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Il Foglio Rassegna Stampa
03.04.2010 Variazioni sul tema della 'Riparazione'
L'analisi di Giorgio Israel

Testata: Il Foglio
Data: 03 aprile 2010
Pagina: 6
Autore: Giorgio Israel
Titolo: «Fackenheim vola nei cieli dell'ontologia, ma la storia non è finita con la Shoah»

Sul FOGLIO di oggi, 03/04/2010, a pag.VI, l'analisi di Giorgio Israel, dal titolo "Fackenheim vola nei cieli dell'ontologia, ma la storia non è finita con la Shoah"


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EMIL LUDWIG FACKENHEIM, “Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah” [To Mend the World. Foundations of Post-Holocaust Jewish Thought, 1982], a cura di Massimo Giuliani, traduzione di Martino Doni, Edizioni Medusa (pagine 304, euro 24,50). In italiano è stato tradotto solo un altro testo di Fackenheim, ormai introvabile: “La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica”, Queriniana 1977.
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Ecco l'articolo di Giorgio Israel:

Tiqqun” di Fackenheim non è, come qualcuno ha preteso, un libro che sviluppa una “teologia dell’Olocausto”. Come dice l’autore “non ci può essere una disciplina di questo tipo”. Ma c’è – egli aggiunge – “una teologia che è sfidata dall’Olocausto e che, evitando ogni tipo di fuga, salva la propria integrità auto-esponendosi ad esso”. La questione è delicata perché una teologia ebraica nel senso stretto del termine non esiste. Difatti, nell’ebraismo gli eventi divini sono momenti di un percorso interminato e proiettato verso la fine dei tempi e verso la redenzione messianica. Questo percorso vive nella tensione continua tra il sistema dei precetti, la cui osservanza garantisce in modo quasi automatico di restare entro i confini di una vita irreprensibile, e l’ammonimento profetico contro il rischio dell’automatismo: la confusione tra formalismo e morale. E’ una tensione che riecheggia anche nel Talmud quando, chiedendosi perché mai fu distrutto il Secondo Tempio proprio in un periodo in cui il popolo seguiva in modo irreprensibile i precetti, si dice che “Gerusalemme fu distrutta unicamente perché vi si seguiva scrupolosamente la legge della Torah”. L’ebraismo ha tratto la sua forza dall’operare continuo di questa tensione. Se il Talmud ha enfatizzato il primo termine le correnti mistiche e messianiche hanno riproposto il messaggio profetico, fino alla sua forma più recente rappresentata da Teodoro Herzl e dal sionismo. La Kabbalah rappresenta ciò che più nell’ebraismo è vicino alla teologia, sebbene si tratti più che altro di teosofia e di esplorazione delle forme della vita divina, al fine di colmare l’abisso tra uomo e Dio attraverso un percorso di avvicinamento mistico. Forse la Kabbalah più “teologica” (ma sempre in un senso molto speciale) è quella cui fa riferimento il titolo del libro di Fackenheim: “Tiqqun”. E’ la Kabbalah cinquecentesca di Safed, soprattutto quella di Isaac Luria. Gershom Scholem ne ha approfondito le motivazioni individuandole nel terribile dramma che fu per l’ebraismo l’espulsione dalla Spagna nel 1492. Fackenheim, con molta superficialità, considera questo dramma come un evento di rilievo minore della Shoah. Invece esso fu un cataclisma epocale. Come osserva Scholem, ci volle un secolo perché fosse assimilato, dando poi luogo alla Kabbalah di Safed che, a sua volta, ispirò una drammatica speranza di redenzione che culminò in un’esplosione vulcanica di messianismo di cui fu principale esponente fu il falso messia Sabbatai Zevì. Furono eventi le cui ondate si propagarono fino al Settecento. La dottrina di Luria affrontò in modo audacissimo il problema del male identificandone addirittura l’emergere in un “errore” cosmico avvenuto nell’atto creativo del mondo. La creazione del nulla era spiegata con un atto di “autocontrazione” (tsimtsum) di Dio, una sorta di “esilio” divino con cui Egli fece posto a uno spazio finito e vuoto in cui doveva propagarsi l’emanazione generatrice del mondo. Durante il processo emanativo i “vasi” che trasmettevano la luce divina non ne sostenennero la potenza e si ruppero in frammenti, così che molte scintille della luce divina si diffusero in un’esplosione cosmica e restarono imprigionate negli strati inferiori delmondo del male. Il compito del popolo ebraico è ricercare ovunque le scintille divine per estrarle e farle ascendere ai livelli superiori, in vista di una riparazione universale (Tiqqun). Trovano così senso sia il dramma della “prigionia” del bene che l’esilio del popolo ebraico condannato alla dispersione per il compito di ricercare i frammenti dispersi fino alla redenzione finale. Il Tiqqun è però un evento destinato a compiersi alla fine della storia, in coincidenza con l’avvento messianico, da costruire giorno per giorno nella pratica con cui l’ebreo riconosce i suoi errori e i suoi peccati e ad ogni istante ricomincia daccapo: la Teshuvah. Quest’ultima è la riparazione a misura d’uomo, Tiqqun è l’evento conclusivo, che costituisce la riparazione della vita divina, dell’errore avvenuto nell’atto creativo. Nel pensare il Tiqqun come atto di riparazione del mondo dall’evento metastorico rappresentato dalla Shoah, Fackenheim rischia di proporre una teologia apocalittica che già una volta minacciò di dissoluzione un ebraismo che, dopo essere stato colpito nel 1492 dalla dispersione e dalla distruzione (tra roghi, conversioni forzate e marranismo), era caduto nello smarrimento provocato dal falso messianismo e dalla conversione finale di Sabbatai all’islam. In realtà, Fackenheim fa molto di più: egli propone il Tiqqun nella cornice di un’ontologia di un Olocausto di cui dichiara l’assoluta unicità: un evento la cui riparazione è necessaria affinché il mondo possa riprendere il suo cammino che si è arrestato per l’enormità dell’accaduto ma che in realtà sembra possa compiersi soltanto all’interno dell’ebraismo. Di fronte al librarsi di Fackenheim nel cielo dell’ontologia, ci si vergogna quasi di scendere sul triviale terreno dello storiografia per contestare la tesi dell’assoluta unicità della Shoah. Ma, in fin dei conti, è proprio Fackenheim ad avvalorare questa tesi sul piano storico. Solo che lo fa con pochi e scarni argomenti, dati come ovvi. Le sue righe sbrigative sfigurano dinanzi alla profondità con cui un Vassili Grossmann ha esplorato il senso del legame profondo tra Lager e Gulag. Quindi, Fackenheim prende un incerto volo verso l’ontologia, e intesse un dialogo esclusivo proprio con quella tradizione della filosofia la cui pretesa di costituire una scienza assoluta dell’essere è una radice dei mali che hanno colpito la civiltà europea. Viene da chiedersi perché mai Fackenheim dialoghi in modo povero e piattamente recriminatorio con Spinoza; perché scelga qualsiasi interlocutore filosofico salvo che Husserl, ovvero colui che trovò la forza e la speranza, anche negli ultimi anni quando ebbe la Gestapo sotto casa, di proporre una via d’uscita per salvare la vocazione filosofica europea liberandola dalle impasses dei grandi sistemi ontologici. Viene da chiedersi perché non dialoghi con un filosofo cristiano così attento al tema della memoria come Paul Ricoeur; e perché senta così poca consonanza con le correnti dell’ermeneutica (Lévinas incluso) e della fenomenologia. E viene da rispondere che egli si è chiuso da solo in una sterile prigione pretendendo che le aporie teologico-filosofiche suscitate da Auschwitz siano un fatto inedito nella storia storia, e ricercando il “Tiqqun filosofico” (come lo chiama) nel posto sbagliato. Ontologizzando la Shoah Fackenheim legittima la domanda di De Benedetti se egli non stia proponendo “un tentativo di sostituzione del cristocentrismo”. Chi scrive non ha il timore di De Benedetti di urtare suscettibilità e ritiene che, sì, dal punto di vista ebraico questa di Fackenheim è un’“eresia” cristologica. Col tentativo di fare della Shoah il sostituto di Cristo (nello stile di un moderno sabbataismo) e col presentare il Tiqqun come un heideggeriano ritorno al “da” del “Dasein” ebraico, Fackenheim congeda l’ebraismo. Difatti, egli dice: “Senza una tradizione recuperata non c’è futuro per gli ebrei”. Tutto qui? A questo si riduce il Tiqqun che dovrebbe riparare il mondo? In effetti, si riduce a questo perché il cataclisma ontologico arrestando la storia imprigiona anche l’ebraismo mutilandolo della sua dimensione profetica che alla storia appartiene irrevocabilmente. Ma la storia non si lascia arrestare da nessuna sentenza circa il carattere ontologicamente inassimilabile e insuperabile di un evento.

 Giorgio Israel è docente di Storia della matematica all’Università La Sapienza di Roma e studioso di problemi dell’ebraismo

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