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Il Foglio Rassegna Stampa
12.05.2010 Il movimento neocon e le sue trasformazioni nel corso degli anni
nel libro ' Neoconservatism. The biography of a movement ' Justin Vaïsse

Testata: Il Foglio
Data: 12 maggio 2010
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Scoop della sinistra americana, i neocon non sono morti»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/05/2010, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Scoop della sinistra americana, i neocon non sono morti ".


La copertina del libro ' Neoconservatism. The biography of a movement' di Justin Vaïsse

Washington. “Il neoconservatorismo era adatto durante la Guerra fredda, negli anni Novanta e lo è ancora oggi” è la massima con cui l’intellettuale William Kristol – figlio del vate dei neocon Irving, da cui ha ereditato fra l’altro il gusto per le massime – spiega al Foglio come la saga dei neoconservatori non sia finita a prendere polvere nella soffitta delle idee con la dipartita di George W. Bush. Kristol e i suoi hanno una certa consuetudine con i necrologi ideologici: i neocon sono stati dati per morti un certo numero di volte, salvo poi ripresentarsi con motivazioni più solide di quelle che sostenevano la vita precedente. La fine della Guerra fredda doveva essere il rantolo finale per quella corrente battagliera fatta di transfughi della sinistra radicale in rotta dopo lo sfascio ideologico della controcultura; l’inizio luminoso della presidenza Clinton non lasciava speranze di ritrovare un centro propulsore. In entrambi i casi i neoconservatori hanno organizzato le spettacolari resurrezioni che hanno portato alla presidenza di Bush, repubblicano mainstream profondamente influenzato dalle idee di un gruppo stratificato, elitario e allo stesso tempo popolare, sedentariamente stabilito nei think tank di Washington – l’American Enterprise Institute è il quartier generale – dopo essere stato a lungo nomade fra i college californiani, le università della Ivy League e la buona società di New York. “All’American Enterprise Institute alcune delle menti più brillanti d’America sono al lavoro sulle sfide più importanti del nostro paese. Producono risultati così rilevanti che la mia Amministrazione ha preso in prestito venti di queste menti”, ha detto Bush nel febbraio 2003, quasi a voler sottolineare quanto l’impianto della politica estera del post 11 settembre fosse il frutto di un “prestito” da parte di una galassia intellettuale. Nel mondo multistrato, eterogeneo dei neoconservatori si era distillata nel corso degli anni una politica estera basata sulla sicurezza, sulla democrazia come mezzo e non soltanto come fine dell’azione, sull’unilateralismo americano in opposizione al mondo plastificato dell’Onu, sommamente avversato perché rappresentava l’esatto contrario di ciò che il mondo era veramente. Infine, l’universalismo della democrazia, la capacità di esportare un bene affermando, contro la scuola realista, che le verità sostantive dell’America non fossero limitate a certe condizioni storiche. Il cuore della democrazia era non soltanto riproducibile ma universale. Intellettuali come Irving Kristol Norman Podhoretz, Robert Kagan si trovavano affiancati da strateghi ed esperti di sicurezza come Paul Wolfowitz e Richard Perle nella grande corte intellettuale del presidente Bush. L’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca doveva essere, nelle speranze dei liberal, il ritorno dei neoconservatori in serie B, in una posizione residuale e ininfluente rispetto ai destini di un’America sognante finalmente liberata dai deliri di onnipotenza coltivati fra il Pentagono, la Casa Bianca e l’Aei. Il libro di Justin Vaïsse in uscita in America a fine maggio per l’Harvard University Press, “Neoconservatism. The biography of a movement”, racconta un’altra storia. Vaïsse è francese, ma studia la politica americana dall’osservatorio privilegiato della Brookings Institution, il think tank preferito dall’Amministrazione Clinton e la più grande fucina di idee della capitale. Idee che tendono principalmente a sinistra. Per questo il libro di Vaïsse è uno dei punti chiave dell’ennesima resurrezione dei neoconservatori. Si tratta di una descrizione puntale, con solidi riferimenti storici dello stato di salute di quello che già alcuni dei suoi padri fondatori preferivano chiamare “tendenza” invece di movimento, “persuasione” invece di partito. “Ben lontano dall’essere un culto isolato, il neoconservatorismo è una parte integrante del dibattito sulla politica estera americana, in cui realisti e liberal sono le controparti. E mentre qualcuno sostiene che i neoconservatori siano stati definitivamente screditati dai risultati della guerra in Iraq, uno sguardo imparziale alla loro presenza intellettuale e al loro dinamismo politico a Washington dice che le cose non stanno così. E’ assurdo pensare che non avranno un ruolo fondamentale nel futuro della politica americana”, scrive Vaïsse. Il libro ripercorre la storia di un movimento intellettuale la cui complessità è stata spesso ridotta a slogan a una dimensione. Ci sono le “tre età” del neoconservatorismo, segno di una identità in evoluzione. Il primo gruppo è quello dei fuoriusciti dalla sinistra radicale alla fine degli anni Sessanta, una diaspora intelletuale in rotta con la controcultura (anche per l’antisionismo insopportabile per i molti ebrei futuri neoconservatori) che rinasce attorno alle riviste The Public Interest di Irving Kristol e più tardi Commentary di Norman Podhoretz. La seconda età è legata al senatore democratico Henry “Scoop” Jackson, avvocato di una politica estera aggressiva verso l’Unione Sovietica e di iniziative domestiche ispirate al New Deal di Roosevelt. E’ la terza età, quella elaborata poco prima della presidenza Reagan, che restituisce i caratteri del neoconservatorismo come è oggi, un movimento diventato moneta corrente sotto la presidenza Bush ma difficilmente afferrabile attraverso l’uso esclusivo della lente distorcente delle guerre in Iraq e Afghanistan. Un movimento atipico, quello dei neoconservatori, i “Wilsoniani con gli stivali”, i falchi in politica estera che ai loro albori si occupavano esclusivamente di questioni interne; quella galassia fatta discendere senza soluzione di continuità dalla filosofia di Leo Strauss, pensatore di cui l’intellettuale neocon Bob Kagan dice di “non aver mai capito una parola”. Un movimento senza una chiara base sociale o religiosa ma con senso della patria e visione globale. Agli eventi dell’Aei, prima di cominciare, tutti si alzano in piedi e cantano “America the beautiful”.

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