dai diciotto ai trenta metri. Ma per i commercianti e gli imprenditori di Gaza sopravvissuti all´occupazione, alla guerra civile, al blocco dei valichi e all´operazione "Piombo fuso" non è ancora venuto il momento di fasciarsi la testa. «Alla fine gli egiziani non faranno niente, cercheranno soltanto di prendere tempo - dice, sicuro di sé, Mamun Huzundar, che con le sue piccole aziende dà lavoro a centoventi dipendenti - E se anche dovessero fare la barriera, qua è il problema? I tunnel le passeranno sotto. È solo questione di soldi, ma quello che tutti devono mettersi in testa è che noi dobbiamo sopravvivere».

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