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Informazione Corretta Rassegna Stampa
13.04.2010 Quanto vale un prigioniero?
Analisi di Federico Steinhaus

Testata: Informazione Corretta
Data: 13 aprile 2010
Pagina: 1
Autore: Federico Steinhaus
Titolo: «Quanto vale un prigioniero?»

" Quanto vale un prigioniero?"
di Federico Steinhaus


Gilad Shalit

La domanda si potrebbe porre anche in maniera più drammatica: quanto vale una vita umana?

E’ la domanda alla quale da tre anni non riesce a trovare una risposta Israele. E’ la domanda che tutti si sono posti nella sera di Pesach – la Pasqua ebraica - dedicata alla cena tradizionale che riunisce tutta la famiglia e gli ospiti (la porta di casa rimane aperta e chi non ha dove andare può entrare) attorno ad una tavola imbandita con i cibi che simboleggiano la schiavitù in Egitto, che fanno da scenario al racconto della liberazione del popolo ebraico ad opera di Mosè.

In quella sera, ad ogni tavola imbandita in Israele una sedia è rimasta vuota, per accogliere Gilad Shalit, il giovanissimo soldato israeliano catturato da Hamas tre anni fa, mai visitato dalla Croce Rossa e tuttora nella mani del gruppo terrorista.

In questi giorni si celebrano in una consecutività drammatica il Giorno della Shoah, che ricorda la grande tragedia di 65 anni fa, il Giorno del Ricordo dedicato a tutti i caduti delle guerre che Israele ha dovuto combattere dal 1948 per la propria sopravvivenza, e, come momento culminante, la Festa dell’Indipendenza, che ricorda la proclamazione dello stato d’Israele. Il dolore come necessario momento di passaggio per ricevere ed onorare con gioia la libertà. E, nuovamente, il paese ha in mente il destino di Gilad Shalit.

La tradizione ebraica vuole che nessun prigioniero sia lasciato nelle mani del nemico, neppure quando si abbia la certezza che non è più in vita. Così è stato finora: centinaia di terroristi arrestati e detenuti in Israele sono stati liberati quando Hezbollah ha restituito le salme di tre militari, dopo la guerra del 2006, e così era avvenuto in precedenza in casi analoghi. Ma per Shalit Hamas ha chiesto la liberazione di mille terroristi, molti dei quali si sono macchiati di stragi orrende: uno scambio “asimmetrico”, come asimmetrica è per comune definizione la guerra che gli stati combattono contro il terrorismo. Vi è la certezza che questi terroristi verrebbero salutati come eroi da Hamas e reinseriti nella lotta spietata contro l’esistenza di Israele, la certezza cioè che essi verrebbero nuovamente messi in condizione di uccidere altri civili. E lo scambio sarebbe sicuramente percepito da Hamas come una vittoria politica di prima grandezza, incoraggiando altri rapimenti da sfruttare per analoghi scambi futuri (molti tentativi di rapimento sono stati sventati dall’esercito israeliano negli ultimi anni).

Fin dai tempi di Abramo (Genesi 14:12-16) il salvataggio dei prigionieri è considerato un valore etico fondamentale, e Maimonide lo indica come l’opera benemerita (Mizvah) più grande che un uomo possa compiere.

L’etica ebraica su questo particolare argomento viene tuttavia strattonata dalla considerazione che si tratta, per lo stato d’Israele, di una minaccia strategica che coinvolge la sua stessa esistenza. E’ poi la Mishnà stessa a codificare fin dall’epoca del secondo Tempio che bisogna stabilire quale sia il valore del prigioniero prima di pagarne il riscatto, ponendo in tal modo il problema in termini di interesse nazionale.

Oggi, a differenza dai tempi antichi, il rapimento è tuttavia un fattore strategico inserito nel contesto della guerra globale contro l’esistenza dello stato d’Israele, ed ha pertanto una valenza impensabile a quei tempi. La liberazione di un prigioniero “a qualsiasi costo” comporta la creazione implicita di un incentivo a catturarne altri e mette in pericolo la vita non solo di chi lo salva ma anche di altri innocenti. Questo dilemma è stato risolto da alcune autorità rabbiniche con il riconoscimento della legittimità anche etica delle decisioni del governo, che “può” ma non “deve”: l’assenza di un imperativo etico-religioso lascia al governo la facoltà di decidere se mettere in atto quanto è necessario per liberare Shalit oppure se rinunciare a fronte del probabile alto costo in ulteriori vite umane. 

Dall’inizio del 2010 vi sono state non poche singolari coincidenze. La visita del Papa alla sinagoga di Roma preceduta da forti polemiche, l’indecisione dei governi occidentali dinanzi alla minaccia iraniana che fa temere uno scaricabarile del quale farebbe le spese Israele, la crisi diplomatica con gli Stati Uniti. In questi ultimi giorni, inoltre, con un crescendo insolito, autorevoli voci della Chiesa cattolica hanno accusato gli ebrei di complottare contro il Papa nella triste vicenda della pedofilia, di aver dato con la loro potenza economica buone ragioni a Hitler per l’invio alle camere a gas, di sfruttare come una clava il tema della Shoah, ed anche – quando rispondono a queste aggressioni verbali – di fare come al solito le vittime per farsi compiangere e meglio ricattare la Chiesa. Qualcuno ha perfino arditamente affermato che i preti accusati di pedofilia sono da considerare come le vittime della Shoah.

Poiché in certi ambienti saggi e cauti nulla accade per caso, ci chiediamo se vi sia qualche collegamento con possibili modificazioni della politica della Santa Sede verso Israele. Per il momento nulla lo fa presagire, ma anche la crisi con gli Stati Uniti era stata costruita ad arte da Obama per lanciare segnali inquietanti. Lo scenario internazionale è in rapida evoluzione (o involuzione?) e non se ne capta, per ora, il fine che persegue; ma tante coincidenze inusuali legittimano per lo meno che ci si possa porre la domanda.


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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