Come stravolgere il senso di un libro. Modificando il titolo nella traduzione Commento di Andrea Morigi
Testata: Libero Data: 19 maggio 2010 Pagina: 37 Autore: Andrea Morigi Titolo: «La storia del mondo vista con gli occhi di Allah»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 19/05/2010, a pag. 37, l'articolo di Andrea Morigi dal titolo "La storia del mondo vista con gli occhi di Allah".
Le due edizioni del libro. Il titolo dell'edizione italiana non corrisponde a quello dell'edizione originale. Perchè?
Bisogna decidersi. La storia del mondo vista attraverso lo sguardo dell’islam è Un destino parallelo, come recita il titolo dell’edizione italiana dell’omonima opera di Tamim Ansary (Fazi, pp. 546, euro 22), oppure è “Un destino spezzato”, come nell’originale inglese, A destiny disrupted, pubblicato negli Stati Uniti da Public Affairs nel 2009? Sul dizionario trovi che il participio passato del verbo to disrupt corrisponde a “rotto”, “spezzato”, “infranto”, “spaccato”. Se si tratta di un Impero o di uno Stato, indica il suo smembramento, nel caso di una Chiesa, lo scisma. Ma non si fa riferimento a parallelismi di sorta. Proprio no. Tanto più che a far velo sarebbe un’eredità plutarchiana, quindi paradossalmente eurocentrista. Privilegiare l’ottica della composizione piuttosto che quella della contrapposizione è certamente un’operazione nobile, a patto che non si nasconda la verità con artifici letterari. Parrà, altrimenti, che «due enormi mondi fianco a fianco», ma separati da barriere religiose, politiche e sociali come l’Occidente e l’Islam (in questo caso, essendo la civiltà dei musulmani, serve la maiuscola, “saltata” per qualche motivo nella traduzione), tutto sommato abbiano viaggiato per secoli su uno stesso percorso, anche se mantenendo una certa distanza l’uno dall’altro. Che siano state prese direzioni opposte sui diritti umani e nel campo della cultura non emerge, se dici “parallelo”. Che si sia interrotto il dialogo sul valore universale della ragione, come ha messo in rilievo Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, non è un dettaglio a meno che non si dia credito alla teoria dell’Aristotele “salvato” dai traduttori arabi (che in realtà erano cristiani, ma viene taciuto). Altrimenti, che ci si sia scontrati in battaglie determinanti per la storia, a Poitiers, a Lepanto e a Vienna, per tacere della Reconquista spagnola e delle crociate, rischia di passare in secondo piano. E tacerlo è un’omis - sione, perché non si spiegherebbe nemmeno la genesi e lo sviluppo della scoperta del Nuovo Mondo da parte dei regni cristiani, che si era resa obbligatoria per evitare le rotte marine infestate dai saraceni. Nel volume, in realtà, si dà conto dell’opposizione fra il fondamentalismo e le democrazie, sia nel suo esito attuale sia nel suo radicarsi nella mentalità dei popoli: «Una parte dice: “Siete in decadenza”. L’altra risponde: “Siamo liberi”. Questi non sono discorsi opposti; è un non sequitur. Ogni parte vede l’altra come un personaggio della propria narrazione storica». L’autore, nato a Kabul nel 1948, afghano per parte di padre e statunitense per ascendenza materna e cittadinanza (vive negli Usa da quando aveva 16 anni) non evita i nodi centrali. Li affronta con metodo e serietà, attraverso due periodizzazioni schematiche, utili a tracciare gli orizzonti delle popolazioni che si riconoscono nelle due diverse memorie collettive e condivise. In fondo, dall’idea che si ha del proprio passato dipende ingran parte il futuro che si cerca di costruire. L’una, quella europea, inizia dall’Egitto e dalla Mesopotamia, passa per Atene e Roma, il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma e approda alla modernità. Nella società islamica, dopo Mesopotamia e Persia, si passa immediatamente, sebbene con unoiato, alle tappe di costruzione dell’ecumene arabo islamico, la ricerca dell’unità universale attraverso il califfato. Un itinerario al quale non mancano le battute d’arresto. Potrebbe bastare una simile frattura prospettica a dividere le civiltà e a rendere permanenti le incomprensioni reciproche. Interviene anche, tuttavia, una diversità irriducibile fra le due concezioni della storia. Anzi, della teologia della storia. E su questopunto, pursenzapretendere che un’opera prevalentemente storica come quella di Ansary si dimostri esauriente, il capitolo sugli studiosi, i filosofi e i sufi, è illuminante. Rimane comunque ancora aperta la questione, peraltro centrale trattandosi di società in cui la religione ha un ruolo fondativo, su quale posto Dio si sia riservato nella storia. Se un ebreo e un cristiano si trovano naturalmente collocati, per la natura stessa della vicenda biblica e della storia della salvezza, in uno scenario di collaborazione con il piano divino, questa prospettiva è assente nella visione del mondo islamica, dove Allah decide i destini dell’umanità nel regno dell’immanenza come in quello della trascendenza. Pur accomunati da un’esca - tologia che punta a un fine eterno, rimane una differenza fondamentale. Da un lato agisce un Creatore analogo a un regista che si avvale di una troupe e si lascia perfino uccidere per poi risorgere. Nel campo opposto, c’è una divinità che recita tutte le parti in commedia e non lascia nulla alla libertà della creatura. È questo l’elemento che scava un baratro sempre più ampio, a mano a mano che l’Occidente va laicizzandosi e pretende di cancellare Dio dal proprio destino. Fra l’assenza di termini di dialogo, Ansary individua tuttavia un tratto comune. Da entrambi i lati dello scontro di civiltà che, volenti o nolenti, si è prodotto nel tempo, non si può non riconoscere che «quel giorno, l’11 settembre 2001, due diverse storie si scontrarono, e solo una cosa apparve certa: Fukuyama si sbagliava. La storia non era finita ».
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