Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 30/04/2010, a pag. 1-41, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Israele ha perso la speranza ".
A. B. Yehoshua
Dopo la Guerra dei sei giorni in Israele prese il via il dibattito sul futuro dei territori conquistati. Per anni si è potuta operare una distinzione fra i sostenitori delle diverse prese di posizione politiche in base alla percentuale di territorio che chiedevano di annettere come condizione di un accordo di pace.
Gli estremisti di destra volevano conglobare nello Stato ebraico l'intero territorio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (pari a circa seimiladuecento chilometri quadrati), mentre i propugnatori di opinioni più moderate, appartenenti al partito laburista, rivendicavano soltanto il venti o il trenta per cento di quel territorio, sia per ragioni di sicurezza sia perché non volevano annettere un’alta percentuale di popolazione palestinese.
I partiti religiosi erano attenti ai luoghi di interesse e di importanza storico-religiosa mentre la sinistra radicale si sarebbe accontentata di piccoli ritocchi ai confini di Gerusalemme Est per assicurare agli ebrei l’accesso alla città vecchia. Così, per parecchi anni, almeno in teoria, chiunque ha potuto esprimere la propria opinione politica, fosse essa di destra o di sinistra, elencando cifre e percentuali che talvolta la chiarivano meglio di quanto potesse farlo una dettagliata spiegazione verbale.
Ma i dibattiti fra la destra e la sinistra erano puramente teorici. I palestinesi più moderati non hanno infatti mai smesso di considerare le frontiere del 1967 come la base per la creazione di un loro futuro Stato (e a ragione, a mio parere). Fintanto però che nessun negoziato chiaro e vincolante veniva avviato gli israeliani continuavano a giocare con i numeri.
Di quando in quando si dovevano aggiornare le cifre, vuoi per una colonia trasformatasi nel frattempo in una vera e propria città ormai difficile da sgomberare, vuoi per il ritiro dalla Striscia di Gaza che ha di colpo sottratto al calcolo delle possibili concessioni 370 km quadrati di territorio (visto e appurato che le aree consegnate ai palestinesi non rappresentano più un argomento di dibattito in Israele).
Negli ultimi anni però queste dispute tradizionali sono cessate, soprattutto fra coloro che possiedono qualche nozione di geografia e una certa esperienza in campo militare e politico. La sempre più salda convinzione della comunità internazionale che i confini del 1967 rappresenteranno quelli del futuro Stato palestinese e la consapevolezza sempre più lucida degli israeliani che sarà impossibile mantenere il carattere democratico ed ebraico dello Stato di Israele dopo l’annessione della Cisgiordania, hanno riportato in auge lo slogan «due Stati per due popoli», e non solo fra i sostenitori della sinistra moderata. Persino il falco Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro dello Stato ebraico, ha più volte proclamato l’accettazione di tale principio.
Ciò nondimeno l’ideale di due Stati per due popoli (che dovrebbe rallegrare moltissimo chi ha lottato per lunghi anni per la pace) si rivela oggi null’altro che la dolce glassatura di un boccone estremamente amaro da inghiottire.
In altre parole questa presa di coscienza politica moderata e conciliante, considerata ormai da quasi tutti in Israele come l’unica soluzione possibile al conflitto con i palestinesi, nasconde in realtà un profondo senso di pessimismo e di incertezza nei confronti di una eventuale soluzione. Pessimismo e incertezza che non derivano necessariamente da motivi ideologici o di sicurezza e che sono presenti anche in chi in passato credeva nella pace. Vent’anni fa la sinistra moderata riteneva che fosse sufficiente ritirarsi dai territori occupati per ottenere la pace, mentre la destra oltranzista sosteneva che se avessimo annesso la Cisgiordania e costruito molti insediamenti i palestinesi avrebbero accettato la situazione e si sarebbero rassegnati alla nostra presenza. Questo approccio ottimista, sia della destra che della sinistra, si è molto indebolito negli anni a causa di un senso di sfiducia sempre più forte e di natura apolitica che contrasta con il passato spirito di intraprendenza e di creatività di Israele (che tuttavia ancora sopravvive in campo economico e culturale). Un senso di sfiducia alimentato non da principi ideologici o da timori esistenziali, ma da sentimenti di impotenza interiore, di fatalismo, di scetticismo. Neppure nei momenti più difficili del conflitto arabo-israeliano degli ultimi cento anni gli ebrei avevano perso fede nella pace.
«È vero», si sente spesso dire da molti israeliani, «la soluzione di due Stati per due popoli è l’unica possibile. Ma non riusciremo a sgomberare gli insediamenti senza che scoppi una sanguinosa guerra civile fra gli ebrei. Anche la divisione di Gerusalemme, per quanto indispensabile, è ormai impossibile da realizzare. E che faremo se dopo aver firmato un accordo i palestinesi chiederanno di tornare a Haifa o a Jaffa? O nel caso Hamas assumesse il controllo dello Stato palestinese?». Insomma, tutte queste obiezioni non hanno altro scopo che dimostrare che la pace è oggettivamente impossibile, e non a causa di ideologie contrastanti.
E così, malgrado la maggior parte della popolazione di Israele abbia accettato la formula e i principi di un accordo di pace, nello Stato ebraico regna un senso di paralisi, di alienazione politica, di indifferenza e di fatalismo che potrebbe preparare il terreno, Dio non voglia, a una guerra futura.
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