Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/05/2010, a pag. 29, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " La questione palestinese. Il negoziato inceppato ".
Sergio Romano elude parte della domanda del lettore, quella riguardante i rischi che Israele corre a causa di Hezbollah e Siria. Evidentemente i potenziali morti israeliani non meritano rilievo.
Nella risposta, Romano non ha potuto negare che nel 2000 sia stato Arafat a rifiutare uno Stato palestinese, ma ha anche aggiunto che " non sarebbe giusto ignorare che le proposte di Barak erano soprattutto verbali e che sulla questione di Gerusalemme, in particolare, molti punti restavano indefiniti ". Tanto valeva scrivere che se Arafat ha rifiutato la responsabilità è stata di Israele e dello scarso impegno del governo israeliano. Non è ben chiaro in base a quali elementi Romano muova queste critiche a Barak. Oltre a tutto c'era un testimone, Bill Clinton, e tuitta la stampa mondiale, altro che verbali !
Finora i negoziati con i palestinesi non hanno portato a nessun risultato a causa della volontà dei palestinesi, in grado di rispondere sempre la stessa cosa a qualunque proposta e cioè 'no'. E' evidente che agli arabi non interessa fondare uno Stato palestinese, ma inglobare quello israeliano, 'dal fiume al mare'.
Ecco lettera e risposta di Sergio Romano:
Sergio Romano
Lei ha risposto a un lettore sostenendo che la posizione di Israele su Gerusalemme non è cambiata (dal 1967). Eppure nel 2000 l’allora premier israeliano Barak, nella trattativa con Arafat a Camp David, offrì alla controparte, oltre a tutto il resto, anche Gerusalemme Est, dimostrando che quando la trattativa arriva ad un punto avanzato tutto può essere negoziato. Allora Arafat rinunciò sciaguratamente alle offerte e innescò la seconda Intifada senza che il mondo occidentale riuscisse ad esercitare sufficienti pressioni per farlo desistere. Adesso tutti si aspettano che Israele «restituisca i territori» non si sa bene in cambio di che: forse per farsi bombardare dal Golan dai siriani, alleati del Paese che vorrebbe distruggerlo? Sono passati 10 anni da Camp David: il nuovo presidente americano faccia finalmente un atto efficace in politica estera e promuova un nuovo incontro fra il leader israeliano e quello palestinese (ma non di Hamas) nello stesso posto e vediamo che succede.
Fabrizio Logli
Caro Logli,
Intendevo dire che non vi è stato governo israeliano, dal 1967 a oggi, che non abbia autorizzato l’espansione degli insediamenti coloniali nei territori occupati e la costruzione di nuove unità abitative nei quartieri di Gerusalemme est. Non è difficile immaginare quali possano essere le reazioni di una controparte che vede rimpicciolire sotto i suoi occhi, nel corso del negoziato, l’oggetto dell’accordo. A Camp David, nel 2000, Arafat avrebbe dovuto accettare la sfida e commise probabilmente un errore. Ma non sarebbe giusto ignorare che le proposte di Barak erano soprattutto verbali e che sulla questione di Gerusalemme, in particolare, molti punti restavano indefiniti. Come ricordava Gideon Rachman in un recente articolo apparso sul Financial Times, esiste una storiella palestinese che riassume bene i termini della questione: «Stiamo trattando sul modo in cui dividere una pizza e gli israeliani, nel frattempo, continuano a sbocconcellarla». Lei sostiene che il presidente Obama dovrebbe promuovere un nuovo incontro israelo-palestinese a Camp David. Ma parecchi esponenti della politica israeliana hanno dichiarato che la ripresa dei negoziati dovrebbe avere luogo «senza condizioni». Intendevano dire, ovviamente, che il presidente degli Stati Uniti dovrebbe smetterla di chiedere il congelamento degli insediamenti. Non credo che Obama possa rinunciare alla sua linea e non credo che possa esservi un utile negoziato se Israele non rinuncia a pregiudicare con le sue operazioni edilizie l’esito della partita.
La ripresa del negoziato dipende quindi, a questo punto, da Israele. Il guaio, caro Logli, è che Netanyahu non potrebbe cedere alla richiesta americana neppure se lo volesse. È alla testa di una coalizione in cui sono presenti le componenti più radicali del nazionalismo religioso israeliano. Dagli anni della sua fondazione il Paese è molto cambiato. La generazione laica e progressista del movimento sionista ha ceduto il passo a una nuova generazione composta in parte da immigrati russi ed ebrei ortodossi. I primi conservano ancora per molti aspetti una mentalità «sovietica» e i secondi sono animati da un irredentismo biblico che respinge qualsiasi soluzione negoziata. Un altro governo, forse, potrebbe accettare la richiesta di Obama. Ma gli elementi più moderati della politica israeliana non hanno torto quando osservano che il rischio, in tale caso, è quello di una grave crisi nazionale, se non addirittura di una guerra civile. Continuiamo a parlare di due Stati destinati a convivere su uno stesso territorio, ma quello palestinese non esiste ancora e quello israeliano attraversa uno dei suoi momenti più difficili.
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