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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
16.05.2010 Ugo Tramballi affronta l'economia israeliana
Evitare di leggerlo se si vuol capire qualcosa

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 16 maggio 2010
Pagina: 11
Autore: Ugo Tramballi
Titolo: «Netanyahu il populista (per ragion di coalizione)»

Per criticare Israele e il governo di Benjamin Netanyahu, Ugo Tramballi adopera ogni mezzo scorretto. Sul SOLE24ORE di oggi, 16/05/2010, a pag. 11, un articolo dal titolo "Netanyahu il populista (per ragion di coalizione)" attacca il governo di Bibi, questa volta sul fronte economico. Tramballi dimentica però che Israele ha una delle più floride economie del pianeta, ed è stato uno dei Paesi che risentito meno della crisi finanziaria mondiale di questi mesi. Stupisce che sul principale quotidiano economico possano comparire articoli simili su questioni di politica economica internazionale.
L'antipatia di Tramballi per Israele si manifesta in ogni riga del suo articolo, sia che parli della Borsa di Tel Aviv, sia che scriva di camicie con o senza cravatta, per distinguere lo stile di Ben Gurion da quello delle grandi famiglie dell'economia del Paese. Persino quando elogia le aziende israeliane quotate al Nasdaq riesce a farlo con astio. Quando poi scrive che "
Né il premier di oggi né il ministro delle Finanze Steinitz scendono nei dettagli riguardo a come spezzare le reni agli oligarchi", ci chiediamo se non sia rivelatore di qualche nostalgia mussoliniana il linguaggio che adopera. Via, Tramballi, spezzare le reni !
Eviti poi di citare A.B. Yehoshua (e impari a scriverne almeno correttamente il cognome), perché il pensiero di Yehoshua, grande scrittore e noto commentatore della politica israeliana, non può essere deformato e ridotto con la citazione delle tre righe che lei ha scelto.

Ecco l'articolo:


Ugo Tramballi         Bibi Netanyahu               A.B. Yehoshua

Con una svolta liberista che non aveva precedenti nella storia del più socialista dei paesi occidentali, Israele assestava gli ultimi colpi a ciò che restava del welfare statale. Il costo sociale non fu di poco conto: un israeliano su tre era diventato povero; in media un manager guadagnava 43 volte più dello stipendio minimo sindacale; il 20% più ricco della società israeliana possedeva il 44% della ricchezza nazionale, il 20 più povero il 6. Era il 2005. Il ministro delle Finanze di quella svolta era Bibi Netanyahu.
Cinque anni più tardi, oggi: «Stiamo cercando di capire come proibire l'azionariato incrociato di compagnie finanziarie e non finanziarie». È iniziata la campagna contro le grandi imprese private israeliane, quasi tutte imprese di famiglia, abituate a non subire controlli. Lo promette il primo ministro israeliano. Ancora Bibi Netanyahu. Fra il liberista Netanyahu ministro delle Finanze e il liberal Netanyahu premier, fra l'uomo che ha spezzato il monopolio dello stato e quello che ora vuole rompere anche quelli privati non ci sono solo cinque anni. Ci sono anche due diverse coalizioni di governo: allora, premier Ariel Sharon, c'era soprattutto il Likud anti-socialista per scelta storica. Oggi c'è un'eterogenea coalizione che non sta insieme senza gli ultra religiosi e i sefarditi populisti delle classi più povere del paese. Più del rigore ideologico la principale qualità politica di Bibi è sempre stato l'opportunismo.
La svolta, annunciata al Financial Times, ha una logica. Come spiega Yuval Steinitz, il ministro delle Finanze, «il problema è chiaro. In Israele abbiamo un'evidente concentrazione di grandi imprese e corporation che sono controllate da 20-30 famiglie». Lo dice anche la Banca centrale: 20 famiglie da sole controllano un'impresa su quattro nel listino della Borsa di Tel Aviv. Occorre dunque agire contro la concentrazione della proprietà senza tuttavia «eccedere in regole », precisa ancora Steinitz. Per capire meglio bisogna anche aggiungere che le grandi famiglie imprenditoriali israeliane non hanno mai formato una lobby, non sono mai intervenute a gamba tesa sul mondo politico in un paese le cui priorità condivise sono sempre state la sopravvivenza e la sicurezza nazionale. Tuttavia il business privato, "gli oligarchi" come li chiamano adesso al governo, ha sempre favorito un compromesso politico allo scontro militare con i palestinesi; e quando vota, in genere, preferisce i laburisti al Likud. O, come alle ultime elezioni, Kadima.
Eli Hurvitz di Teva, il padre dell'imprenditorialità privata israeliana; il re dei diamanti Lev Leviev; Yitzhak Tshuva, gli Ofer e gli altri non sono il frutto del disordine come gli oligarchi russi. Sono nati faticosamente in mezzo ai conflitti regionali e nel sistema sionista originale, un socialismo di guerra in purezza. Allora anche portare la cravatta, e non il collo della camicia aperto sulla giacca come Ben Gurion, era guardato con disprezzo. Diversamente dall'avidità e dall'egoismo degli oligarchi post-sovietici, quelli israeliani hanno attivamente partecipato alla costruzione di Israele; loro e i loro figli hanno combattuto tutte le sue guerre.
L'inizio della fine del sistema pubblico e dello stato sociale non l'ha provocato Bibi Netanyahu ma Shimon Peres. Quando avviò le riforme economiche drammaticamente necessarie, a metà degli anni 80, l'inflazione era al 445%, il deficit di bilancio al 15, le riserve valutarie insignificanti. Quando Bibi ha fatto le sue riforme, nel 2005, l'inflazione era già al 4%, le riserve erano di 23 miliardi di dollari e quella israeliana era un'economia da 125 miliardi. Al Nasdaq di New York solo americani e canadesi avevano più imprese quotate di Israele.
Né il premier di oggi né il ministro delle Finanze Steinitz scendono nei dettagli riguardo a come spezzare le reni agli oligarchi. In un paese di soli 7 milioni di abitanti, 5 dei quali ebrei, è strutturalmente difficile garantire grandi opportunità di business per tutti. Israele non ha un vero mercato interno e nemmeno regionale. Anche con l'Egitto, in pace da più di 30 anni, gli scambi sono quasi inesistenti. I suoi mercati Israele ha dovuto cercarli lontano. In Europa occidentale, in Giappone, nel Nord America. E per arrivare laggiù occorreva un peso specifico che i piccoli non hanno. Più del 50% di quel che Israele produce viene esportato e la metà di questo è alta tecnologia. Solo l'hi-tech esploso negli anni 90, è stato una grande opportunità per i nuovi venuti: ha creato una nuova classe imprenditoriale, diversa da quella storica familiare.
Cinque anni fa, guardando i risultati sociali del primo Bibi Netanyahu, il riformatore liberista, A.B. Yoshua non riusciva a trovare meriti ma un solo grande demerito: «la responsabilità di aver creato una nuova classe in questo paese: quella dei lavoratori poveri ». Oggi il riformatore opposto, sembra un improbabile Barack Obama d'Israele.

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