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La Stampa Rassegna Stampa
02.04.2010 Israel J. Singer, il fratello ombra
di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 02 aprile 2010
Pagina: 30
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Israel J. Singer il fratello ombra»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/04/2010, a pag. 30, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Israel J. Singer il fratello ombra ".


Isaac Bashevis Singer, Israel Joshua Singer

Il destino di Israel Joshua Singer, fratello maggiore del celebre Isaac Bashevis, è stato insidioso né più né meno di quello comune a tanti altri primogeniti del popolo ebraico, platealmente surclassati dai cadetti. È successo, tra i tanti, anche al goffo Esaù fregato dall’astuto Giacobbe (con la complicità di Rebecca, alla faccia dell’amor materno e della sua presunta imparzialità). Nato nel 1893, undici anni prima del futuro premio Nobel per la letteratura nonché impareggiabile cantore dello scomparso mondo yiddish, Israel Joshua ebbe una vita per certi versi parallela a quella del talentuoso fratello. Attratto in gioventù dalla pittura, poco dopo i vent’anni si convertì ad altra forma d’arte e cominciò con lo scrivere racconti di stampo chassidico. Dopo aver peregrinato tra la campagna polacca, Varsavia e Kiev, nel 1933 Israel Joshua emigrò in America. Qui ha scritto davvero tanto, anche se la sua produzione è stata condannata all’ombra: romanzi, racconti, molto giornalismo in yiddish, sotto lo pseudonimo di G. Kuper, fors’anche per sfuggire alla concorrenza fraterna. Del resto, la sua autobiografia uscita postuma nel 1946, Fun a Velt Vos Iz Nishto Mer («Da un mondo che non c’è più»), è un ritratto collettivo che, per precisione narrativa e struggimento della memoria, tiene egregiamente testa ai racconti di Alla corte di mio padre (pubblicati in Italia da Longanesi, come gran parte dell’opera singeriana).
Formidabile soprattutto negli affreschi familiari di grande respiro, come nei Fratelli Ashkenazi (l’opera è uscita tempo fa in italiano sempre per Longanesi), Israel Joshua Singer si prende ora una rivincita non da poco sul più celebre fratello e – non dimentichiamolo – anche sulla sorella Esther Kreitman, nata per prima (1891) e autrice di un romanzo yiddish in chiave femminile di recente tradotto da Baldini e Castoldi. «Inédit» recita la fascetta di La famille Karnovski, un grande romanzo di Israel rimasto sino ad ora pressoché ignoto al di fuori del (praticamente estinto) mondo dei lettori yiddish. Lo ha tradotto in francese Monique Charbonell per le edizioni Denoël & Ailleurs, e si presenta come il caso letterario di questa primavera d’Oltralpe.
Mai uscito in italiano, tradotto in inglese molto tempo fa, questo romanzo familiare ha davvero molto da raccontare. E non solo per quel che dice, ma anzi e forse soprattutto per ciò che vi si tace, malgrado le quasi settecento pagine. Perché la storia dei Karnovski, rimasta incomprensibilmente al di fuori dei grandi circuiti letterari (e chissà, fors’anche un po’ per colpa, o per merito, dell’ingombrante fratello minore dell’autore) è un romanzo familiare a tutti gli effetti. Ma ha ben poco di tradizionale e tanto, davvero tanto di tragico.
La storia di David Karnovski prende le mosse da un piccolo borgo ebraico, uno shtetl della Polonia, all’alba del secolo scorso e, passando per Berlino e per Die Goldene Medina, l’America dell’Eldorado, segue la parabola dell’Emancipazione ebraica. Pubblicato negli Stati Uniti, in yiddish, nel 1943, questo romanzo non è solo l’avvincente cronaca di una famiglia con le sue contraddizioni, i suoi percorsi geografici, le incertezze comuni a molte altre storie. È anche e soprattutto un raro ritratto di quell’atmosfera che lasciava presagire, ma non ancora vedere, il buio della Shoah.
Israel Joshua Singer non ci racconta lo sterminio, perché ancora non lo conosceva – del resto egli morirà prima della fine della guerra. Racconta invece i sogni d’integrazione di David Karnovski e di suo figlio Georg – «tedesco tra i tedeschi» prima ancora che «ebreo tra gli ebrei», il loro progressivo e sempre più entusiastico assimilarsi nella società circostante, il loro spasmodico desiderio di diventare «eguali». Poi tocca a Jegor, figlio di padre ebreo e madre ariana, che viene al mondo nella Germania nazista.
Israel Joshua Singer non ha mai conosciuto Auschwitz, non ha mai dovuto confrontarsi con quella tremenda verità che nel 1945 svelarono quei cancelli. Forse non gli è mai venuto in mente, come invece toccherà a suo fratello, di trovarsi a narrare un mondo che non esisteva più. Non ha mai provato a immaginare l’estinzione brutale della lingua in cui scriveva, lo yiddish annientato nei forni crematori. Eppure questo romanzo dai ritmi cadenzati che, con le sue finestre su un mondo ebraico complesso e carico di grandi sfide, molto argomenta oltre a raccontare, sembra già adombrare tutto quello che di lì a poco si vedrà, si saprà. Questa consapevolezza a posteriori lo rende una lettura non di rado scioccante: viene da prendersi la testa fra le mani. E si precipita in quel purgatorio di paura e incredulità, di preoccupazione e sgomento, che precedette le certezze. Le terribili scoperte di dopo la guerra. In fondo, un po’ ce le spiega anche, queste terribili scoperte: perché da quella sete di assimilazione dei Karnovski, da quel loro irrefrenabile desiderio di «diventare come gli altri», trapela anche l’evidenza del fallimento. È una storia, insomma, che va contro se stessa, fin quando non esplode. Ma Israel Joshua Singer, fratello maggiore di Isaac Bashevis, morto d’infarto nel 1944, non poté mai saperlo fino in fondo.

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