Dalla STAMPA (Tuttolibri) di oggi, 03/04/2010, con il titolo " L'alfabeto del filo spinato " Elena Loewenthal ricostruisce l'immaginario antisemita tra fine '800 e '900.
E' molto lontana dal vero l'idea che il popolo ebraico rivendichi l'esclusiva, o peggio ancora, il privilegio del dolore come tratto distintivo. Nella morale d'Israele la sofferenza non procura alcuna sublimazione, non serve né rende migliori. Anzi, sfigura: «non devi giudicare l'uomo nell'ora del dolore», dice un antico adagio. Non esiste insomma qui un'«economia» della sofferenza, e per questo non c'è nulla da rivendicare quando si dice di aver sofferto. Anzi, casomai i patimenti sono il segno di una colpa, punita dall'insondabile giustizia divina. Anche l'emarginazione e la segregazione come millenaria esperienza storica non dovrebbero condurre, se non grazie ad alcune derive molto lontane dall'essenza dell'ebraismo, a qualsivoglia pretesa morale o anche soltanto didattica: l'ebraismo ha vissuto la diaspora come un destino ingrato, le privazioni come un patimento che prima o poi sarebbe passato, con la certezza che il Messia, o chi per esso, avrebbe capovolto la storia.
Casomai, è vista «dall'esterno» che la storia ebraica, con le sue peculiarità, può essere utile per leggere altre vicende, diverse nel tempo, nello spazio e nelle circostanze. Così, può risultare utile approfittare dell'«onda lunga» editoriale che il giorno della Memoria porta ormai regolarmente con sé, per fare il punto non solo su quel passato ancora molto vicino, ma anche sul nostro presente.
I risultati di una ricerca pubblicata di recente dalla Conferenza delle Assemblee delle Regioni danno alle riflessioni sociali e culturali un'urgenza davvero pressante. Il sondaggio condotto su un campione di 2085 giovani fra i 18 e i 29 anni dimostra che oltre il 45 per cento dei ragazzi italiani è xenofobo o razzista. E lo dichiara, seppure dietro il velo di privacy che un'indagine di questo genere garantisce. Sembra quasi irreale, questo dato, con tutto ciò che la nostra società si affanna a fare contro i pregiudizi, dalle campagne pubblicitarie alle priorità che la scuola si dà - ma che evidentemente non risultano poi troppo efficaci.
Forse, uno dei punti deboli di questa falla (che è quasi una voragine), sta nell'ammettere ancora zone franche dove il razzismo, se non proprio tollerato, certo è guardato con indulgenza. Gli spalti degli stadi, ad esempio. Quanto il linguaggio conti, perché non è solo forma ma anche e soprattutto sostanza, lo spiegano due recenti saggi che affrontano il rapporto fra letteratura e razzismo, fra costruzione dell'immaginario e lievitazione del pregiudizio, a cavallo del fascismo, della guerra e delle persecuzioni.
Francesco Germinario ha scritto un ampio studio su Costruire la razza nemica. La formazione dell'immaginario antisemita tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, mentre Riccardo Bonavita ha racchiuso in Spettri dell'altro. Letteratura e razzismo nell'Italia contemporanea alcuni saggi dedicati agli stereotipi dell'antisemitismo. Il linguaggio e le raffigurazioni sembrano il «male minore» del razzismo, ma nella realtà spesso rappresentano il motivo scatenante.
Quanto questi aspetti niente affatto secondari si innestino nelle manifestazioni «reali» e violente del razzismo, si evidenzia bene in altre due letture parallele.
Fabio Levi in La persecuzione antiebraica. Dal Fascismo al dopoguerra offre un quadro di ampio respiro, partendo dalle leggi razziali e arrivando a casi specifici, come la realtà torinese di quegli anni. E affrontando poi un aspetto molto trascurato dalla storiografia: il ritorno. Il difficile reintegro di chi aveva attraversato quella storia terribile nei modi più diversi, e dopo la quale non poteva che sentirsi alienato al mondo, proprio perché sopravvissuto.
A proposito di alienazione, e della percezione malata dello «straniero» che, a giudicare dal sondaggio sul razzismo, i nostri giovani paiono avere, vi è un altro aspetto della storia recente poco affrontato, perché considerato marginale: la doppia emarginazione vissuta dagli ebrei stranieri residenti in Italia durante le leggi razziali e le persecuzioni. Giuseppe Perri, con Il caso Lichtner) racconta la storia di due ragazzi viennesi giunti in Italia nel 1939 insieme ai genitori, in fuga dall'Austria, passati per Nizza, Ventimiglia e approdati a Pescara. Sopravvissuti, dopo la guerra presero la remota via del Brasile. Perri ne ripercorre la vicenda durante il fascismo, la guerra e le persecuzioni, con attenzione a questo doppio ruolo di vittima. Che dovrebbe ancora e più che mai far riflettere.
Se c'è un messaggio immediato che tutte queste letture trasmettono con forza è proprio che il confine fra una condizione e l'altra è molto più labile e indefinibile di quanto non si creda. Si fa molto in fretta, insomma, a valicarlo e diventare oggetto, invece che custode del pregiudizio. A trasformarsi in stranieri, senza quasi rendersene conto.
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