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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Amos Oz, Scene dalla vita di un villaggio 12/04/2010

Scene dalla vita di un villaggio   Amos Oz
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli                                          Euro 16

Sembra un piazzista, almeno a giudicare dai modi troppo cortesi e dall’insistenza con cui attacca discorso: “Che posto magnifico qui da voi! E’ proprio la Provenza d’Israele! Ma quale Provenza! Toscana! E che panorama! Il bosco! La vigna! Tel Ilan è davvero il borgo più incantevole di questo levantino paese”. Arieh Zelnik, a cui sono rivolte queste parole melliflue, non ha nessuna voglia di essere gentile, e poi c’è qualcosa che non lo convince nell’aspetto dello sconosciuto, un uomo corpulento ma anche un poco flaccido con “una faccia sgradevole e inquietante”. Che Tel Ilan sia un luogo pittoresco, Arieh lo sa da sé, del resto basta guardare i turisti, che sciamano per le fattorie trasformate in empori stracolmi di finti prodotti d’artigianato tipico. Ninnoli fatti venire da Burma e dal Bangladesh. Ecco quello che il villaggio ha da offrire, ora che l’agricoltura è stata abbandonata.
L’esordio dell’ultimo libro di Amos Oz è sopratono almeno quanto la petulanza del falso piazzista. Ma come Zelnik, un po’ infastidito e un po’ curioso, si rassegna ad ascoltare le profferte del misterioso interlocutore, così il lettore è irretito dall’atmosfera di equivoca normalità che avvolge Tel Ilan. Il passato dei pionieri è in disarmo, il kibbutz sionista con la sua utopia egualitaria è stato sostituito da un centro d’attrazioni postmoderno, pronto per essere consumato nel fine settimana. Gli affitti sono salati per i forestieri, i residenti fanno buoni affari, ma hanno sin troppo tempo per chiedersi cosa sia successo dei loro sogni. Sarà colpa della luna, “che spande il suo scheletrico chiarore sulla strada, sui cipressi, e sulle siepi di cinta”, oppure del cane che abbaia testardamente, quasi gli avessero ordinato di svegliare tutto il paese. E’ soprattutto di notte che Tel Ilan è presa dall’inquietudine. Niente di grave, per carità, anzi, a pensarci bene, niente di niente. Questo è il problema, nulla sembra accadere sul serio, come nel caso degli strani rumori che si odono, quando è buio, sotto la casa di “colui che una volta era stato l’onorevole Pesach Kedem”. Un vecchio scorbutico, “con una pelle che pare corteccia d’ulivo”, sempre pronto a riversare il fiele dei propri rammarichi su tutto e tutti. Pare proprio che qualcuno scavi, ma se si scende in cantina a guardare, non c’è nessuno, e il rumore tace, per riprendere poi sordo la notte successiva. Certe volte chi parte per Tel Ilan non raggiunge la meta, forse smonta a una fermata sbagliata e non lo si trova più. Altre volte chi ci vive si dilegua, come è capitato alla moglie di Benni Avni, il sindaco del villaggio, uomo allampanato e gioviale, che avanza sempre con passo deciso, “un po’ teso in avanti, come se camminasse controvento”.
Il racconto trascina con sé i malumori, le fobie e le delusioni di questi israeliani sopravvissuti allo svanire dei loro ideali. Se la natura, evocata con lievi tocchi da maestro, avvince e consola, gli uomini s’ingolfano in pudori fuori luogo o in sguaiate debolezze. Oz, che il naufragio se lo vede attorno, cerca scampo sulla zattera del surreale. Talvolta naviga spedito, talaltra s’impiglia in qualche aguzzo scoglio di scoramento.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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