Documento 127 Carlo Coccioli
Prefazione di Elena Loewenthal
Erasmo Euro 18
Un libro difficile da collocare nella letteratura italiana del secondo dopoguerra, e forse da lasciare, provvisoriamente, fuori dallo scaffale. Documento 127 di Carlo Coccioli, ora riproposto dalle edizioni Erasmo, contiene il racconto autobiografico di una “drammatica scoperta dell’Eterno Uno”.
Acerrimo irregolare, Coccioli nacque a Livorno nel 1920, e trascorse gran parte della sua vita all’estero, fino alla morte in Messico nel 2003. L’Italia fu per lui un luogo da cui fuggire appena possibile, ma anche fonte inesauribile di stupore e struggimento, sempre guardata in tralice, amata e odiata. Scrittore dalla prosa diseguale e incalzante, arrivò al successo e allo scandalo nel 1952, con Fabrizio Lupo, pubblicato in francese, in cui il protagonista è lacerato tra la propria omosessualità e il fervente cattolicesimo di cui pure si sente pervaso. In seguito a questo precocissimo outing, Coccioli lasciò il cattolicesimo e si avvicinò progressivamente all’ebraismo.
Il giudaismo di Coccioli è in parte un cammino a ritroso nell’infanzia, sotto il segno della bisnonna livornina Emma Fernandez, “che portava al collo la catenina d’oro con la medaglietta della Madonna di Montenero ma non aveva mai cessato di essere e di considerarsi ebrea”.
Un’ibridazione tra sentimenti e culture di cui Documento 127 non è che un frutto tardivo.
Nell’universo sottosopra di Coccioli, l’ebraismo fa da controcanto a una normalità soffocante. E’ un tortuoso itinerarium ad Deum, a un tempo emotivo e razionale. I passi più belli sono quelli in cui la tensione polemica si scioglie in apologo. In qualche punto, il volume è inevitabilmente datato, come nelle pagine, piuttosto retoriche, sull’entusiasmo sollevato dalla vittoria israeliana nella guerra dei sei giorni. In altri luoghi, più desolantemente spaesati, a Coccioli basta rifugiarsi in un villaggio sperduto, per sentirsi vicinissima la Shekinah, la Divina Presenza, che per un attimo lo libera dall’esilio, “in cui non scorgo nemmeno un albero ai cui rami appendere la mia cetra”.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore