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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
13.04.2010 Ferrara 17-21/04, Fiera del Libro Ebraico
articoli di Cinzia Fiori, Paolo Foschini, Alessandro Piperno

Testata: Corriere della Sera
Data: 13 aprile 2010
Pagina: 52
Autore: Cinzia Fiori - Paolo Foschini - Alessandro Piperno
Titolo: «Caratteri d’identità - Tra quei gioielli nascosti sulle strade di Bassani - Quel lungo bivacco nella solitudine. Ecco l’insonnia popolata di incubi»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/04/2010, a pag. 52, l'articolo di Cinzia Fiori dal titolo " Caratteri d’identità ", l'articolo di Paolo Foschini dal titolo " Tra quei gioielli nascosti sulle strade di Bassani ", a pag. 53, l'articolo di Alessandro Piperno dal titolo " Quel lungo bivacco nella solitudine. Ecco l’insonnia popolata di incubi ". Ecco i tre pezzi:

Cinzia Fiori : " Caratteri d’identità "


Riccardo Calimani

Quanti sono gli ebrei in Italia? Fermatevi e provate a dare una risposta. Un milione? No. Duecentocinquantamila? Neppure. La maggior parte di noi li sovrastima. Pochi sanno che sono soltanto venticinquemila. «Le minoranze sono sempre sovraesposte. Se ci sono mille palline bianche e una sola nera, per una legge della percezione, noi vediamo palline bianche e palline nere», spiega Riccardo Calimani, scrittore, direttore del Museo ebraico di Ferrara e della neonata Festa del libro ebraico. Il motivo della kermesse è presto detto: gli ebrei sono, sì, una minoranza esigua, ma decisamente produttiva e interessante per la cultura. Tant’è che in Italia, tra volumi scritti da ebrei e testi che hanno gli ebrei per tema, si contano 1.500 titoli. «Eppure molti ci considerano ancora stranieri: provate a chiedere da quando siamo in Italia. Quanti sanno che siamo qui da prima dei papi?». I pregiudizi, per dirla con Hannah Arendt, sono ineliminabili e, visto che si tratta di preconcetti irrazionali ma pertinaci, tanto vale portarli alla consapevolezza di tutti, così che vengano valutati come tali e non come verità assolute. Non a caso, proprio ai pregiudizi sugli ebrei e degli ebrei sarà dedicata una tavola rotonda.

C’è poi un’altra categoria di pregiudizi, quelli comuni a tutti. Per esempio: «Si dice che gli ebrei siano sempre stati un popolo perseguitato — racconta Calimani —. E il bello è che ne sono convinti gli stessi ebrei. Ma, posto che la storia è un mattatoio, se fossimo sempre stati perseguitati, saremmo estinti da tempo». Un pregiudizio sugli ebrei li vuole tutti comunisti, ma c’è una spiegazione: «Certo, basta fare un elenco di nomi a partire da Marx, per continuare con Zinoviev, Kamenev, Rosa Luxemburg... sono tanti. Il motivo è quasi banale. Oppressi com’erano in quasi tutti gli Stati, vedevano nella rivoluzione socialista la possibilità di conquistare diritti e dignità, nonché la chance di uscire dalla comunità ebraica, spesso considerata opprimente». Una Festa del libro ebraico non può non indurre a citare il pregiudizio che vuole gli ebrei più intelligenti degli altri. Sorvolando sulla tentazione di dire «ve ne presento una schiera di cretini», Calimani racconta che «nel mondo ebraico c’è sempre stato il culto dello studio, a partire da quello del Talmud. C’è poi un’altra ragione. La nostra comunità religiosa non ha un’autorità. Qualche rabbino naturalmente ci ha provato, ma senza successo. Il risultato è che abbiamo sviluppato un pensiero autonomo, critico, anticonvenzionale».

Della stesa opinione è Moni Ovadia che, impossibilitato a partecipare, alla tavola rotonda manderà un intervento video. Lui fa risalire quella che chiama la scomodità ebraica ai tempi biblici. «Fu Abramo — spiega — a distruggere l’idolatria, intesa in senso ampio, comprendendo cioè il rifiuto di tutte le forme di pensiero non critico. Ai tiranni non piace chi ragiona di testa propria, perciò i dittatori hanno sempre dipinto gli ebrei come una minaccia. L’idea che siano persone capaci di mettere in campo forze oscure di dominio persiste nei secoli. Ricordate quando dopo l’attentato alle Twin Towers alcuni siti islamisti diffusero la voce che fra le vittime non ci fossero ebrei? E insinuarono che il crimine fosse opera del Mossad? Il pervasivo Mossad — ironizza Ovadia— erede della fantasticata onnipotenza ebraica. Purtroppo le vittime ebree furono 480. Ma come possibile che moltissimi siano stati pronti a credere in una bufala simile?». La risposta è implicita.

L’asserita superiorità intellettuale ebraica nasce in questo crogiolo di oscuri timori opportunisticamente alimentati ma, racconta Calimani, è anche legata alle circostanze: «Nella fiorente Vienna di inizio Novecento gli ebrei erano il dieci per cento della popolazione ma il settanta per cento di loro faceva il medico o l’avvocato. Per spirito critico erano infatti restii all’esercito e non potevano entrare in magistratura perché occorreva la conversione». Poco meno di un secolo prima dei vivaci giorni viennesi di Mahler e Freud, e un po’ più a nord, in Germania, il padre di Felix Mendelssohn esplicitava un pregiudizio degli ebrei «Incitava il figlio a usare il cognome da luterano Bartholdy, perché voleva che diventasse un grande compositore e temeva che il nome ebraico gli fosse d’impedimento. Una divisione tra l’apparenza sociale e la tradizione familiare che accomuna molti intellettuali e artisti, basti pensare a quanto è diverso il Kafka dei romanzi da quello che nelle lettere rimprovera il padre di non avergli spiegato l’ebraismo. In fondo, con questa scissione tra pubblico e privato nasce l’intellettuale ebreo moderno. Il primo e il paradigma di essi fu Spinoza: la metafora del marrano. Molti uomini di cultura, allontanatisi dalla sinagoga, volevano essere riconosciuti come intellettuali e null’altro. A compiere il passo successivo fu Otto Weininger. A inizio Novecento scrisse un testo antisemita, Sesso e carattere, che fece schiere di proseliti insegnando l’odio ebraico di sé. Karl Kraus detestava il suo essere ebreo. Il cognome Pincherle disturbava Moravia, e l’appartenenza ebraica pesava anche a Franco Fortini, che si chiamava Lattes. Per non parlare di Aron Hector Schmitz, che scelse di passare alla storia come Italo Svevo».

Paolo Foschini : " Tra quei gioielli nascosti sulle strade di Bassani "


Giorgio Bassani

«Noi siamo molto contenti che vengano ad abitare qua con le loro famiglie (...) perché a Casa nostra sempre saranno benvisti e ben trattati in tutte le cose che potremo». La lettera era datata 20 novembre 1492. Cristoforo Colombo aveva scoperto un Nuovo Mondo oltreoceano giusto il mese prima, ma non è che qui nel Vecchio ci fossero buone notizie per tutti. Gli ebrei di Spagna per esempio, su ordine di Isabella di Castiglia e con l’appoggio dei due papi Innocenzo VIII e Alessandro VI Borgia succedutisi proprio quell’anno, si erano visti espellere in massa dal Paese e in Europa non li voleva praticamente nessuno. Con l’eccezione rappresentata appunto da quella lettera.

La firma era di Ercole I d’Este, duca di Ferrara che, aprendo così le porte della città agli esuli della diaspora sefardita, dava in realtà sèguito a una presenza culturale ebraica che la capitale estense allora conosceva già da almeno trecento anni e sarebbe arrivata, secoli dopo, a Giorgio Bassani. Le tracce di questa storia sono silenziose e discrete, ma la città che ora ospita le giornate del libro ebraico le ha conservate tutte. A cominciare dal nome della strada che dal Castello taglia il centro cittadino verso Est, l’attuale Corso Giovecca, fin troppo trasparente derivato dell’antica «Giudecca» in cui proprio l’arte libraria, tra parentesi, fu una delle ricchezze portate dagli esuli di Spagna e Portogallo: la tipografia del portoghese Abraham Usque è quella che stampò la celebre «Bibbia di Ferrara», tuttora custodita alla Biblioteca Ariostea, nel cuore di quello che nel 1627, finito il dominio estense e passata la città allo Stato pontificio, sarebbe diventato il Ghetto.

E un itinerario nella storia ebraica di Ferrara non può che partire da qui. Nel triangolo compreso tra via Mazzini (un tempo via Sabbioni), via Vittoria (una volta via Gattamarcia) e via Vignatagliata. Chiuso tra cinque cancelli i cui cardini sono ancora parzialmente visibili all’inizio di via Mazzini.

È la strada in cui si trova tuttora, al numero 95, la sede della Comunità ebraica e della Sinagoga, guidata oggi dal rabbino Luciano Caro. Anzi, «delle» sinagoghe, perché in realtà dentro il medesimo edificio, donato agli ebrei ferraresi nel 1485 da un banchiere di origine romana, di sinagoghe ce ne sono tre: la «scola tedesca», inaugurata nel 1603, in cui oggi si celebrano le feste solenni; la «scola fanese», che attualmente ospita le funzioni del sabato; e poi quella italiana, devastata dai fascisti durante la guerra e oggi riservata alle riunioni. Solo una targa ricorda invece la sinagoga di rito sefardita che gli esuli spagnoli avevano aperto in via Vittoria, e che dopo la distruzione fascista subìta a sua volta non fu più ripristinata. «Oggi — dice il rabbino Caro — la comunità ebraica ferrarese conta forse meno di 150 persone. Ma le attività culturali del Museo realizzato in via Mazzini sono comunque costanti: le nostre lezioni di cultura ebraica hanno cadenza settimanale e sono frequentate non solo da ebrei».

Una cultura ebraica che si intreccia con i caratteri propri della città. Compresa una certa chiusura e gelosia del proprio «privato» che, tra le altre cose — ricorda il rabbino — fu alla base di qualche vecchia ruggine tra una parte della comunità e lo stesso Giorgio Bassani: «Alcuni dissero di essersi riconosciuti in certi personaggi del suo " Giardino dei Finzi Contini", e non apprezzarono. Ma è storia vecchia e per fortuna superata». Del resto sarebbe inutile cercare il

Giardino «vero». Luogo nato dalla trasfigurazione e sovrapposizione di più d’uno, summa di luoghi reali — come il resto delle ambientazioni delle « Storie ferraresi» — che invece i lettori di Bassani possono ritrovare eccome: dalla sua casa vicino alla palazzina di Marfisa d’Este, sede del circolo tennis citato nel Giardino, sino all’edificio in cui fu immaginato lo studio del dottor Faticati degli «Occhiali d’Oro», da quel Corso Ercole d’Este, i cui giardini comunque lo ispirarono, sino al muretto del fossato del Castello, in Corso Martiri della Libertà, dove una lapide ricorda le vittime della strage fascista evocata in «Una notte del ’43». La tomba dello scrittore, oggi marcata da una stele di Arnaldo Pomodoro, è proprio in fondo a una delle tappe più suggestive del giro: il cimitero ebraico che si trova dal 1626 in via delle Vigne, a ridosso delle Mura degli Angeli.

Bisognerà aspettare almeno il 2011, invece, per poter visitare quella destinata a diventare forse la più importante istituzione culturale ebraica italiana: vale a dire il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, ospitato nell’ex carcere di via Piangipane. Significativamente scelto proprio in quanto luogo un tempo di segregazione, trasformato in momento di apertura culturale. Una scelta che sei secoli fa sarebbe piaciuta anche a Ercole d’Este.

Alessandro Piperno : " Quel lungo bivacco nella solitudine. Ecco l’insonnia popolata di incubi "


Italo Svevo

Ho sempre trovato sconcertante l’accusa che Giacomo Debenedetti rivolse una volta a Italo Svevo: di aver privato Zeno Cosini — il più celebre tra i personaggi sveviani — della discendenza ebraica che avrebbe meritato. Svevo sarebbe potuto essere «l’artista di un certo momento dell’anima semita». Ma negando a Zeno Cosini un nome e un cognome giudaico sbatté la porta in faccia a questa imperdibile opportunità. Ecco la teoria di Debenedetti. Mi chiedo: davvero bastano un nome e un cognome a definire l’importanza e il destino di un personaggio, di un romanzo, di un’intera opera letteraria? Davvero se Svevo avesse fatto di Zeno Cosini una specie di Leopold Bloom, La coscienza di Zeno sarebbe stato un’opera ancora più importante ed emblematica?

Chissà che il discorso non meriti di essere ribaltato. Se ci sono tre scrittori che per me hanno incarnato il sentimento ebraico per antonomasia — ovvero il fervente spaesamento colmo di vergogna e di paura che non smette mai di attorcigliarsi su se stesso — be’ quelli sono Kafka, Proust e Svevo. Tre borghesi disadattati, di solida ascendenza ebraica, che hanno vissuto — con antonomastica e profetica angoscia— la vigilia della più devastante tragedia del popolo ebraico. Eppure, se penso al posto che gli ebrei trovano nelle opere di questi tre titani della narrativa novecentesca scopro che esso è inesistente o del tutto periferico. E mi domando perché. Solo per non esporre la loro opera al rischio dell’esotismo etnico? O solo perché lo spazio fin lì riservato agli ebrei dalla letteratura ufficiale— da Shakespeare a Dickens — era sempre stato saturato dallo stereotipo del laido giudeo? O forse perché in loro il desiderio di assimilazione era semplicemente più impellente che il richiamo della foresta? O perché l’ideale letterario che li animava era di marca flaubertiana, e quindi laico ematerialista? O forse solo perché a quel tempo essere ebrei era una cosa molto più spiacevole e pericolosa di quanto non lo sia oggi? Non ho risposte naturalmente. Ciò che so è che quando penso a Kafka, Proust e Svevo penso a tre sommi scrittori ebrei. E lo dico non senza emozione. Tre sommi scrittori ebrei che, con la discrezione dell’esempio, pongono al centro della loro opera la più annosa della questioni ebraiche. Ovvero, che diavolo significa essere ebrei? Una domanda cruciale! Che si pone sia mio padre che non crede in Dio sia il Rabbino capo di Gerusalemme che in Dio e nei suoi ferrei dettami ci crede e come. Una domanda che non ha risposta e che non deve averne. E tuttavia una domanda capitale di cui la narrativa novecentesca si è fatta carico quasi inconsapevolmente. George Steiner — per me sempre una luce impagabile — scrive: «Il rapporto di un ebreo, uomo o donna che sia, con la propria identità può essere talmente opaco, così logorante e gravido di ambiguità storiche, sociali e psicologiche, che è proprio tutto questo a definire la condizione dell’ebraicità, se è lecito includere l’indecibilità nella definizione».

Con buona pace di Debenedetti, Zeno Cosini è ebreo anche in virtù del fatto che non ha un nome ebraico. Così come, a suo modo, lo è il Narratore della Recherche, e come lo sono Joseph K. o Gregor Samsa. Non semplici personaggi ma autentiche profezie incarnate. Ciò che li accomuna è il rapporto complesso con la socialità. Quel senso di solitudine depravata e stagnante in cui bivaccano. La nostalgia per una comunanza umana che nella prassi è loro preclusa. Sono così soli che non trovano un po’ di requie neppure nell’affettuoso calore del Dna. Soli, soli come vermi.

Ne è trascorso di tempo da quando quei tre solitari giganti scrivevano. Da allora la narrativa ebraica ha preso il sopravvento su tutte le altre. Il numero di scrittori ebrei del secolo scorso e di questo nuovo millennio è impressionante, tanto più se si considera che parliamo di una minoranza demograficamente così marginale. Dai tempi di Kafka Proust e Svevo la fiction ebraica è diventata voga. Dando luogo ad autentici capolavori e a qualche assai più stanca variazione sul tema.

Sempre più si va radicando in me la consapevolezza che la narrativa giudaica per ritrovare quella forza primigenia abbia bisogno di emanciparsi da se stessa. A costo di scegliere la scomoda via della degiudaicizzazione.

L’ebreo è come uno che vive per tutta la vita con in tasca un passaporto falso. E passa i suoi giorni nel terrore di essere smascherato. La consapevolezza della sua impostura è la sua forza e il suo limite tragico. Ecco perché è abituato a essere guardingo, e a vigilare. Ecco perché la sua coscienza è instancabile. «Non amare il sonno» troviamo scritto nei Proverbi. Una massima straordinaria. La grande narrativa ebraica non è altro che questo: una lunga insonnia popolata di incubi.

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