Da www.fondazionecdf.it, riprendiamo l'analisi di Youssef M. Ibrahim (Hudson New York), sull'attuale situazione mediorientale, particolarmente interessante perché l'autore è un arabo americano che difende le ragioni della democrazia isrealiana.
Ecco l'articolo:
Che cosa succede con la fine del processo di pace in Medio Oriente?
(a destra: Youssef M. Ibrahim)
Fondazione Camis de Fonseca
Che cosa è successo? Che cosa è andato storto nel processo di pace?
Non possiamo lasciar cadere nel vuoto quanto scrive Aaron David Miller nel saggio 'False Religion of the Mideast Peace', pubblicato su Foreign Policy.
Scritto con logica impeccabile e conoscenza incontestabile dei fatti, questo saggio - opera di persona che ha seguito e condotto sin dal 1978 il processo di pace in Medio Oriente per conto degli USA - è di grande rilievo. Per 30 anni Miller è stato consulente o inviato speciale in Medio Oriente delle amministrazioni americane sia democratiche sia repubblicane, spesso rispondendo direttamente al Presidente.
La sua disperazione è tanto più cocente in quanto viene espressa da un politico ebreo americano che fa parte del folto gruppo di coloro che hanno sempre mostrato grande simpatia per gli Arabi e per i Palestinesi, al punto da accusare più volte Dennis Ross, attuale consigliere ebreo americano per il processo di pace del Presidente Obama, di essere 'l'avvocato di Israele'.
Quando una persona così dice apertamente che il processo di pace è morto, che il presidente Obama sbaglia nel far pressioni su Israele, e che gli USA sono sordi e ciechi di fronte a minacce strategiche ben più gravi nella regione, a partire dal nucleare iraniano, bisogna prendere sul serio le sue tesi e i suoi avvertimenti. E questo non mancherà di avvenire: la discussione è aperta e intensa.
Come sempre, il commento più asciutto viene dai militari. Nello stesso numero di Foreign Policy, il generale Anthony Zinni, già capo del Comando Centrale negli anni 2001 e 2002 e allora stretto collaboratore di Miller, esprime lo stesso parere. Ma in più dice che stiamo ripetendo gli stessi errori daccapo. 'Dobbiamo capire che cosa NON funziona: non funzionano i summit, i riconoscimenti di principio, gli inviati speciali, i piani proposti dagli USA, e tutto il solito armamentario di iniziative. Perché ricominciamo daccapo?' chiede il generale Zinni.
Il presidente Obama e il Segretario di Stato Hillary Clinton imperturbabili rimettono in scena il solito spettacolo, interpunto di 'dialoghi indiretti' (perché i Palestinesi non vogliono incontrare gli Israeliani) e di editti per il congelamento degli insediamenti (che Israele bellamente ignora), con tutta la panoplia di conferenze internazionali e di inviati speciali. Ma gli esperti, coloro che hanno già vissuto tutto ciò, come Miller e il generale Zinni e Michael Oren (attuale ambasciatore d'Israele in USA) e un gran numero di esperti giordani ed egiziani che non osano esprimersi in pubblico per timore delle reazioni dell'opinione pubblica araba, dicono che in effetti il paradigma di pace in Medio Oriente è cambiato, e noi stiamo lavorando su dati obsoleti.
Quarant’anni sono tanti, specialmente in Medio Oriente, dove la maggior parte degli stati sono nati fra 50 e 80 anni fa. La situazione del 1979 (quando Israele ed Egitto firmarono la pace sotto gli occhi di un Presidente americano) e la situazione degli anni ‘80 (quando fecero pace Israele e Giordania) non hanno più molto a che vedere con la situazione di oggi.
Oggi gli antagonisti non sono soltanto Stati nazionali. Oggi ci sono Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. Fare la pace oggi significa trattare con 'tribù che si sono date una bandiera', per usare una famosa espressione del diplomatico egiziano Tahseen Bashir. Il che è impossibile: questo è uno dei nuovi paradigmi. Un altro è la mancanza di leadership. Se non emergono in Medio Oriente leader del calibro di Sadat, Rabin, Begin e re Hussein di Giordania - tutti morti, due per mano assassina - non c'è nessuno capace di firmare accordi e farli rispettare. Inoltre l'Unione Sovietica non c'è più, e non c'è più la necessità di pacificare la regione per i motivi che avevamo durante la Guerra Fredda.
Il nuovo pericolo per gli USA non è la disputa irrisolta fra Israeliani e Palestinesi, ma il fondamentalismo islamico che rifiuta tutti i concetti occidentali di modernità e rifiuta pari diritti per i cittadini, e per donne e uomini. I tentacoli del fondamentalismo islamico si estendono a partire dal Pakistan, dall'Afghanistan e dall'Arabia Saudita: ironicamente tre paesi considerati 'amici' degli USA.
Gli USA non possono avere migliore alleato di Israele al mondo sia da un punto di vista strategico che tattico. Non potremmo operare in Medio Oriente senza l'assistenza di Israele. E la grande maggioranza degli Americani e dei membri del Congresso non permetterebbe mai di lasciar solo Israele in caso di attacco. Questo è un fatto che anche Obama conosce benissimo.
In quanto Americano arabo, io apprezzo la protezione che l'esistenza di Israele - in quanto stato della minoranza ebraica nel Medio Oriente mussulmano - offre alle altre minoranze della regione, a partire dai 25 milioni di Arabi cristiani ai 30 milioni di Curdi e ad altre minoranze religiose o etniche minacciate di persecuzione. Israele è la prova ed il simbolo della possibilità di creare un Medio Oriente multiculturale e tollerante.
Miller e Zinni e altri analisti si chiedono adesso perché questa amministrazione dedichi tante risorse per risolvere quello che è ormai un pericolo strategicamente di scarsa rilevanza, mentre abbiamo ben maggiori pericoli da affrontare.
In una intervista alla CNN con John King, Miller ha chiesto: Obama intende diventare il Presidente americano che permette che l'Iran diventi una potenza nucleare? E ha correttamente aggiunto: il primo ministro israeliano Netanyahu intende essere il capo di governo che lascia che questo avvenga?
La questione d'importanza strategica primaria oggi per gli USA è la disintegrazione di Iraq e Afghanistan. Quale è la nostra strategia nel caso che in Iraq scoppi - come è probabile - la guerra civile? Come definiamo il 'successo' in Iraq? E per quanto tempo le truppe americane dovranno ancora fare da baby-sitter al governo in Afghanistan?
Questi sono i problemi pressanti, per i quali mancano strategie chiare di soluzione.
Israele è invece capace di badare a se stesso militarmente e civilmente. E' diventato un paese con 7,5 milioni di cittadini, fra cui 1,5 milioni di Arabi che non sono scontenti come credono i loro confratelli Palestinesi, e che non rinuncerebbero facilmente alla qualità di vita che hanno in Israele. Israele ha ormai un PIL pro capite annuo di $ 35.000, e un esercito che non ha mai perso una guerra e può ancora vincerne altre.
Data la situazione, la migliore politica che la Casa Bianca può avere nei riguardi di queste 'tribù con bandiera' del Medio Oriente è una 'benevola noncuranza'. In fin dei conti, nonostante le tremende predizioni di una terza guerra mondiale, la disputa fra Arabi ed Israeliani dura ormai da più di cento anni, senza gravi conseguenze.
(Pubblicato su Hudson New York il 23 aprile 2010).
Traduzione di Laura Camis de Fonseca.
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