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Il Foglio Rassegna Stampa
30.04.2010 Soldati Usa nella guerra al terrorismo: dall'Iraq all'Afghanistan
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 30 aprile 2010
Pagina: 6
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Loro non lo chiamano ritiro»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/04/2010, a pag. II, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Loro non lo chiamano ritiro ".


Barack Obama

Baghdad, dal nostro inviato – Al settore militare dell’aeroporto internazionale di Baghdad – ex Saddam Hussein – la procedura è rimasta la solita, diffidente e irta di precauzioni. Poco prima dell’atterraggio l’aereo spegne di colpo tutte le luci, nella carlinga ne rimangono soltanto poche e rosse a illuminare le facce assonnate di un centinaio di soldati. Quando il portellone posteriore finalmente si abbassa i cento saltano a terra, camminano in fila indiana, fanno un lungo giro a U nel buio attorno all’aereo per evitare il getto ancora potente dei motori e dopo due minuti si infilano in un passaggio stretto nella muraglia di cemento accanto alla pista, tra i T-wall – le barriere prefabbricate che sono dappertutto – e i cubicoli con la scritta gialla “duck and cover”, buttati qui dentro e tieniti al riparo in caso di attacco. Ma è tutto qui. Dall’altro lato del settore militare ci sono già i bus pronti, i soldati devono prima aspettare all’aperto di recuperare le sacche, è “la prima di una serie infinita di attese noiose”, anche se non lo dicono proprio con queste parole. Un maxischermo trasmette “Avatar” e poi “King Kong”, la vecchia versione. Il clima generale è rilassato. Verso est, oltre le piste e le reti invisibili nel buio, c’è una linea bassa e luminosa: Baghdad.
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Il personale di terra, che è un ibrido che popola le installazioni logistiche, fatto per metà da civili in uniforme da americano in Iraq – sempre: il cappello da baseball, i jeans a sacco, la radio alla cintola – e per metà da militari – divisa e pistola –, racconta che quando la settimana scorsa la nube di cenere ha bloccato anche i voli militari sulla Germania gli americani hanno dovuto pensare in fretta: dove li mandiamo i feriti gravi in arrivo dalla guerra in Afghanistan che necessitano di cure sofisticate in un luogo tranquillo? Li mandiamo poco a nord di Baghdad, è stata la risposta, alla base di Balad, dentro il triangolo sunnita. Tre anni fa Balad era uno dei posti più violenti nel paese più violento del mondo e i feriti della guerra in Iraq erano evacuati il prima possibile verso gli ospedali militari in Germania, avevano bisogno della tecnologia medica e del silenzio da cattedrale delle basi europee costruite dagli Alleati alla fine della Seconda guerra mondiale. Ora i soldati americani dal fronte afghano sono accolti dalle retrovie stabilizzate dell’Iraq, da quel pezzetto d’America che con i suoi siti discreti è rimasto piantato in medio oriente.
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La situazione qui non è ancora al 100 per cento – e nemmeno al 90 – sotto controllo. La guerra non finisce ancora e la tensione segue sulla mappa una linea ascendente di quasi mille chilometri. In basso, a sud, il livello della tensione è nullo, cartina bianca; ma mano a mano che si procede verso nord la violenza cresce, cartina rossa. Sulla base settentrionale di Halijwa piovono uno o due razzi alla settimana. A Kirkuk nella prima settimana di aprile due soldati della Spartan Brigade sono stati uccisi da raffiche sparate dai guerriglieri. A marzo sono scoppiate venti bombe nella seconda città più grande del paese, Mosul. Due giorni fa tre colpi di mortaio hanno ucciso due poliziotti nella zona nord di Baghdad. Per questo Washington ha appena deciso di non abbassare il numero di forze speciali presenti, anche se servirebbero su altri campi di battaglia: c’è lavoro da fare, i raid e le azioni antiterrorismo continuano. Il paese è debole e in stato di confusione post elettorale, ci sono elementi pericolosi in circolazione che ne approfittano: si tengono bassi nella calca ma aspettano soltanto il momento giusto per nuove stragi e altre distruzioni.
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Eppure è chiaro che per la maggioranza dei 95 mila soldati in Iraq – il numero si dimezzerà e scenderà a 50 mila entro quattro mesi – la guerra è finita, e soprattutto, e conta di più, che è già finita dentro le loro teste. Non c’è stata una data speciale o una firma ufficiale a fare da interruttore mentale, di sicuro non il giorno del Sofa – lo Status Of Force Agreement firmato nel 2008 con il governo iracheno da George W. Bush e lasciato sostanzialmente invariato dal presidente Obama – o il voto parlamentare di marzo, ancora imprigionato in una nuvola torbida e indecifrabile peggio di quella islandese (l’ultima notizia è che il premier uscente Nouri al Maliki, sconfitto per due soli voti da Iyyad Allawi, ha fatto annullare la vittoria di un candidato rivale sospettato di essere baathista: ora potrebbe diventare un pareggio). Ma nelle teste e negli occhi dei soldati l’interruttore è scattato lo stesso. Quando si arriva alla Zona verde di Baghdad c’è ancora e sempre la penosa procedura di riconoscimento dei documenti, ma nessuno fruga più dentro le vetture e nemmeno gli zaini. C’è la confusione da “questa situazione è provvisoria per sempre” che è tipica sia degli eserciti sia dei paesi arabi – e qui ci sono due eserciti assieme, in un paese arabo –, i tubi di gomma, i gruppi elettrogeni, i serbatoi enormi di acqua potabile. Ma i T-wall di cemento grezzo sono stati sostituiti da altri Twall, intonati al colore antico dei palazzi e ingentiliti da uno schematico bassorilievo in stile Mesopotamia, i bambini giocano tra gli alberi e ci sono giardinieri al lavoro senza troppi affanni. I contractor ugandesi e peruviani con gli occhiali scuri sotto i cappelli flosci e il fucile in mano passano piano dal lato al sole a quello in ombra delle barriere anti autobomba. All’interno del centro stampa militare, i grandi frigoriferi sempre pronti per le conferenze improvvisate e per una quarantina di ospiti inattesi ora sono semivuoti, c’è la malinconia di una casa delle vacanze estive quando si entra fuori stagione. Nel giardino all’esterno c’è un barbecue usato di recente. Un soldato americano si acquatta dietro una siepe, in mano ha una pistola ad acqua.
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Poi, alla sera, mentre si aspetta alla Washington Lz, la zona d’atterraggio degli elicotteri dentro la Zona verde a pochi metri dalle rive del Tigri, Baghdad si scuote a ricordare che razza di città è: un razzo da 122 mm piove sulla pista, partono le sirene e gli altoparlanti. “Duck and cover”, infilarsi nei cubicoli di cemento. Gli elicotteri escono in volo per trovare la squadra che ha lanciato il razzo, uomini in tuta frugano con le pile il terreno per portarne via i frammenti, c’è il rischio che siano risucchiati dai motori e siano più pericolosi del colpo stesso. Voli annullati. Forse per gli americani la guerra è finita, ma per gli altri no.
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Al capo nord di questa linea della violenza ci sono le basi come FOB Summerall. Gli americani l’hanno riconsegnata agli iracheni quattro giorni fa dopo avere lavato via i murales fatti in onore dei 54 caduti durante gli anni di guerra. Hanno cancellato ogni segno della propria presenza, l’hanno “sterilizzata” – “sterilizzare” ora è il verbo che accompagna i soldati nella lista obbligatoria di 113 punti che devono seguire prima di sgombrare. In gergo indica il procedimento che trasforma una base americana carica di storia recente in un’installazione spoglia e neutra, pronta per essere ceduta all’esercito dello stesso paese in cui sono morti quattromila commilitoni. Prima del 2003, l’ormai ex Summerall era una base per gli elicotteri di Saddam Hussein.
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Entro pochi mesi, delle 54 basi americane nel nord dell’Iraq ne rimarranno nove. In tutto il paese, da 225 il numero sarà ridotto a 96, le altre saranno sterilizzate. I ricordi dei soldati che ci hanno vissuto, che da quei cancelli sono partiti per andare a combattere, che tra quei T-wall hanno incassato migliaia di attacchi con razzi e mortai, perso i compagni e trasformata la memoria di ciascun caduto in altrettanti simulacri, però, non si sterilizzano. A Summerall, come dappertutto, la mensa, la palestra, il circolo portavano tutti nomi di caduti. C’è chi ammette di andare su Google Earth per vedere su Internet le immagini dall’alto dei posti in cui è stato e che poi ha abbandonato, un momento di nostalgia che nessun veterano nella storia ha mai potuto avere così a portata di mano.
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In generale, la transizione è facilitata dal fatto che le unità che sterilizzano e lasciano il resto agli iracheni sono arrivate quando ormai la violenza era scemata, i rischi erano diminuiti, i capitoli orrendi o eroici ormai consegnati alla memoria delle unità precedenti. Da mesi i soldati stanno facendo una cernita del materiale che può essere riutilizzato e di quello che invece non può essere mosso o che si preferisce cedere all’esercito di Baghdad. Da Summerall beni per un valore di venti milioni di dollari sono tornati nella disponibilità del Pentagono e una montagna di roba da due milioni di dollari è finita a chi verrà dopo: diciotto impianti per le docce, un migliaio di condizionatori d’aria, ventuno gruppi elettrogeni. C’è pure una legge americana apposta, che autorizza ogni comandante impegnato in questo sforzo logistico – che “non ha precedenti nella storia militare moderna”, almeno così sostiene l’uomo che lo comanda, il generale William Webster – a inventariare e poi ad abbandonare agli iracheni fino a trenta milioni di dollari di materiale, ma nessuno per ora ha avuto bisogno di avvicinarsi a questo tetto.
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Gli americani di Summerall volevano anche donare una mezza dozzina di Suv, ma gli iracheni non hanno voluto firmare la ricevuta formale. “Li volevano tenere per loro, per uso personale – dice il capitano David Lawburgh, che ha sorvegliato l’intero processo di transizione – ma siamo spiacenti: quando cercano di fregarci, di chiedere roba per loro, siamo costretti piuttosto a buttarla via”.
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Al capo sud di questa linea della violenza, all’estremità tranquilla in Kuwait, si vede che la guerra è finita perché dai bagni dei soldati sono sparite le scritte. A un’ora da Kuwait city c’è la base Ali al Salem, che per tutte le truppe americane di passaggio è stata l’anticamera dell’Iraq. I bagni un tempo erano tutti decorati da scarabocchi e graffiti osceni, un lavoro imperterrito, centimetro per centimetro, fatto a biro, pennarello o punta di coltello. Come se ciascuno delle centinaia di migliaia di soldati transitati una, due, tre volte da lì, pronti al volo notturno verso il buco nero della guerra appena oltre il confine a nord – si decolla sempre di notte – o in transito verso il più lontano Afghanistan a ovest, avesse voluto lasciare il suo contributo – trepido, ma non di alto livello. L’aviazione è meglio dell’esercito. La marina li fotte a tutti e due. Il Super Bowl. I negri. E voi nazisti. La moglie del comandante. Perché siamo in guerra. Perché non te ne stai a casa. Quelli di New York. Quelli che gli piace la West coast. Tell me it’s a bad dream. Che cosa farei ai terroristi. Che cosa farei alla tua ragazza. Una frase di Lincoln. Una frase su Bush, un’altra ancora sul segretario alla Difesa. Un motto di reggimento. L’hip hop. Il country è nostro. Un haiku zen. Per sei anni, nei trailer disadorni messi sul lato corto del campo a sopportare il sole kuwaitiano, il coro di innumerevoli calligrafie in attesa del balzo al di là della striscia di deserto che in mancanza di meglio faceva da Stige s’è confessato e ha mormorato. Non per nulla nell’esercito non si dice “voci di corridoio”, si dice “parola d’ordine delle latrine”.
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Ora le scritte sono sparite e non riappaiono più. Non ha più senso rimpiazzare con un altro colpo di pennarello i graffiti rimossi. Per farlo leggere a chi? Per che cosa? Si capisce anche da migliaia di chilometri di distanza che negli anni di Barack Obama meno si parla di Iraq meglio è. Secondo il New York Times, il presidente ha ormai deciso di non cambiare le date del ritiro e “da mesi non partecipa più a una riunione sull’Iraq con il suo gruppo di consiglieri per la Sicurezza nazionale”, tutto è stato delegato al vicepresidente Joe Biden. La voce delle latrine s’è ammutolita.
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Al posto della guerra di cui non si può – o non si ha più voglia di – parlare, c’è il grande Ritiro Responsabile, come l’hanno battezzato gli alti comandi costruendo subito una nuova epica della movimentazione mezzi. Webster, lo stesso generale che dice che l’impresa di far rientrare tutto il materiale non ha precedenti nella storia moderna, ha scritto ai suoi uomini per ricordare loro che fanno parte della stessa Third Army che seguì Patton nella Seconda guerra mondiale e che “il compito che oggi vi aspetta non è inferiore per importanza”. E snocciola dati: il 23 per cento del materiale americano è già uscito dall’Iraq, 8.200 mezzi già nelle retrovie, 22 mila container.
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In realtà, per ora non si tratta di un grande rimpatrio. Un milione di pezzi, come parti di ricambio, rifornimenti vari, barili di carburante, per il valore di novanta milioni di dollari, assieme a una montagna da 1.770 tonnellate di munizioni, è già stato spostato a ovest sull’altra rotta di guerra, verso Kabul. Il dato più significativo è quello sui droni, gli aerei senza pilota diventati l’arma simbolo della guerra al terrorismo. Se l’anno scorso l’ottanta per cento volava sull’Iraq, ora la stessa percentuale è stata mandata nei cieli dell’Afghanistan. Non è il Ritiro responsabile: assomiglia piuttosto al Grande Trasferimento sull’altro fronte.

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