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Il Foglio Rassegna Stampa
22.04.2010 Obama non ha un piano per il Medio Oriente
Analisi di Giulio Meotti, Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 22 aprile 2010
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti - Mattia Ferraresi
Titolo: «Washington dimezza gli aiuti alla democrazia e alle riforme in Egitto - Perché Obama ha scelto di proteggere lo status quo in medio oriente»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/04/2010, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "  Washington dimezza gli aiuti alla democrazia e alle riforme in Egitto", a pag. 1-I, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "  Perché Obama ha scelto di proteggere lo status quo in medio oriente". Ecco i due articoli:

Giulio Meotti - "  Washington dimezza gli aiuti alla democrazia e alle riforme in Egitto"


Giulio Meotti

Roma. Che l’Amministrazione Obama avesse rinunciato al progetto di democratizzazione del mondo arabo lo aveva denunciato a inizio anno un rapporto molto duro di Freedom House. Il 2009 doveva essere l’anno della mano tesa al mondo arabo-islamico e della pacificazione con l’occidente. Un tentativo suggellato dal celebre discorso al Cairo del presidente americano. Freedom House ha però spiegato che nell’anno e mezzo di Obama, il medio oriente è scivolato verso maggiore autocrazia. Non ci sono soltanto le peggiori repressioni in Iran da un decennio. Giordania, Bahrain e Yemen sono retrocessi da “parzialmente liberi” a “non liberi”. Sono declinati anche Marocco e Giordania. Tutti paesi, scrive Freedom House, che “avevano mostrato intenzioni riformiste negli anni passati”. Anche il Libano sta peggiorando, un paese arabo che aveva beneficiato della spinta pro democrazia della passata amministrazione americana. A conferma del rapporto di Freedom House è venuto un altro rapporto, stavolta arabo, del Cairo Institute for Human Rights. Repressione di diritti umani, soppressione della libertà di stampa e di espressione e discriminazioni contro le minoranze religiose dominano i dodici paesi arabi analizzati. “La situazione è peggiorata molto rispetto al 2008”, denunciava il rapporto. L’istituto del Cairo accusa apertamente la politica estera di Obama, “nemica delle riforme e dei diritti umani nella regione”, con il presidente in dismissione rispetto alle aperture liberali che si erano affacciate nel mondo arabo. In questo quadro giunge la decisione di Obama di tagliare della metà i fondi per la democrazia e le riforme in Egitto, fondi che le precedenti amministrazioni americane avevano sempre devoluto. L’Egitto è uno dei principali beneficiari di aiuti americani (soprattutto militari) fin da quando, primo nel mondo arabo, ha siglato la pace con Israele nel 1979. Ma mentre Bush vincolava cinquanta milioni di dollari al programma per un “Governo giusto e democratico”, con Obama ne restano meno della metà. Organizzazioni non governative liberali, radio e centri di ricerca soffriranno del pesante taglio. Perderà i fondi Radio Horytna, che in arabo significa “nostra libertà”, una delle poche emittenti che puntava “sulla diffusione della cultura dei diritti umani e dei concetti di democrazia”. Il Dipartimento di stato ha assecondato la richiesta fatta dall’Egitto di non far uso di aiuti economici per finanziare le organizzazioni della società civile non approvate dal governo. Di conseguenza, saranno ridotti circa del settanta i finanziamenti americani destinati ai gruppi che si occupano della promozione della democrazia. Allo stesso tempo però, i Democratici membri della Commissione per gli stanziamenti, in un conto di aiuto supplementare, hanno aggiunto duecentosessanta milioni di dollari destinati all’assistenza extra per la sicurezza, oltre che cinquanta milioni di dollari per la sicurezza di frontiera, ma senza imporre condizione alcuna all’Egitto sui diritti umani. Verrà meno l’aiuto all’Egyptian Center for Human Rights e al programma “New Generation”. L’ambasciatrice americana al Cairo, Margaret Scobey, ha tagliato undici milioni di dollari che in precedenza il Dipartimento di stato aveva riservato ai programmi liberali e per i diritti umani, soprattutto delle donne e delle minoranze (cristiana soprattutto). Adesso il regime di Mubarak potrà fare la voce grossa su chi beneficierà dei fondi. Si ritorna alla situazione precedente al 2006, quando Bush decise di vincolare parte dei fondi alla battaglia per la democrazia. Rischia il celebre Centro Ibn Khaldun del dissidente Saad Eddin Ibrahim, che tre anni fa fu accusato di aver ricevuto fondi americani in cambio di un elogio della politica pro democrazia della Casa Bianca. Ironia della sorte, sembra essere rimasto con Obama il programma Middle East Partnership Initiative. Sotto Bush era guidato dalla figlia del vicepresidente, Liz Cheney.

Mattia Ferraresi - " Perché Obama ha scelto di proteggere lo status quo in medio oriente "


Mattia Ferraresi

Washington. La settimana di crisi sui missili Scud siriani è lo specchio dell’immobilismo programmatico dell’Amministrazione Obama sul medio oriente. Dopo che lunedì il primo ministro libanese, Saad al Hariri, ha rigettato con poca diplomazia le accuse israeliane a Damasco di avere fornito missili a Hezbollah (violando la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu), dal Dipartimento di stato americano si è levata una flebile voce di protesta. Il portavoce di Foggy Bottom Philip Crowley ha spiegato che in un incontro convocato d’urgenza all’ambasciata siriana gli ufficiali dell’Amministrazione hanno “chiarito che la questione è stata presa molto seriamente ed è stato eliminato ogni dubbio sull’impegno americano in questo senso”. Non si è andati oltre la generica accusa di un “atteggiamento provocatorio”, anche se la freddezza con la Siria ha l’effetto di ritardare l’apertura diplomatica di Washington verso Damasco con la nomina dell’ambasciatore Robert Ford. Nomina annunciata da mesi ma in attesa di conferma dal Senato. Le parole di Hariri contro le accuse israeliane avevano un tono leggermente più arcigno: “Queste accuse ricordano quelle delle armi di distruzione di massa contro Saddam Hussein: non sono mai state trovate perché non esistevano”, ha detto il primo ministro di Beirut in un’intervista alla Stampa. “Israele sta cercando di riprodurre uno scenario analogo nei confronti del Libano – ha detto Hariri. Le voci sugli Scud sono solo un pretesto per minacciare il mio paese”. Hariri ha evocato la guerra pretestuosa in Iraq con l’intento di evocarne altre: quelle fra Israele e Libano nel 1982 e nel 2006. Nella fumosa partita missilistica sollevata dal presidente israeliano, Shimon Peres, il Libano cerca di portare a casa il bottino più grosso accusando gli accusatori di “minacciare” il paese e contemporaneamente cercando di tastare il polso di Obama sullo scenario mediorientale: un battito lento e remoto, quasi impercettibile. “Non c’è momento migliore di adesso, quando le minacce contro il Libano stanno aumentando, per trovare una soluzione al conflitto in medio oriente”, ha detto Hariri, quasi volendo stravolgere le parole del capo dello Staff di Obama, Rahm Emanuel, che domenica sera in un’intervista a Charlie Rose ha parlato di tempi non ancora maturi per portare avanti il processo di pace: “Molta gente lo chiede, ma non è ancora il momento. Ora è il momento di tornare ai negoziati mediati e condurre trattative che possano portare a negoziati diretti; iniziare a prendere le difficili decisioni che porteranno a un equilibrio fra il desiderio di sicurezza di Israele e le aspirazioni della sovranità palestinese”, ha detto Emanuel. Ma non sono soltanto le parole di Rahm Emanuel a far discutere gli analisti sull’atteggiamento generale di Obama nei confronti dello stratificato problema del medio oriente. I mesi di freddezza con Israele sugli insediamenti a Gerusalemme est – con una sfumatura personale verso il primo ministro Netanyahu – e il logorante gioco delle sedie sul nucleare iraniano hanno chiarito cosa Obama intende fare per mettere ordine nello scenario dove si gioca una delle fette più grosse della politica estera americana: niente. È dal 4 giugno del 2009 che negli ambienti della diplomazia circolano domande ricorrenti: cosa farà Obama in medio oriente? Come gestirà il processo di pace? Come si comporterà con le voglie nucleari dell’Iran? Quel 4 giugno, con il discorso del Cairo, Obama aveva dato una sua visione delle cose; certo, non poteva essere un discorso strettamente programmatico, non un briefing di dettagli, ma un incanto multiculturale di sincretismi religiosi e suggestioni autobiografiche, con un cuore pulsante che stava nell’immagine della mano americana che si tende laddove il pugno dell’avversario si rilassa e ritira la sua carica aggressiva. Quel 4 giugno il presidente degli Stati Uniti sembrava avere una sua visione di ampio respiro sul problema, uno sguardo globale per quanto radicalmente diverso, nel metodo e nel merito, dal risveglio democratico immaginato dall’Amministrazione Bush e reso celebre dall’immagine potente delle “doglie” coniata dall’allora segretario di stato Condoleezza Rice: “Il mondo sta ascoltando le doglie del nuovo medio oriente che nasce, e non possiamo tornare indietro a quello vecchio”. Sul medio oriente, l’Amministrazione Obama ha apparentemente adottato una ricetta diversa per affrontare problemi simili a quelli del suo predecessore, ma a un certo punto tutto è cambiato. Ogni velleità pacificante è scomparsa; sono scomparse sia le mani tese sia i pugni chiusi e le mosse degli uomini del presidente nel medio oriente hanno iniziato a perseguire come scopi definitivi il mantenimento dello status quo e il minor coefficiente possibile di invadenza degli affari altrui. Sul dossier iraniano il gioco di “back and forth”, il tira e molla politico, è arrivato al parossismo quando ieri il sottosegretario del Pentagono Michele Flournoy da Singapore ha fatto cadere dal tavolo con gli iraniani l’opzione militare. “La forza è un’opzione estrema. Non è sul tavolo nel breve periodo”. Quello che l’Amministrazione sta facendo è una “combinazione di prese di posizione e sanzioni. Ma non abbiamo visto da parte iraniana una risposta produttiva”. Dall’insediamento dell’Amministrazione democratica, l’opzione militare sull’Iran è salita e discesa dal tavolo, nelle parole degli ufficiali, decine di volte, dando l’impressione agli alleati di un’assenza strategica e agli avversari di una mancanza di credibilità che sembra costruita apposta per continuare indisturbati a scavare buchi nelle montagne. Domenica scorsa il New York Times ha rivelato il contenuto di un memorandum del segretario della Difesa che ammetteva l’assenza di una vera strategia sullo scenario iraniano: la cosa non è piaciuta affatto alla Casa Bianca, che senz’altro se l’è presa per la fuga di notizie e forse anche perché le notizie tendevano alla verità. Senza contare che l’Iran ha visto anche il delicato momento post elettorale con una discesa nelle piazze approvata in ritardo e senza enfasi da un Obama non esattamente scosso dai vagiti della libertà, ma più preoccupato di mantenere un equilibrio al ribasso dove ogni attore continua sostanzialmente a esercitarsi nell’arte degli affari propri. Dopo un avvio magniloquente, anche il processo di pace si è arenato sui viaggi dell’inviato meno speciale dell’Amministrazione, George Mitchell, l’uomo che dopo aver stabilito che “il tempismo è tutto nella vita” ha fatto di tutto per ignorare la sua stessa massima, ha scritto questa settimana l’editorialista del Washington Post Jackson Diehl. Lavoro di Mitchell complicato dal vicepresidente Biden e dagli alterchi non squisitamente politici fra Obama e il primo ministro Netanyahu. Infine, l’Amministrazione si è deliberatamente rifiutata di entrare nel merito dei singoli scenari mediorientali. Su Libano, Siria, Arabia Saudita e Yemen la posizione dell’Amministrazione è non avere una posizione; l’Egitto, che va incontro a una delicata successione elettorale, è invece un’eccezione nell’immobilismo obamiano: ai gruppi pro-democrazia egiziani il presidente ha tagliato il cinquanta per cento dei fondi. Lo spirito obamiano è perfettamente descritto nel titolo di un editoriale di Jeffrey Grossman: “Obama cerca di non fare nulla in medio oriente”. L’analista mediorientale dell’Hudson Institute Lee Smith spiega al Foglio la logica dell’Amministrazione Obama: “Il presidente e il dipartimento di stato sono convinti che la questione fondamentale del medio oriente sia il processo di pace fra israeliani e palestinesi. Vedono tutto legato agli sviluppi di quello scenario. E’ per questo che su tutto il resto Obama è completamente e deliberatamente immobile”. Eppure Washington almeno sul dossier iraniano sembra decisa a intraprendere una qualche iniziativa, per quanto blanda possa apparire. “Non sono d’accordo con questa idea – dice Smith – Il governo americano concepisce la minaccia iraniana come esclusivamente legata a Israele. Per Israele, l’Iran è naturalmente la prima questione dell’agenda e per questo è anche importante per gli americani, soltanto indirettamente. Se gli americani si dimostrano solerti verso l’Iran questo frutterà loro un credito nel processo di pace, aiutando a sbloccare lo stallo diplomatico fra Obama e Netanyahu. Ma sono convinto che Obama non concepisca l’Iran in sé come la prerogativa della sua politica estera. Lui vuole portare a casa gli uomini dall’Iraq e dall’Afghanistan, non gli interessa molto altro. Fra l’altro anche quegli scenari c’entrano: tutte le fonti militari dicono che se Israele prendesse iniziativa contro le installazioni iraniane, questi si vendicherebbero sui soldati americani al fronte. Obama ragiona su queste cose. E sono convinto che faccia un errore di valutazione enorme”. Quello di Obama è quindi un intento verso l’unificazione del calderone mediorientale nella questione israelo-palestinese? “Esatto. L’assenza strategica nei confronti degli altri scenari – e io sono convinto che ogni situazione andrebbe trattata come una ‘issue’ separata dalle altre – riflette proprio la convinzione che tutto il problema sia lì. E siccome la soluzione di quel problema è lontana, molto più lontana di quando c’era Bush, su tutte le altre fa marcia indietro, tiene un profilo basso come se non volesse rompere un equilibrio. Un equilibrio che favorisce i nemici dell’America”. Proprio la malintesa “delicatezza” nei confronti degli stati mediorientali è, secondo Smith, la fonte della decisione di tagliare i fondi alle associazioni a favore della democrazia: “Obama si è alienato l’unico strumento utile per influire su un’elezione delicata, dove il presidente non dà nessuna garanzia di sicurezza e le speranze democratiche sono su una vaga candidatura, quella di ElBaradei, che politicamente parlando è completamente ridicola. Credo che l’Amministrazione, in questo senso, stia sbagliando completamente approccio”. Ma, per quanto si possa dir male, c’è una visione strategica, una versione democratica delle “doglie” del medio oriente o una riedizione dell’“effetto domino” della democrazia? “Io non credo si possa chiamare strategia in senso stretto – dice Smith – Mi pare che nonostante tutti i difetti che si sono visti, le alte sfere dell’Amministrazione siano ancora convinte che Obama è un essere ‘trasformato’, un uomo che è capace di fare cose che nessun altro è stato capace di fare. Da quello che vedo, tutta la politica estera di Obama è legata a questa abilità ancora inespressa. La strategia di Obama è lo stesso Obama”.

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