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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.05.2010 'Non riesco a perdonare la Francia'
Denise Epstein, figlia di Irène Némirovsky, intervistata da Stefano Jesurum

Testata: Corriere della Sera
Data: 21 maggio 2010
Pagina: 51
Autore: Stefano Jesurum
Titolo: «Non riesco a perdonare la Francia»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/05/2010, a pag. 51, l'articolo di Stefano Jesurum dal titolo " Non riesco a perdonare la Francia ".

Denise Epstein oggi e in una foto con la madre, Irène Némirovsky

Non perdona la Francia, e come potrebbe? Confessa una cosa che non aveva mai detto prima: «Volevano darmi la Legion d’Onore, l’ho rifiutata». A guardarla nel vento di Tolosa che quasi la porta via, scricciolo di 42 chili dal naso importante e il viso segnato dall’esistenza, vien da domandarsi come abbia fatto a trascinarsi appresso — dal luglio ’42 all’agosto ’44 —, braccata dalla polizia di Vichy e dalla Gestapo, il pesantissimo bagaglio affidatole da papà Michel, la valigia con dentro le cose più preziose della mamma: fotografie, carte, un po’ di biancheria, e «il quaderno». Ma poi basta parlare un pomeriggio e una sera con Denise Epstein per capirne il segreto: alla faccia dei 42 chili, il peso specifico di questa donnina minuscola ed elegante è di alcune tonnellate. È il peso specifico ad averle permesso, 13enne, di sopravvivere all’arresto della madre— la scrittrice Irène Némirovsky —, e subito dopo alla deportazione del padre, e al doversi occupare, completamente sola, della sorellina Elisabeth di cinque anni. Ignara di essere già orfana.

Storia incredibile e commovente che adesso è un libro, Sopravvivere e vivere, raccolta di interviste con Clémence Boulouque pubblicata da Adelphi. Ovvero dai sottoscala a quei treni abbandonati con un salto prima che entrassero nelle stazioni, dal convento di suore che le accolsero alla Liberazione, ai giorni di vana e mostruosa attesa alla Gare de l’Est, dove i vagoni scaricano fantasmi e incubi usciti dai Lager. Fino al momento in cui, anni fa, trovò insieme alla sorella il coraggio di aprire «la valigia» e di mettersi con straziato amore filiale — attenta a che le lacrime non cadessero sull’inchiostro — a ricopiare il manoscritto che nel 2004 verrà pubblicato e osannato come capolavoro: Suite francese.

Il caso vuole che Denise Epstein apra la porta di casa in avenue de Grande-Bretagne proprio il giorno in cui il quotidiano «Libération» contiene un inserto fotografico sulla Parigi occupata e i rastrellamenti. «Il mio rapporto, oggi, con questo Paese? Delicato», sorride. «Qualche anno fa, mi hanno rubato i documenti, sono andata al commissariato per sporgere denuncia, quindi al Comune per chiedere i duplicati. Mi hanno detto "no, lei non è francese. Suo padre è nato a Mosca, sua madre è di Kiev, non è possibile rifare i documenti". Le famigerate leggi contro l’immigrazione...». Si è rivolta allora alla Corte d’Appello per ottenere un certificato di nazionalità: «Sono nata a Parigi, ho sempre avuto documenti francesi, ho sempre votato...». Così si è convinta di avere fatto più che bene a condividere, da militante indefessa, le lotte dei sans papiers. «I francesi si riempiono la bocca di accoglienza e solidarietà. Parole. Io voglio stare vicino agli oppressi. Non per compassione, no, concetto troppo giudaico-cristiano. Ma perché ho una coscienza. Sono una che ancora si arrabbia, e la rabbia rende liberi». Libera come il giorno che la guerra finì e lei fece a pezzi i documenti falsi riprendendo immediatamente il nome vero, Epstein.

Nel 1939 la sua famiglia si fece battezzare. «Il giorno della Liberazione non ci ho messo molto a rendermi conto che dovevo dire chiaro e forte che ero ebrea, senza pormi il problema dell’ebraismo, che è cosa ben diversa». Definirsi ebrea e non avere alcun interesse per l’ebraismo? «Ho sempre pensato che in nome di Dio— qualunque nome gli si dia— le religioni e gli uomini commettono orrori. Non riesco a credere in un Dio che ha permesso la Shoah». Ebrea per ripicca. «Non voglio dimenticarmi mai che milioni di persone sono stati eliminati unicamente perché erano una certa cosa: ebrei. Rinunciare alla "giudeità" è ucciderli una seconda volta».

È pesante chiedere. I suoi figli però, i due maschi, e Irène... «Sì, li ho battezzati. Nel libro lo racconto. È la prima volta che ne parlo, avevo troppa vergogna». E ancora se ne vergogna. «Un giorno, stavo andando in sinagoga per Kippur, ero sull’autobus, per strada si vedevano camminare uomini con la kippà in testa. La signora vicino a me dice a un’amica: "Hai visto quanti ce ne sono ancora?". Vi rendete conto? Ha detto proprio "hai visto quanti ce ne sono ancora!"». I suoi tre figli? «Con loro ho dovuto nascondere l’angoscia, li ho cresciuti facendo i conti con la consapevolezza che alle 8 del mattino avevo una madre e alle 8,15 non l’avevo più. Io ero convinta che a loro sarebbe successa la stessa cosa. Per questo li ho tirati su forti e responsabili fin da piccoli. E li ho battezzati».

Il dolore invade il salotto pieno di dischi e di volumi (il posto d’onore — un’intera biblioteca— lo hanno le edizioni e le traduzioni dei romanzi di Irène Némirovsky). Si può soltanto deglutire, guardare gli occhi di Denise Epstein che si fanno acquosi, cambiare argomento. Che cosa sarebbe la sua vita senza musica e libri? «Non c’è vita senza libri e musica, senza figli e amici, senza i miei adorati cinque nipoti». Con i piccolini si permette di essere più dolce? «Certamente. Ed è così bello». In silenzio mi porta in giro per la casa, indica qua e là: la fotografia di due ceri davanti al forno crematorio di Auschwitz, accesi da alcuni amici in ricordo dei suoi genitori; sulla mensola dello studio una menorah, la lampada del sabato; decine di immagini della madre e della sorella («Guardi, fumano sempre. Come me»), qualcuna del padre; il figlio più grande insieme a Daniel Cohn-Bendit; nonno Léon («detto "l’arabo", ispirò David Golder»); faldoni, scatole, montagne di carte; un ritratto ingiallito (la scrittrice con al collo una collana... «l’unica cosa che mi è rimasta di lei», dice a bassa voce accarezzando la collana); su un leggìo lo spartito di Le Bal, un atto per sei voci soliste e orchestra scritta da Oscar Strasnoy per l’Opera di Amburgo e ispirata all’omonimo lungo racconto nemirovskyano.

Strana sorte, paradossale, quella della Némirovsky: eliminata dai nazisti, e dopo la guerra cancellata dal mondo letterario proprio com’era accaduto prima della guerra con gli scrittori ebrei. Lei che era stata criticatissima dalla Comunità ebraica per avere pubblicato su riviste dell’estrema destra. «Mi chiedevo con dolore come avesse potuto mia madre scrivere per una rivista come "Gringoire"... ma c’erano tutti i grandi nomi dell’epoca!». E alcuni romanzi ( David Golder, I cani e i lupi) che avevano fatto parlare di «odio di sé». Denise ironizza: «Ci sono sempre ebrei che accusano altri ebrei... a noi ci piace così».

È forte sentirla raccontare, riflettere, sparare giudizi che sibilano come proiettili, seguirla nei meandri del sentimento e della ragione fino a capire perché «per noi ebrei, stare a fianco dei perseguitati e degli oppressi è un riflesso istintivo». È devastante ascoltarla (e leggerla) quando spiega i passaggi dal «sopravvivere» al «vivere». I momenti in cui, lavorando a Suite francese, Denise ha visto rivivere sua madre. Letteralmente, fisicamente, l’ha «vista» tornare. È dunque questa l’anima di Sopravvivere e vivere? «Forse. Di sicuro un ruolo fondamentale lo ha giocato la necessità di confessare pubblicamente che avevo fatto battezzare imiei figli. Era una delle molte domande che il mio editore e carissimo amico, Olivier Rubinstein, non osava fare». Ci sono domande che lei stessa non ha osato farsi? «Ce ne sono tante che vorrei fare a mia madre. Una su tutte: perché non te ne sei andata quando potevi? Perché sei rimasta per scrivere?». Una domanda la faccio io: si capisce bene che a casa vostra «comandava» sua madre... «Sì, decideva lei le cose importanti». La domanda però era: anche suo marito… ne parla così poco... «Sto per dire una cosa mostruosa: mio marito (si erano separati e ora è morto, ndr) non conta nella mia vita. I miei amori non contano. Non sono mai stata innamorata, era come se non avessi il diritto di essere innamorata, né di ridere, né di piangere, né di essere felice. Ma non è grave».

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