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La Stampa Rassegna Stampa
15.04.2010 Shlomo Sand: 'Sionismo=razzismo'
Come mai un articolo del genere è sulle pagine di un quotidiano come la Stampa?

Testata: La Stampa
Data: 15 aprile 2010
Pagina: 47
Autore: Shlomo Sand
Titolo: «Israele, attenti al mito»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/04/2010, a pag. 47, l'articolo di Shlomo Sand dal titolo " Israele, attenti al mito ".


Shlomo Sand

Nel suo articolo, Shlomo Sand sposa la tesi antisemita secondo la quale il sionismo sarebbe una forma di razzismo nei confronti della popolazione araba locale. Una tesi che piace agli odiatori di Israele, ma che non è realistica. Israele è nato come Stato ebraico, ma i cittadini israeliani arabi godono degli stessi diritti di tutti gli altri e, contrariamente a quanto sostiene Sand nel suo pezzo, i profughi non sono scappati per 'opporsi alla colonizzazione ebraica', ma perchè terrorizzati dai Paesi arabi limitrofi con lo spauracchio una morte certa per mano degli ebrei se fossero rimasti.
Shlomo Sand scrive : "
Che sia religiosa o secolare, l’identità ebraica in quanto tale non può essere soggetta a discussione, e dopo Hitler e il nazismo sarebbe folle e sospetto contrapporvisi. Ma se questo contribuisce all’isolamento degli ebrei dai loro vicini e all’identificazione con il militarismo israeliano e con una politica di dominazione di un altro popolo tramite la forza, c’è di che preoccuparsi.". Israele non sta dominando nessuno con la forza. E' ovvio, però, che quando riceve attacchi si difende. Lo fanno tutte le nazioni del mondo. Per quale motivo per Israele dovrebbe essere diverso?
Invitiamo i lettori a scrivere a Mario Calabresi, direttore della Stampa, per chiedergli spiegazioni circa la pubblicazione del pezzo di Shlomo Sand, un articolo che avrebbe potuto trovare spazio solo sulle pagine del quotidiano comunista, cliccando sull'e-mail: direttore@lastampa.it
Ecco l'articolo di Shlomo Sand:

Ai loro primi passi quasi tutte le nazioni sono state guidate dal sogno di impersonare l’autocoscienza e la memoria «etnica» di un popolo. Le varie modalità di definizione dei gruppi nazionali hanno dato la stura a conflitti a partire dal XIX secolo, alcuni dei quali perdurano tutt’oggi. Ma, nella maggior parte degli Stati-nazione liberali e democratici, alla fine si è imposta una concezione civile e politica della nazionalità, mentre negli altri resta dominante una concezione etnocentrica di appartenenza.
Il sionismo, nato nell’Europa orientale, ha senza dubbio caratteri prevalenti etno-biologici ed etno-religiosi. I contorni della nazione non vengono individuati nella lingua, nella cultura secolare corrente, nella presenza sul territorio e nel desiderio di integrazione nella collettività. Invece l’origine biologica e frammenti di «nazionalismo» religioso costituiscono il criterio di inclusione nel «popolo ebraico». Sarebbe impossibile a chiunque integrarsi in questa nazione sulla base di un’appartenenza volontaria secolare, così come è impossibile smettere di appartenere al «popolo ebraico». Questi elementi originari sono tuttora basilari in Israele, e ciò costituisce la vera fonte del problema.
La colonizzazione sionista ha rafforzato questo tipo di nazionalismo. Ai primi stadi si è manifestato, in realtà, qualche dubbio sui confini della nazione ebraica. Si è ipotizzato di includervi gli arabi presenti in Palestina; ma dal momento che costoro si sono opposti con vigore alla colonizzazione, la nazione si è definita una volta per tutte secondo linee etniche e religiose.
L’etnocentrismo ebraico non ha fatto che rafforzarsi negli anni recenti; il risultato delle ultime elezioni legislative ne è una chiara testimonianza, mentre nel mondo occidentale si è assistito a un relativo ritiro della concezione tradizionale della nazionalità e alla nascita di forme più inclusive di spirito comunitario, legate alla globalizzazione culturale e all’immigrazione di massa. Che sia religiosa o secolare, l’identità ebraica in quanto tale non può essere soggetta a discussione, e dopo Hitler e il nazismo sarebbe folle e sospetto contrapporvisi. Ma se questo contribuisce all’isolamento degli ebrei dai loro vicini e all’identificazione con il militarismo israeliano e con una politica di dominazione di un altro popolo tramite la forza, c’è di che preoccuparsi.
Israele nei primi anni del XXI secolo si definisce come Stato degli ebrei e proprietà del popolo ebraico, cioè anche degli ebrei che vivono nelle altre parti del mondo, e non come Stato dell’insieme dei cittadini d’Israele che risiedono sul suo suolo. Per questo motivo è più appropriato definire Israele come un’etnocrazia che come una democrazia.
I lavoratori stranieri e le loro famiglie non hanno alcuna possibilità di essere integrati nel corpo sociale, anche se vivono in Israele da decenni. Quanto a quella quota di popolazione identificata dal ministero dell’Interno come «non ebraica», pur avendo la cittadinanza non può identificare in Israele il «suo» Stato. È difficile valutare quanto a lungo gli arabi israeliani (il 20% degli abitanti del Paese) continueranno ad accettare di vivere da stranieri nella loro stessa patria. Lo Stato si fa sempre più ebraico e sempre meno israeliano, nello stesso tempo in cui i cittadini arabi si israelizzano nella lingua e nella cultura, ma diventano sempre più anti-israeliani nelle loro posizioni politiche. È una serie di fatti paradossali. Non sarà forse lecito temere che una futura Intifada possa scoppiare non nel territorio occupato della Cisgiordania, soggetto a un regime in stile apartheid, ma invece nel cuore stesso dell’etnocrazia segregazionista, cioè dentro le frontiere dell’Israele del 1967?
È ancora possibile chiudere gli occhi per evitare di vedere la verità. Continuare a sostenere che il popolo ebraico sia esistito per quattromila anni come «Eretz Israel». Ma se i miti storici sono stati capaci, con una buona dose di immaginazione, di creare la società israeliana, in futuro rischiano di contribuire alla sua distruzione.

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