Il problema dell’uomo Martin Buber
a cura di Irene Kajon
Marietti Euro 15
Oltre a un buon numero di amarezze e almeno altrettanti ricordi, s’è portato nel baule i libri dei suoi filosofi. Innanzitutto Kant, eroe fuori moda della ragione, e poi Agostino e Kierkegaard, cristiani malati di solitudine. Non manca neanche l’ingombrante e irrinunciabile Heidegger. Ma quando si tratta di cominciare le lezioni, in un ebraico ancora impacciato, Buber si affida a un vecchio apologo chassidico, uno dei tanti che ha raccolto in decenni di inquieta caccia bibliografica. E’ un detto attribuito a rabbi Bunam di Przysucha, maestro tardo e melanconico: “Volevo pubblicare un libro intitolato Adam, ovvero Uomo, in cui avrei trattato di tutto quanto lo riguarda. Poi però mi sono accorto che era meglio non scriverlo”.
E’ il 1938 e Martin Buber, appena giunto a Gerusalemme dalla Germania, di ragioni per imitare il silenzio del suo eroe chassidico ne avrebbe avute molte. L’avvento dei nazisti e lo sbriciolarsi dell’universo coltissimo e curioso, di cui era stato protagonista così a lungo, avrebbero dovuto indurlo alla disillusione e all’isolamento. Eppure il ciclo di lezioni con cui apre la sua carriera di professore all’Università Ebraica è tutt’altro che un documento di rassegnazione. Sceglie infatti proprio di riaprire il dossier chiuso da rabbi Bunam: ha, nientemeno, l’ambizione di definire che cosa sia l’uomo. Non come sia, in che abbia creduto o sperato nel corso della storia, ma proprio quali siano le coordinate essenziali che lo definiscono.
Il processo linguistico è faticoso. Buber prima abbozza la traccia in tedesco, poi la traduzione in ebraico, e s’accorge che parte della magia della sua prosa s’invola. Resta l’essenziale, certo abbastanza per affascinare gli studenti d’allora, così come il lettore d’oggi.
“Io distinguo nella storia le epoche in cui l’uomo possiede una dimora da quelle in cui non ce l’ha”: negli appunti tedeschi questo sradicamento è definito Hauslosigkeit e verrebbe spontaneo interpretarlo in senso autobiografico. Buber, però, si sottrae al facile psicologismo. Col “sentirsi a casa” egli intende la continuità filosofica tra cosmo e uomo, che riconduce al pensiero aristotelico, mentre l’”esilio” è il destino di pensatori come Agostino, che si guardano nello specchio della propria anima lacerata.
Nel primo caso, l’antropologia si riduce sostanzialmente a un discorso in cui l’omo ha un proprio posto ben definito nell’ordine della natura. Sono invece i filosofi dell’estraniamento dal mondo ad aver cercato febbrilmente di definire se stessi in quanto uomini. E’ chiaro però che a Buber non basta la soluzione agostiniana al dramma del non-essere-nel-mondo: la sola fede, che risucchia l’uomo verso Dio, come in un vortice.
Per il pensatore ebreo, attore dell’umanesimo tedesco pre-1933, l’opzione fideistica è troppo debole per contrastare il buio della storia. La proposta di Buber è una solitudine consapevole di se stessa, una Hauslosigkeit, ovvero un sentirsi a disagio nel reale che riesce a trasformarsi in ricerca dell’altro da sé: “Se io e un altro accadiamo l’un l’altro ….un resto rimane là dove cessano le anime e dove non è ancora cominciato il mondo: questo reato è appunto l’essenziale”. Nella Gerusalemme del 1938, il mondo non era forse ancora ricominciato, ma l’anima certo non era finita.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore