Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/04/2010, a pag. 8, gli articoli di Maurizio Molinari titolati " L'Ucraina: elimineremo tutte le scorte atomiche " e " Il prof e l'ex spia dietro il successo della Casa Bianca ". Dal FOGLIO, in prima pagina, gli articoli titolati " Attacco in casa " e " L’ansia nucleare di Obama ha un centro, è la bomba pachistana". Dal GIORNALE, a pag. 17, l'articolo di Giordano Bruno Guerri dal titolo " Il mondo ai piedi degli Usa, ma oggi non si cambia la storia ", preceduto dal nostro commento. Pubblichiamo l'analisi di David Braha dal titolo " Iran, Europa e Cina ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " L'Ucraina: elimineremo tutte le scorte atomiche "
Barack Obama
La Cina si impegna a lavorare con gli Stati Uniti sulle sanzioni Onu contro l’Iran e l’Ucraina annuncia che eliminerà tutte le scorte atomiche entro il 2012: si apre così il summit sulla Sicurezza Nucleare convocato da Barack Obama, contro il quale si scaglia Teheran accusandolo di «voler umiliare gli esseri umani».
La convergenza sulle sanzioni all’Iran è emersa dal colloquio di Obama con il collega cinese Hu Jintao nel bilaterale più atteso del vertice. «I due presidenti hanno concordato di dare mandato alle rispettive delegazioni di lavorare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla risoluzione sulle sanzioni» fa sapere Jeff Bader, consigliere di Obama per l’Asia, sottolineando come la convergenza è su un testo che «renderà chiaro all’Iran il costo di perseguire un programma nucleare che viola i suoi obbligi internazionali» ovvero le tre risoluzioni Onu che già chiedono uno stop all’arrichimento dell’uranio. Per la Casa Bianca quanto avvenuto fra Obama e Hu testimonia «l’unità della comunità internazionale» nel voler impedire all’Iran di raggiungere l’arma atomica. Da qui la previsione di Ben Rhodes, portavoce del presidente Usa, di un accordo al Palazzo di Vetro «entro le prossime settimane» anche grazie all’intesa con la Russia. Hu da parte sua ha scelto di non rilasciare commenti sull’Iran ma dagli ambienti della sua delegazione filtra l’opposizione al «bando totale nei confronti di tutti i nuovi investimenti nel settore energetico iraniano» dove le aziende di Pechino sono presenti. E ciò lascia intendere che il negoziato Usa-Cina sul testo sia ancora agli inizi ma ciò che conta per la Casa Bianca è il dato politico di una «crescente coesione internazionale» come Obama ha detto dopo il colloquio col premier della Malaysia, Najib Abdul Razak. A premere per accelerare la decisione da parte del Consiglio di Sicurezza è la cancelliera tedesca Angela Merkel: «Il tempo stringe e la decisione deve essere adottata al più presto».
La reazione di Teheran a quanto sta maturando a Washington è arrivata dal presidente Mahmud Ahmadinejad secondo il quale «i summit mondiali che si stanno svolgendo in questi giorni sono tesi a umiliare gli esseri umani». E il rappresentante iraniano all’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) Alì Ashgar Soltanieh ha messo le mani avanti su quelle che saranno le conclusioni di Washington: «Saranno atti scontati e non vincolanti per gli Stati che vi prendono parte». Una frase che si riferisce in primo luogo alla Cina, che parteciperà nel fine settimana a Teheran ad un contro-vertice voluto da Ahmadinejad per sostenere il diritto dell’Iran a sviluppare l’energia nucleare. Ma Obama è determinato a perseguire l’isolamento della Repubblica Islamica e al termine del bilaterale con il re giordano Abdullah ha detto: «L’Iran ha diritto al nucleare civile non a quello militare, le pressioni della comunità internazionale devono proseguire e aumentare».
Obama ha ottenuto il suo secondo risultato quando il presidente Viktor Yanukovych ha fatto sapere che «l’Ucraina si impegna a eliminare entro il 2012 l’uranio arricchito al punto da poter formare una bomba atomica». Per la Casa Bianca è un «passo storico» perché «da dieci anni gli Usa stavano inseguendo questo risultato». Obama vede in Kiev l’esempio a cui richiamarsi per spingere gli altri leader ad assumere analoghi impegni come anche il modello di «decisione sovrana» da offrire a Teheran come via d’uscita all’attuale crisi nucleare. In serata Obama ha riunito i 47 leader ospiti nella cena che ha dato inizio ai lavori, ponendo la necessità di adottare «decisioni concrete» per scongiurare l’incubo del terrorismo nucleare.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Il prof e l'ex spia dietro il successo della Casa Bianca "
John Brennan, Gary Samore
Lo 007 che affiancò George W. Bush nella cabina di regia della guerra ad Al Qaeda e l’accademico che pianificò con Bill Clinton la strategia contro la bomba nordcoreana: John Brennan e Gary Samore sono i due mastini, dell’antiterrorismo e della lotta alla proliferazione, che affiancano il presidente americano Barack Obama nella maratona di un summit che hanno aiutato a preparare negli ultimi mesi.
Brennan e Samore non potrebbero essere più differenti: il primo non ama apparire in pubblico, parla a monosillabi, si è formato nell’intelligence e sarebbe alla guida della Cia se i gruppi militanti liberal della California non ne avessero sabotato la candidatura rimproverandogli complicità nelle torture sui presunti terroristi detenuti a Guantanamo, il secondo invece è un sociologo formatosi a Harvard che deve le proprie conoscenze sulla proliferazione nucleare a anni di lavoro nelle task force dei centri studi - come il «Council on Foreign Relations» di New York - e durante gli anni di Clinton fu il primo a dover immaginare come rispondere alle sfide nucleari provenienti da Pyongyang.
Anche fisicamente sono l’opposto: Brennan ha il fisico massiccio dell’agente segreto con la giacca che si chiude sempre con difficoltà per via delle spalle troppo grandi, anche quando non porta la pistola. Samore invece ha una corporatura minuta e gli occhiali che spesso indossa lo fanno apparire fragile. Brennan è un uomo d’azione e Samore un analista riflessivo ma quando Barack Obama li mette seduti uno a fianco all’altro nello Studio Ovale crea un «team unico», come assicura il portavoce Robert Gibbs.
Fino ad ora i riflettori avevano premiato soprattutto Samore, che aveva avuto l’onore della ribalta a settembre in occasione del summit di Pittsburgh del G20 allorché venne svelata l’esistenza dell’impianto nucleare segreto iraniano a Qom: fu infatti lui ad affiancare Obama nella stesura della dichiarazione comune con il francese Sarkozy e il britannico Brown così come toccò a lui spiegare ai reporter la genesi della rivelazione dell’impianto da parte dei servizi di intelligence occidentali. Samore in quell’occasione parlò alla sua maniera: occhi bassi, voce tenue e una valanga di dati scientifici.
Al Convention Center invece adesso è arrivato il momento di Brennan. Le dichiarazioni finali in arrivo oggi da parte dei 47 leader devono molto alle sue idee ed anche al suo linguaggio, che è assai esplicito. Basti pensare alla frase «Al Qaeda cerca da 15 anni di avere una bomba atomica per farla esplodere in una grande città e se non c’è riuscita è anche merito nostro». Brennan ama più l’azione che il linguaggio e se Obama lo ha portato con sè al tavolo dei leader è per dare al summit lo slancio verso l’adozione di impegni concreti. Come avvenuto con l’Ucraina che ieri è stata la prima ad impegnarsi a mettere al sicuro tutti i suoi «materiali a rischio» entro il 2012, affidando poi proprio a Brennan il compito di darne l’annuncio.
Ma c’è dell’altro: John Brennan e Gary Samore nei briefing nella sala protetta del bunker sotto la Casa Bianca sono gli uomini a cui Obama chiede più spesso opinione su come fermare la corsa di Teheran verso l’arma atomica. E dalle poche indiscrezioni che trapelano i loro consigli seguono sempre binari rigorosamente paralleli perché il compito di Samore è fornire un’analisi aggiornata sull’avvicinamento scientifico dell’Iran all’atomica mentre a Brennan tocca il delicato compito di suggerire i possibili modi affinché questo non possa mai avvenire.
INFORMAZIONE CORRETTA - David Braha : " Iran, Europa e Cina "
David Braha
Ci siamo. Il momento cruciale, in cui il mondo intero dovrà decidere il da farsi sul problema dell’Iran e della sua corsa al nucleare, è ormai arrivato. Sono anni ormai che siamo abituati a sentir dire che ‘presto sarà troppo tardi’ per evitare che gli ayatollah ottengano il nucleare, ma nessuno sembra aver mai preso la minaccia troppo sul serio, al punto che le inconcludenti trattative internazionali su possibili strade alternative proposte da governi ed istituzioni come l’ONU e l’IAEA [International Atomic Energy Agency] hanno raggiunto l’obiettivo diametralmente opposto a ciò che si proponevano in primo luogo: invece di arrestare Teheran, le chiacchiere hanno lasciato agli iraniani tutto il tempo necessario per continuare indisturbati il loro programma. Fino ad oggi: appena due mesi fa il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato che il proprio paese ha raggiunto una capacità di arricchimento dell’uranio del 20 per cento, livello nettamente superiore al 5 per cento necessario per l’uso civile di tale risorsa, ma ancora distante dal 90 per cento circa, necessario per la realizzazione di testate nucleari. Non sono bastate le minacce di “cancellare Israele dalle mappe”, le violente repressioni ai danni del popolo iraniano in rivolta contro il regime, la scoperta di diversi impianti segreti come quello di Qom, a svegliare il mondo sulle reali intenzioni degli ayatollah di puntare al nucleare bellico: ma a questo punto, saranno in grado i governi e le organizzazioni internazionali di fermare questo processo prima che sia veramente ‘troppo tardi’?
Le ultime speranze per una soluzione pacifica del problema risiedono soprattutto nel pacchetto di sanzioni ai danni di Teheran in discussione all’ONU. Tuttavia non sono pochi gli esperti che sollevano forti dubbi sul reale impatto che tali sanzioni possono avere. Basti pensare al fatto paradossale che i tre governi europei maggiormente ostili al programma nucleare iraniano, sono e restano i tre maggiori partner commerciali del regime degli ayatollah nel Vecchio Continente: l’Italia di Berlusconi, con 6 miliardi di euro di interscambio al dato di fine 2008, la Germania della Merkel con 4,4, e la Francia di Sarkozy con 4,1. È vero che firme europee grandi e piccole – tra cui i giganti Eni, Munich Re, Allianz e Simens – hanno scelto chiudere, ridurre, o non ampliare le proprie attività commerciali con Teheran; ma è anche vero che per arrestare una volta per tutte le ambizioni nucleari iraniane, non basterà soltanto diminuire, per quanto drasticamente, gli scambi commerciali con gli ayatollah, ma bisognerebbe piuttosto ‘chiudere completamente il rubinetto’, colpendo soprattutto il mercato del petrolio. Secondo questa posizione, avanzata principalmente da gruppi di iraniani opposti al regime, sanzioni dure ed effettive tali da paralizzare l’economia iraniana aumenterebbero il malcontento in una popolazione già oppressa, facilitando così una rivolta popolare ai danni della già debole e delegittimata classe politica.
Quest’ultimo sarebbe di certo il migliore tra gli scenari possibili, in quanto eviterebbe lo scoppio di uno scontro armato di vaste dimensioni tra potenze sia regionali che non, e restituirebbe allo stesso tempo legittima sovranità, per tanto negata, al popolo iraniano. Ma oltre alla natura vera e propria di queste sanzioni discusse all’ONU, e al loro reale potenziale di indebolire gli ayatollah, c’è una seconda variabile che ancora ci separa dalla possibilità di veder realizzata l’ipotesi sopra descritta: la Cina. È noto che Pechino ha grande interesse a mantenersi in buone relazioni con l’Iran, in quanto è uno dei principali paesi in grado di garantirgli l’accesso a risorse come petrolio, gas e minerali nel lungo termine, al fine di continuare a cavalcare il proprio boom economico – basti pensare il 14% dei carburanti importati dalla Cina arrivano proprio da Teheran. È per questo che il possibile veto cinese al Consiglio di Sicurezza è al momento ciò che preoccupa di più i promotori delle sanzioni, con in testa gli Stati Uniti: se Pechino decidesse veramente di bloccare il pacchetto di sanzioni, il rischio è che queste vengano prese unilateralmente da USA ed Europa diminuendone drasticamente l’impatto, ed aprendo quindi la porta a scenari e sviluppi del tutto incerti. Tuttavia la diplomazia internazionale è al lavoro affinché ciò non avvenga: da quando addirittura la Russia si è schierata dalla parte dei paesi che si oppongono al nucleare iraniano, i cinesi hanno perso il loro maggior alleato in sede del Consiglio di Sicurezza e si trovano di conseguenza in una situazione molto più debole rispetto a prima.
Il momento cruciale, in cui il mondo intero dovrà decidere il da farsi sul problema dell’Iran e della sua corsa al nucleare, è ormai arrivato. Nelle sedi diplomatiche e nel Palazzo di Vetro dell’ONU il linguaggio è quasi sempre pacato e cordiale, ma il messaggio che le democrazie occidentali stanno recapitando a Pechino è il seguente: l’unica cosa che potrebbe impedire che l’Iran ottenga il nucleare, l’unica cosa in grado di arrestare una pericolosa escalation armata in Medio Oriente, potrebbe essere proprio la Cina. Questo, probabilmente, è l’ultimo appello. La Cina, così come l’Europa, devono scegliere tra due tipi di vantaggi a lungo termine: uno economico, l’altro di sicurezza. A quale daranno la precedenza? Presto lo scopriremo.
Il FOGLIO - " Attacco in casa"
Dick Cheney
Roma. L’Amministrazione a Washington è cambiata, il pericolo di un attacco devastante no. Due giorni fa, alla vigilia del summit sulla sicurezza nucleare, il presidente americano Barack Obama ha identificato ancora una volta la minaccia più grave contro l’America: “A breve, medio e lungo termine è la possibilità che un ordigno nucleare cada nelle mani di un’organizzazione terroristica”. Vale anche per il resto del mondo: “Un’esplosione atomica a New York, Londra o Johannesburg. E sappiamo che organizzazioni come al Qaida sono al lavoro per entrare in possesso di un’arma nucleare – un’arma di distruzione di massa che non esiterebbero a usare”. E’ la stessa dottrina spiegata dal vicepresidente Dick Cheney durante un briefing riservato nel novembre 2001, due mesi dopo gli attacchi a New York e al Pentagono, con l’allora direttore della Cia, George Tenet, e l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice. Gli Stati Uniti sono costretti a misurarsi con un tipo di minaccia inedito, un attacco nucleare lanciato da terroristi: un evento “a bassa probabilità, ma ad alto impatto”, nella definizione di Cheney. Il briefing era stato convocato dopo la notizia dei movimenti di uno scienziato pachistano – e soprattutto delle sue offerte – nei circoli di al Qaida. Nove anni più tardi, la dottrina non è stata modificata: il rischio maggiore è ancora l’attacco di un’organizzazione, e non di uno stato. Anche se Obama è stato abile nel lanciare la visione di un mondo senza più armi nucleari – la prima pagina per ora è la spettacolare firma del trattato Start II con la Russia, meno sostanzioso di quel che appare e ancora da ratificare in entrambi i paesi – nemmeno la linea dell’Amministrazione è cambiata: “Se esiste soltanto l’un per cento di probabilità che al Qaida abbia l’atomica, bisogna reagire come se fosse certo al cento per cento”.
Il FOGLIO - " L’ansia nucleare di Obama ha un centro, è la bomba pachistana"
Washington. Una decina di isolati presidiati dai servizi segreti fanno capire quanto l’Amministrazione Obama sia tesa per il summit sulla sicurezza nucleare che si chiude oggi al Washington Convention Center. Ieri mattina centinaia di giornalisti e rappresentanti delle 46 delegazioni hanno invaso la decima strada, superando controlli multistrato intervallati da macchie di manifestanti pro Tibet, pallido segno di tensione per il meeting fra Obama e il presidente cinese Hu Jintao. Al centro del colloquio la politica monetaria si è sovrapposta alle pressioni che l’America sta facendo perché la Cina sottoscriva le sanzioni al nucleare iraniano. Il meeting è andato in scena per ultimo, dopo i colloqui del presidente con Malesia, Ucraina e Armenia. Il summit voluto da Obama per stringere nuovi accordi sul nucleare è più nelle assenze che nelle presenze. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha declinato e i paesi al centro delle preoccupazioni di Washington, Iran e Corea del nord, vengono processati in contumacia. Il dossier che emerge è quello sull’altalenante alleato pachistano. Domenica Obama ha incontrato il primo ministro, Reza Gilani, per dire all’alleato strategico che la riapertura dei rapporti commerciali nucleari con l’India non è una minaccia per Islamabad. Obama ha fatto un discorso parallelo al primo ministro indiano, Manmohan Singh, preoccupato dalla corsa nucleare del nemico storico. Corsa che, spiega l’ex analista della Cia Bruce Riedel, è complicata dal fatto che “la minaccia alla sicurezza nucleare del Pakistan viene dal gruppo che lo stato non combatte, Laskhar- e-Taiba, gli attentatori di Mumbai”. Il gruppo condivide con l’esercito la zona di reclutamento, il Punjab: una vicinanza che ha reso le relazioni fra esercito e terroristi un “affare di famiglia”. Anche per questo lo scopo dei dialoghi di Obama non è fare dichiarazioni contro i nemici, ma mettere le cose in chiaro con gli amici.
Il GIORNALE - Giordano Bruno Guerri : " Il mondo ai piedi degli Usa, ma oggi non si cambia la storia "
Guerri scrive, riguardo all'Onu : " è comunque straordinario che quei popoli siano rappresentati nel Palazzo di Vetro con l’intenzione dichiarata di promuovere i diritti umani, la pace, lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’intero globo. Spesso si tratta di belle intenzioni non rispettate, ma è pur vero che dall’Onu derivano l’Unicef, l’Unesco, il Consiglio dei diritti umani, l’Alto commissariato per i rifugiati... ".
Non è possibile vedere in chiave positiva enti come Unicef, Consiglio dei Diritti umani. Per quanto riguarda l'Unicef, promuove volantini contro Israele, firmandoli col proprio logo. Sul Consiglio dei diritti umani ricordiamo che Iran e Libia entreranno a farne parte a breve e che l'attuale commissario per i diritti umani, Navi Pillay, è nota per le sue accuse ingiustificate contro Israele, da lei definito 'Stato di apartheid' e per i silenzi di fronte alla costante violazione dei diritti umani in alcuni Paesi del globo.
Ecco l'articolo:
Navi Pillay, commissario per i diritti umani Onu
Il summit sulla sicurezza nucleare che si sta svolgendo a Washington è di straordinaria importanza. I rappresentanti di 47 Paesi si incontreranno per raggiungere accordi importanti, come mettere al sicuro entro quattro anni le armi nucleari che potrebbero finire in mano a terroristi di qualsiasi specie e provenienza, anche se soprattutto si pensa ad Al Qaida. Il vertice è stato voluto da Obama, e il presidente statunitense ne può andare fiero: indica la volontà di applicare una strategia planetaria a un problema così decisivo e delicato, con l’accordo di quanti più Stati possibile.
Sì, ma non esageriamo con i paragoni, che sembrano dettati più dall’ufficio stampa del presidente americano che dal senso della storia. In questi giorni si leggono e si sentono spesso i commenti di chi confronta la riunione di Washington con la conferenza internazionale che nel 1945, a San Francisco, portò alla nascita dell’Onu. È vero che si tratta dell’incontro internazionale più vasto mai organizzato da un presidente degli Stati Uniti negli ultimi 65 anni, ma il paragone non regge.
Infatti la nascita dell’Onu – pur con tutti i limiti e i problemi che l’organizzazione ha avuto, ha e avrà – è stato il più importante evento internazionale di pace di tutti i tempi; ha determinato la storia della seconda metà del Novecento e, per quanto in crisi, sarà ancora determinante nei prossimi anni, o decenni.
L’Onu oggi comprende la quasi totalità dei circa duecento Stati della Terra, e il preambolo del suo statuto afferma: «Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole...». Spesso, troppo spesso, la promessa del preambolo non è stata mantenuta; spesso, troppo spesso, i veti incrociati delle grandi potenze hanno paralizzato l’organizzazione internazionale; e troppo spesso interventi che dovevano essere risolutivi si sono conclusi in un fallimento, in una surreale impotenza di quei caschi assurdamente blu che dovrebbero rappresentare la volontà di quasi tutti i popoli del mondo.
Ma è comunque straordinario che quei popoli siano rappresentati nel Palazzo di Vetro con l’intenzione dichiarata di promuovere i diritti umani, la pace, lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’intero globo. Spesso si tratta di belle intenzioni non rispettate, ma è pur vero che dall’Onu derivano l’Unicef, l’Unesco, il Consiglio dei diritti umani, l’Alto commissariato per i rifugiati, il Programma per l’ambiente e quello per lo sviluppo economico. Carrozzoni che a volte finiscono per alimentare solo se stessi, ma che indubbiamente ottengono dei risultati. Il principale è proprio nell’esistenza stessa dell’Onu, nella promessa di unire le volontà di tutti per il bene dell’umanità. L’affermazione del principio compensa, da sola, la frequente delusione per i risultati.
Il vertice di Washington ha un obiettivo importantissimo – ovvio – ma più limitato. Dopo avere firmato con la Russia, giovedì scorso a Praga, l'accordo Start 2 per la riduzione dei rispettivi arsenali nucleari, Obama intende alzare il livello di sicurezza contro il pericolo di possibili attentati nucleari, oltre che contro l’armamento di Corea del Nord e Iran. E, anche se pensa soprattutto alla sicurezza degli Stati Uniti, è chiaro che un attacco atomico sul territorio americano, o fra gli alleati, avrebbe disastrose ripercussioni mondiali. Si tratta di mettere «sotto chiave», entro i prossimi quattro anni, tutto il quantitativo conosciuto di plutonio e di uranio altamente arricchito. Si pensi che nel pianeta esiste uranio arricchito sufficiente a produrre 120.000 bombe nucleari, e che ne bastano 55 chilogrammi per costruire un ordigno nucleare artigianale. Auguri a Washington.
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