Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/05/2010, a pag. II, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Caccia ai capi del Califfato ".
Daniele Raineri
Per salire dal generale iracheno Qasim Atta bisogna sfilare come tutti a braccia larghe su una passerella stretta di legno. Gli uomini dei servizi di sicurezza l’hanno piazzata in mezzo a un container che serve da atrio al palazzo per tastare chi entra, perché mica possono stare chini tutta la giornata a infilare le mani nelle tasche e a toccare i polpacci a centinaia di persone. Appena fuori dall’ingresso i cani gironzolano con una palletta di gomma viola in bocca per calmarsi tra una fiutata e l’altra. Davanti, bloccata nel caldo e nella strettoia di cemento, c’è una coda di venti macchine, a motore fermo e portiere aperte, i guidatori in piedi e rassegnati. La Zona verde nel centro di Baghdad è questa, eccezionalmente svogliata e noiosa dietro eccezionali misure di sicurezza che ormai sono scolorite nella normalità. Eppure il rischio non è diminuito. Negli ultimi otto mesi questa zona – che ha perso i limiti ben definiti di prima – è stata colpita da una catena di grandi attacchi con camion bomba contro i ministeri, le sedi del governo, gli hotel e le ambasciate. Per ora la conta dei morti s’è fermata a 600. La polizia è convinta che gli uomini dello Stato islamico dell’Iraq abbiano preso in affitto un appartamento o forse un negozio all’interno della zona e stiano contrabbandando l’esplosivo, poco alla volta, ma non riescono a trovare nulla. Lo Stato islamico dell’Iraq è lo pseudo partito armato che qui si vanta di portare avanti gli interessi e i metodi ultraviolenti di al Qaida. Quando il travaso di esplosivo da fuori a dentro raggiunge una quantità sufficiente, gli uomini dello Stato islamico fanno arrivare i veicoli che servono – camion, furgoni, uno era un autobus da 26 posti – da oltre i posti di blocco, tanto passano senza problemi perché sono ancora “puliti”. Poi li preparano e li lanciano contro gli obbiettivi.
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Prudenza architettonica. Su al quinto piano l’ufficio è tutto cristalli, fiori finti, legno e tappeti foltissimi, ma non ha nemmeno una finestra perché è stato ricavato da uno spazio interno al centro del ministero. Il generale Qasim Atta ha una faccia da attore giovane – in Iraq l’esercito precedente è stato sciolto sette anni fa – baffi sottili in una rivisitazione audacemente filo occidente dei mustacchi alla Saddam che campeggiano sulle facce di tutti, un grande smartphone dorato e una grossa toppa gialla sul taschino della camicia che dice: “Iraq army”. Da tre anni registra ogni attivo e ogni passivo della guerra contro lo Stato islamico dell’Iraq, gli attentati subiti e le catture importanti messe a segno. Ha visto tutto. E’ stato portavoce militare degli iracheni durante il Fard al Qanoon, il piano per inondare Baghdad di soldati e riprenderne il controllo – il resto del mondo lo chiamava “surge” – cominciato all’inizio del 2007 con il generale americano Petraeus. Alla parete c’è una foto di tre anni fa, Atta smagrito in strada con giubbotto antiproiettile e fucile attorniato da un drappello di soldati ancora più nervosi di lui. In quella fase della guerra si trattava di una scommessa contro ogni probabilità, perché lo Stato islamico era in posizione di vantaggio assoluto sugli americani e sul governo centrale di Baghdad. Di fatto era già diventato uno stato dentro lo stato, con i propri confini, i propri esattori delle tasse e il proprio esercito, capace di attaccare la capitale con 140 attentatori suicidi in un solo mese, come nel dicembre 2006. La leadership di al Qaida/ Stato islamico si era autoproclamata giunta militare e regnava su gran parte dell’Iraq centrale con violenza sfrenata. E con un embrione di burocrazia: emetteva documenti ufficiali e persino certificati di matrimonio che saltano fuori ancora oggi.
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Talvolta l’estremismo islamista quando diventa guerra trasforma cialtroni qualsiasi, su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo, in comandanti leggendari. Omar Hadid, il capo della Brigata delle Bandiere Nere che nel novembre 2004 battagliò contro i marine a Fallujah e a cui persino il leader di al Qaida in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, dovette chiedere il permesso per unirsi ai combattimenti, prima era soltanto un elettricista guardato storto dalla polizia. “Ci veniva a montare le parabole satellitari sui tetti per un dollaro”, ricordano i signorotti di Fallujah. Lo stesso Zarqawi prima di essere l’incubo senza faccia dei primi tre anni di guerra è stato il garzone di un noleggio videocassette in un brutto paesone giordano. Baitullah Mehsud, capo di tutta la guerriglia pachistana quando fu ucciso da un missile americano, era un piccoletto – un metro e cinquanta – che s’arrangiava come istruttore in palestra. Mullah Fazlullah, il comandante della guerriglia nella valle ribelle di Swat, sempre in Pakistan, era il solitario addetto all’unico skylift del posto. Lo Stato islamico dell’Iraq rimediò alla morte di Zarqawi con la nomina strombazzata di due successori ignoti e che però non hanno deluso. Uno straniero, Abu Ayyub al Masri, l’egiziano. Faceva parte della “Prima linea”, il nucleo di 33 terroristi che arrivò in Iraq nel 2002 per preparare il caos e la violenza in vista dell’invasione americana. L’altro, Abu Omar al Baghdadi, all’inizio non era nemmeno un personaggio reale: era soltanto la voce di un attore con accento di Baghdad che leggeva e registrava messaggi audio in arabo, un leader fittizio creato dal nulla per persuadere gli iracheni di essere guidati da uno dei loro, da un capo iracheno. Quando gli americani hanno scoperto il trucco, lo Stato islamico ha rimediato la figuraccia nominando un vero al Baghdadi, un uomo di al Qaida ed ex poliziotto che vivacchiava aggiustando condizionatori d’aria. Entrambi, al Masri e al Baghdadi, non hanno avuto un grammo di violenza e determinazione in meno rispetto al predecessore Zarqawi.
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Nell’aprile 2009 il premier Nouri al Maliki ha creato una nuova unità di intelligence, mezza legata ai servizi segreti e mezza ai militari, la Khaliyat Istikhbarat, la “Cellula d’intelligence”, che risponde direttamente e soltanto a lui. Tra marzo e aprile 2010 , la Cellula ha inflitto allo Stato islamico i colpi peggiori dall’inizio di tutta la guerra, nel giro di un mese soltanto, come nemmeno erano riusciti a fare gli americani. “E’ vero, sono stati i colpi più devastanti”, hanno riconosciuto il vicepresidente americano, Joe Biden, che ormai fa le veci del presidente Barack Obama disinteressato al dossier Iraq, e il generale Raymond Odierno, lasciato a controllare il ritiro ben scandito dei soldati. Il generale Atta dice al Foglio che la Cellula d’intelligence è riuscita ad afferrare un capo del filo che lega i membri in clandestinità dell’organizzazione e, tirato quello, è arrivata fino ai leader nascosti. Il capo del filo tra le loro mani si chiama al Rawi, 35 anni, magro, mani grosse, iracheno di Fallujah ma nato a Mosca, responsabile di tutte le ultime grandi operazioni dentro la capitale – compresi i grandi attacchi contro i ministeri nella Zona verde, in un caso è stato lui in persona a guidare un camion bomba vicino alla destinazione finale. Il giorno delle elezioni a marzo i suoi uomini hanno sparato colpi di mortaio a caso sulla capitale per spaventare gli elettori. Tra il 2004 e il 2008 al Rawi è stato nella cella di una prigione americana: quando è stato rilasciato assieme ad altre migliaia di detenuti sunniti – come gesto di buona volontà verso il nuovo Iraq – è come se un pezzo fumante della battaglia di Fallujah, ibernato per quattro anni, fosse stato rimesso intatto in circolazione. I suoi chiamavano al Rawi “il dittatore di Baghdad”. Poi uno di loro l’ha tradito e l’ha consegnato alla Cellula.
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Gli agenti della Cellula vanno a prendere al Rawi a casa di notte nel quartiere di Hittin, ma non dicono a nessuno della cattura, anche se è un colpo grosso che il governo potrebbe usare per farsi un po’ di buona pubblicità. Per questo gli uomini di al Qaida non pensano all’arresto, ma credono che sia stato preso da qualche parente desideroso di vendetta o che abbia disertato e sia fuggito all’estero. Lui riappare quasi subito a fugare ogni dubbio (ma è tenuto al guinzaglio dalla Cellula) e chiede un appuntamento trappola all’uomo che fa da messaggero e intermediario con i capi, un certo Jafaar. Per evitare di essere intercettati sui telefonini, i due s’incontrano come al solito davanti a Mr Latte, un negozietto di alimentari nel grande distretto sunnita di Mansour, a cinque chilometri dalla Zona verde. Da Mr Latte, gli agenti della Cellula, che stanno naturalmente sorvegliando tutto e che subito si riprendono al Rawi, seguono Jafaar fuori dalla capitale, a nord, verso la roccaforte sunnita di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, fino a una casa isolata e circondata da un muro color ocra a pochi chilometri di distanza. Il posto si chiama al Ihiyadhiya, polveroso come il set di un film western, a nord del lago Thar Thar, un’area così brulla e poco ospitale che fino al 2007 gli americani la evitarono. La polvere sollevata dalle ruote annuncia l’arrivo di estranei da chilometri di distanza e uadi – i letti asciutti dei torrenti – profondi che spaccano all’improvviso la pianura costringono a lunghi giri chi non conosce il percorso giusto. E’ il nascondiglio di al Masri e di al Baghdadi.
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Mudhafar è un ufficiale iracheno che ha partecipato all’assalto al covo dei due leader di al Qaida in Iraq. Al telefono, in arabo, racconta al Foglio che cosa vede la mattina di domenica 18 aprile. Davanti c’è un’unità speciale a fare da apripista, aiutata dai soldati della 54 Brigata irachena che circondano la zona. Ci sono pochi americani a terra, “erano uomini dei servizi”, ma ci sono i loro elicotteri in aria. Da dentro aprono il fuoco, sono almeno in quattro a sparare, i soldati rispondono. La leggenda istantanea che s’è creata in due settimane dice che gli agenti hanno chiesto a una delle mogli dei capi di uscire, negoziare e di convincere gli assediati alla resa, ma quelli hanno preferito farsi saltare in aria perché indossavano giubbotti esplosivi. Mudhafar nega, “non abbiamo chiesto nulla a nessuna donna”, spiega che i due ricercati si infilano con le armi in uno stretto tunnel di 50 metri che parte dal bagno di casa per l’ultima resistenza, gli iracheni chiedono agli americani di sparare un missile per stanarli, li trovano lì sotto, mezzi sepolti e mezzi soffocati dalla mancanza d’aria perché il sistema d’aereazione è stato distrutto dal colpo. Durante l’attacco, un elicottero americano cade, c’è un morto. Portano fuori sedici uomini dello Stato islamico. Dentro ci sono otto computer, stampanti a colori, liste di nomi, di contatti e di telefoni cellulari, mappe, i piani per le operazioni future, informazioni dettagliate sul gruppo, lettere, materiale di propaganda e una libreria di volumi di al Qaida. E’ un centro di comando, non un magazzino o un arsenale: di armi trovano soltanto quelle personali. Gli uomini della Cia prelevano campioni di dna dai corpi per confermare l’uccisione.
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Quelle liste sono state la chiave per smembrare mezza organizzazione e forse più. Grazie ai ritrovamenti, in due settimane la Cellula arresta il comandante di al Qaida responsabile su tutto il nord del paese – che è ancora violentissimo – e il leader storico del secondo gruppo terrorista più pericoloso dell’Iraq, alleato e precursore dello Stato islamico, Ansar al Sunnah. Nel palazzo di Baghdad il generale Atta spiega che i numeri, le telefonate registrate, le lettere, e le e-mail trovate sui computer sequestrati nel covo provano i collegamenti diretti tra i capi di al Qaida in Iraq e i leader di al Qaida Osama bin Laden e Ayman al Zawahiri. Ci sono intercettazioni telefoniche? Il generale non risponde, ma annuisce. E’ il collegamento diretto tra i vertici storici di al Qaida che si nascondono sull’Hindu Kush, sulle montagne tra il Pakistan e l’Afghanistan, e i capi arabi di al Qaida in Iraq, che escono ed entrano nelle aree metropolitane dell’Iraq con operazioni devastanti e poi si ritirano nei deserti per organizzare le mosse successive. Sono due fronti comunicanti. “Se gli americani prenderanno Bin Laden e al Zawahiri, sarà grazie alle informazioni che passeremo noi. Hanno bisogno di noi, ora”, dice il generale Atta.
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C’è anche un secondo collegamento, che può sembrare meno rivelatore ma è altrettanto cruciale. Le prove raccolte ad al Ihiyadhiya puntano anche in una seconda direzione, verso Damasco e verso Sheikh Issa al Masri, un predicatore egiziano mandato da al Qaida in Siria a riattizzare il fronte del terrore iracheno dopo che negli anni scorsi – con il suo carisma – aveva già scatenato la rivolta islamista nelle aree tribali del Pakistan contro il governo di Islamabad. La Siria confina con l’Iraq e il regime ha mostrato negli ultimi anni di non essere troppo interessato a intralciare al Qaida. Issa, “Gesù” in arabo, al Masri è l’uomo a cui si debbono gli ultimi tre anni di violenza pachistana: e ora si è spostato in medio oriente per ritrascinare nel caos Baghdad la rinata.
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“Autobomba. Distante duemila metri”. Il botto arriva, supera anche il rumore dei generatori elettrici alti quanto un uomo – sono l’unico sistema per avere energia 24 ore al giorno – poi si abbassa fino a perdersi di nuovo con gli altri rumori del centro della capitale. Freddie Valdez è un contractor di sicurezza, indica un punto vago oltre l’ansa del Tigri. “In quella direzione”. Si sta un po’ ad aspettare il fumo sopra il profilo dei palazzi, ma non si vede nulla, l’aria del tramonto è troppo grigia. Sono le sei di sera di venerdì, i fedeli sono ancora sulla porta delle moschee dopo avere ascoltato i sermoni, e per gli uomini dello Stato islamico (al Qaida) in cerca di civili sciiti da colpire è uno dei momenti preferiti. Freddie si gira, “Quando hanno attaccato qui dietro all’ambasciata tedesca ho provato il botto più vicino, cento metri massimo”. Le autobomba non sono finite, anzi, sono un fatto quasi quotidiano. Dopo una doppia eliminazione così grave, lunedì 10 maggio lo Stato islamico dell’Iraq ha lanciato una grande operazione di rappresaglia durata un giorno intero, in tutto il paese, da nord a sud. Sette autobomba, due volontari suicidi a piedi, sette assalti mitra in pugno (con silenziatori, preoccupante evoluzione), undici bombe fatte saltare in aria a distanza. Centoventi morti, per provare di non essere in ginocchio. E ha nominato un nuovo ministro della Guerra, Nasser al Din Allah Abu Suleiman, al posto di al Masri. Con un nome arabo così lungo non può che essere iracheno, ma questo non gli ha impedito di annunciare subito altri prossimi sfracelli contro i civili sciiti. Il problema è che l’uccisione del riparatore di condizionatori d’aria, lo spietato al Baghdadi, è stata per lo Stato islamico anche un disastro teologico. Al Baghdadi, a dispetto delle sue condizioni umili, poteva vantare una linea diretta di discendenza qureishita e hashemita. Aveva le carte in regola per diventare califfo, come nel periodo più splendido delle conquiste islamiche. E proprio per questo era stato fondato lo Stato islamico, per ricreare lo spirito di Medina, quando un’avanguardia sparuta attorno al profeta Maometto – in condizioni molto più disperate delle nostre, amano sottolineare i terroristi di Baghdad quattordici secoli dopo – mosse guerra contro i vicini da stato contro altri stati. La linea genealogica di sangue era interpretata come un segno del ritorno dei tempi, un nuovo califfo che annuncia l’avvento del nuovo Califfato islamico e arabo, finalmente, e non più l’aspra guerriglia da esuli imbarbariti tra i pashtun, laggiù a ovest, tra le montagne afghane. Sul lungo periodo potrebbe essere stata la morte sotto un missile di questa ambizione incarnata, più che le liste ancora in mano all’intelligence irachena, a recidere il destino della guerriglia filo al Qaida nella terra dei due fiumi.
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