Cari amici, sapete da dove viene la parola boicottaggio? Deriva dal nome del capitano inglese Charles Cunningham Boycott (1832-97), un amministratore terriero vissuto nel XIX secolo in Irlanda, che maltrattava i contadini tanto che questi si organizzarono per non lavorare con lui finché il capitano fu costretto a tornarsene a casa. Da allora i boicottaggi si sono succeduti e non ve li posso naturalmente citare tutti. Certi, senza dubbio condivisibili, come quello contro il Sudafrica dell'apartheid; certi altri proprio per niente, come quelli imposti dai fascisti e dai nazisti ai commerci ebraici. I nemici di Israele dicono di ispirarsi al Sudafrica (forse perché affascinati dai precedenti del giudice Goldstone). Ma di fatto assomigliano molto a quelli che invitavano a non comprare nei negozi non ariani.
E ce ne sono tanti in giro per il mondo, anche se da noi per fortuna fanno fatica ad attecchire (con la debolissima eccezione del sempre più vaneggiante Gianni Vattimo). Per esempio, l'autorità palestinese ha appena deciso di boicottare non solo i beni prodotti negli insediamenti ebraici di Giudea e Samaria, imitati in ciò dagli arabi israeliani, ma in generale quelli di Israele. Nella quasi totalità del mondo arabo tutto ciò che è israeliano non entra; quel che fa meraviglia è che questo accada anche in paesi che teoricamente hanno fatto la pace con Israele, come la Giordania. I filopalestinesi boicottano i cosmetici israeliani del Mar Morto che sono particolarmente efficaci (una ragione di più per volere il burka), gli eurabissimi norvegesi e svedesi hanno disinvestito dalle aziende israeliane di alta tecnologia che producono strumenti di sorveglianza elettronica per impedire agli attentatori suicidi di superare la barriera di sicurezza (e si capisce, da quelle parti Nobel si è arricchito con la dinamite che serve per i proiettili e le bombe). Il boicottaggio economico è proibito dalla legge americana, ma le organizzazioni studentesche di sinistra ci hanno provato chiedendo che gli investimenti dell'Università di California a Berkeley boicottassero Israele. Il loro portavoce, Mattew A. Tayler, ha pubblicato sull'argomento un articolo, naturalmente su "Haaretz", che già dal titolo esibisce, oltre che molta presunzione, un tono stridevolemente antisemita, perché rimette in gioco vecchi stereotipi razziali: "Un colpo chirurgico al portafoglio di Israele può far cessare l'occupazione" (http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/a-surgical-strike-on-israel-s-wallet-could-end-the-occupation-1.287479).
In realtà chi crede di colpire Israele nel portafoglio con il boicottaggio rischia un bell'effetto boomerang, perché un bel pezzo di alta tecnologia informatica e medica d'avanguardia è frutto della ricerca israeliana. Se proprio non si volessero prodotti made in Israel si dovrebbe rinunciare non solo ai cosmetici, ma anche ai computer, ai motori di ricerca, ai cellulari. Probabilmente a metà del mondo arabo che vive con la testa almeno nel medioevo non farebbe troppa differenza, ma chissà come se la caverebbe il buon Taylor a Berkeley.
Per finire, voglio citarvi un boicottaggio che ritengo giusto; e non prendetemi per fazioso se vi dico che in questo caso è una comunità ebraica a boicottare e non a essere boicottata. E' un boicottaggio senza contenuto economico, che ha solo il senso morale di una presa di distanza e di un ammonimento. La settimana scorsa gli ebrei austriaci hanno rinunciato a partecipare alla giornata della memoria del campo di Mauthausen, il maggiore Lager nazista in territorio austriaco, che si tiene ogni anno nel parlamento di Vienna, per protestare contro quella che ormai è un'alleanza fra l'Austria e l'Iran di Ahmadinedjad. L'dea di celebrare i 120 mila morti per mano di nazisti accanto agli amici del regime iraniano, che vorrebbero rinnovarne i fasti, era giustamente insopportabile per quel che resta degli ebrei austriaci (http://www.jpost.com/International/Article.aspx?id=175037).