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Informazione Corretta - Il Foglio Rassegna Stampa
01.04.2010 Terrorismo islamico in Russia. Che fa Putin?
Commenti di Piera Prister, Luigi De Biase

Testata:Informazione Corretta - Il Foglio
Autore: Piera Prister - Luigi De Biase
Titolo: «L´escalation del terrore in Russia - La tregua marcita nel Caucaso»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/04/2010, a pag. III, l'articolo di Luigi De Biase dal titolo " La tregua marcita nel Caucaso ". Pubblichiamo il commento di Piera Prister dal titolo " L´escalation del terrore in Russia ".
Ecco i due articoli:

INFORMAZIONE CORRETTA - Piera Prister : " L´escalation del terrore in Russia "

Ci risiamo.
Non si e´ spenta ancora l´eco dei due attentati terroristici suicidi
che lunedi´ scorso hanno assassinato 36 pendolari moscoviti nella
metropolitana di Mosca, che gia´ oggi 31 marzo, mercoledi´ le testate
giornalistiche, nelle "Breaking News", riportano la notizia di altre
due esplosioni con 12 morti nel Dagastan al confine con la Chechnya.

Gia´ da giorni i notiziari qui negli Stati Uniti, informano gli
ascoltatori che a New York e in altre citta´ americane vige la massima
allerta perche´ si temono attentati.
Le esplosioni alle stazioni ferroviarie e sugli autobus, ai caffe´,
pizzerie, discoteche e negli aeroporti non si contano ormai piu´ nel
mondo. La gente e´ il bersaglio come bersagli sono i luoghi di maggior
affollamento. Gli attacchi suicidi di stamane sono avvenuti vicino ad
una scuola e ad un ufficio pubblico.

Solo pochi giorni prima a Mosca, due donne imbottite d´esplosivo si
sono fatte esplodere come bombe umane in due attentati ai treni
della metropolitana avvenuti l´uno a quarantacinque minuti dall´altro,
spargendo la morte e il terrore tra i passeggeri che a milioni ogni
giorno prendono i mezzi di trasporto pubblico, per andare al lavoro
nell´ora di punta. Anche nel novembre del 2009 c´era stato un
deragliamento del treno, dovuto ad una esplosione, sulla linea
Mosca-San Pietroburgo con 26 morti.
Le donne sempre piu´ in un numero crescente, volenti o nolenti,
eseguono attacchi terroristici. Erano due donne con la "sindrome down"
quelle mandate al macello nei mercati di Bagdad che, telecomandate da
terroristi fecero saltare in aria centinaia di persone. Che tutte
queste donne aspirino alla peggiore morte per se´ e per gli altri e´
maledettamente aberrante.
Le donne sono serve reiette nella societa´ islamica che non riconosce
loro diritti, che si serve di loro come spose bambine date in preda a
pedofili ma anche come terroriste che aspirano alla parita´,
gareggiando con l´uomo nell´ammazzare piu´gente possibile e rimanendo
doppiamente fregate dai loro padroni. O piuttosto donne abusate
psicologicamente e sessualmente che pensano di redimersi con la
dinamite. Donne alle cui famiglie avranno promesso denaro -come gia´
lo elargiva Saddam- o avranno promesso loro la fama e la gloria.
Magari con l´intitolazione di una piazza e l´erezione di una statua al
centro su un piedistallo, con tanto di applausi di autorita´ e di
scolaresche, come e´ avvenuto a Ramallah, amministrata da Abu Mazen,
leader Al-Fatah, in onore di Dalal Mughabi, una terrorista
palestinese che assassino´ nel 1978, in Israele 37 civili fra cui
molti bambini.

Ora subentra il solito rituale con la conta dei morti e dei
feriti, con le parole di condoglianze e domani tutto cadra´ nel
dimenticatoio fino al prossimo eccidio, tanto un morto in piu´ o in
meno, che differenza fa. Nel frattempo il papa avra´ indossato di
nuovo la kefia, Obama si sara´ inchinato ad angolo retto davanti a
qualche altro lord del petrolio, Berlusconi avra´ baciato la mano di
qualche altro dittatore -in un "capriccio tutto italiano", Putin avra´
mandato in Iran altri esperti nella costruzione di armi di distruzione
di massa e le donne potenti, se ancora non l´hanno gia´ fatto si
sarano messe il burqua. Chissa´, anche la feroce Clinton si
nascondera´ dietro castigati veli, e anche la Barbara Spinelli della
Stampa di Torino rinuncera´ a mostrare il suo bel viso.

L´evidenza invece ci mostra che gli islamisti stiano acquistando
sempre di piu´ terreno seminando il terrore, fino alla prossima
esplosione che sara´ un´orribile deflagrazione. Sono nemici giurati
dell´Occidente, del Cristianesimo e dell´Ebraismo; e sono spalleggiati
dalla sinistra marxista, anticristiana e antisemita, nonche´ dal
nazismo che non e´ morto ma e´ vivo e vegeto nella "mala pianta" del
gran mufti di Gerusalemme i cui eredi avvolti nella kefiah e sparsi
ovunque, agitano bandiere con la mezzaluna e croci uncinate. Non c´e´
ombra di dubbio che i potenti si inchinino alla maesta´ del petrolio,
l´oro nero da cui il mondo sviluppato dipende e di cui tutti accettano
i ricatti assecondando i pazzi di turno.
L´Islam e´ una grande minaccia, avanza in Europa e ha persino con i
suoi petroldollari, messo le zampe sulla Casa Bianca per cui dobbiamo
prepararci al peggio. Siamo solo agli inizi e dobbiamo aspettare altri
tre anni in cui vedremo un Obama sempre piu´ filoislamico e
antisionista. Se nel frattempo non accadra´ qualcosa di peggio.
E noi che cosa facciamo? La verita´ e´ che ce la facciamo sotto
dalla paura. Guardate su Internet, che cosa hanno fatto i terroristi
islamici quelle belve sanguinarie nella scuola di Beslan ai bambini e
alle ragazze, abbiate il coraggio di guardare in faccia il
raccapriccio delle immagini! E quello che hanno fatto alla fine del
2008 altri terroristi ammazzando centinaia di persone, in 10 attacchi
simultanei a Mumbai, negli alberghi, ai treni e alla Chabad House,
dove assassinarono il rabbino e sua moglie facendo scempio dei loro
corpi. Ne abbiamo un ricordo indelebile, vivido nella nostra memoria
di quella notte tarda e affannosa del 26 novembre del 2008 quando dal
Jerusalem Post arrivavano notizie contrastanti sul massacro, e noi on
line stavamo seguendo il succedersi degli eventi scrivendo il nostro
articolo.
Ora ci vorrebbe un nuovo Reagan, quando bombardo´ Gheddafi, il
dittatore responsabile dei crimini di Lockerbie e di Ustica e di tanti
altri , facendo tirare un sospiro di sollievo agli Italiani e
all´Italia che allora era di nuovo nel mirino del dittatore libico
che la minacciava puntando i missili contro la Sicilia. Ora dovrebbe
essere la volta di bombardare i siti atomici iraniani.
Ma chi e´ pronto a dare una mano ad Israele per un´azione militare
congiunta per la salvezza dell´Occidente?

Il FOGLIO - Luigi De Biase : " La tregua marcita nel Caucaso "


Luigi De Biase

Lunedì mattina, poche ore dopo la doppia esplosione nella metro di Mosca, il direttore dei servizi segreti ha accettato di parlare con la stampa per rassicurare i cittadini. “La nostra tesi preliminare è che l’attacco sia stato portato a termine dai terroristi del Caucaso”, ha detto Alexander Bortnikov. Secondo Bortnikov, i ribelli hanno voluto vendicare uno dei loro leader, Sayyid Buriati, ucciso in battaglia all’inizio di marzo dalle squadre speciali dell’esercito. Ogni volta che una bombola di gas fa saltare un appartamento alla periferia di Mosca, gli investigatori come Bortnikov valutano la pista cecena. E’ una strada a senso unico, dato che i ribelli hanno colpito la città in tutti i modi: hanno minato i binari della ferrovia, hanno caricato di esplosivo stazioni e aeroplani, hanno demolito tre palazzi con la dinamite e hanno preso in ostaggio trecento persone nel teatro più famoso della capitale. Ma questa volta, la pista da seguire è più profonda e più inquietante e porta al vero fronte della lotta contro il jihad. “Sappiamo che c’è una regione senza legge al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan – ha detto il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov – E sappiamo anche che molti attacchi terroristici compiuti in Afghanistan e in altri paesi sono nati proprio lì. Qualche volta, quella pista porta dritta al Caucaso”. Negli ultimi anni, la Russia è parsa molto preoccupata da minacce esterne vere e presunte, come l’espansione della Nato, lo scudo spaziale e i proclami del presidente georgiano, Mikhail Saakashvili. Ma il pericolo più grande è covato altrove, fra le gole del Daghestan, nelle piane della Cecenia e lungo il bordo orientale del vecchio impero sovietico: in Uzbekistan, in Pakistan, in Afghanistan e in Iran, che appoggia i movimenti islamici più pericolosi della regione. L’attacco alla metro di Mosca non è la reazione disperata alla morte di un predicatore popolare: è il colpo più recente di al Qaida in occidente. Il premier russo, Vladimir Putin ha detto martedì che i servizi segreti daranno la caccia ai colpevoli anche “nei canali di scolo”. E’ una frase un po’ cruda per i salotti di Londra e Parigi, ma è quello che la maggior parte dei russi vuole sentire adesso. I suoi uomini non hanno neanche avuto il tempo di cominciare la caccia che ieri, nella provincia del Daghestan, dodici persone sono morte nel secondo attacco suicida degli ultimi tre giorni. E’ accaduto nella città di Kizlyar: un’auto imbottita di tritolo è esplosa a un posto di blocco; quando sono arrivati i soccorritori, un terrorista vestito con una divisa della polizia ha azionato la seconda carica. Secondo Putin, la regia degli ultimi attentati potrebbe essere “la stessa”. Si parla anche di un possibile collegamento con una moschea turca, che avrebbe fornito gli ordigni esplosivi. C’è una parola che i governatori russi non vogliono sentire nominare. Quella parola è “shahid” e significa “testimone”, oppure “martire”. E’ stata usata anche per definire le due donne che si sono fatte saltare alla stazione della Lubianka e a Park Kulturi. L’ambasciatore di Mosca alla Nato, Dmitri Rogozin, lo ha detto ieri, senza paura: non usate quella parola, potrebbe scatenare “violenze settarie”. “Quelli non sono per niente ‘shahid’ – ha spiegato – non possiamo permettere che i terroristi siano chiamati ‘martiri’. Chi uccide è semplicemente un assassino”. Le dichiarazioni di Rogozin contengono un assunto decisivo. E’ una specie di ammissione: i ribelli non combattono soltanto per l’indipendenza, ora vogliono diventare martiri dell’islam. Il Caucaso è un tormento costante per i leader russi. Negli ultimi quindici anni ha visto due guerre lunghe e devastanti: la prima, nel 1995, ha permesso ai ribelli di costruire uno stato sovrano in Cecenia. Quella era l’epoca di Boris Eltsin e dello scontro di civiltà. Le seconda, dal ‘99 in avanti, ha segnato l’ascesa di Putin. I suoi metodi da ufficiale dei servizi segreti non sono molto popolari in Europa, ma hanno permesso all’esercito di raggiungere buoni risultati: la maggior parte dei ribelli ha lasciato le armi e un governo filorusso si è insediato a Grozny. Per molto tempo, l’opinione pubblica ha pensato che Putin avesse vinto la guerra. Il nuovo presidente, Dmitri Medvedev, ha deciso la fine delle operazioni militari la scorsa primavera. Da allora, il numero degli attacchi contro le caserme, gli edifici pubblici e gli attivisti delle organizzazioni umanitarie è raddoppiato. A giugno, i terroristi hanno cercato di uccidere il presidente ingusceto, Yanusbek Yevkurov, vivo per miracolo dopo che la sua auto è passata su una carica di esplosivo. Alla fine di novembre, hanno fatto deragliare il treno veloce che collega Mosca a Pietroburgo. I kamikaze di lunedì e quelli di ieri sono la prova che la guerra non è finita: Putin non l’ha persa, ma non può dire di averla vinta. La scelta di Medvedev è nata sulla base dei rapporti approvati dalle autorità locali. Il presidente ceceno, Ramzan Kadyrov, ha rassicurato per mesi gli inviati del Cremlino dicendo che i ribelli non esistevano più, che era rimasto soltanto “un gruppo di poveri diavoli nascosto nelle montagne”. E’ vero, la campagna di Putin ha costretto i terroristi a fuggire, a cercare un nascondiglio nelle foreste del Caucaso, ma la fuga non corrisponde sempre alla resa. Alla decisione di ritirare ventimila uomini è seguita la nomina di un nuovo amministratore per le sette Repubbliche più pericolose del Caucaso. A gennaio, Alexandr Khloponin è stato incaricato di rilanciare l’economia della regione. Khloponin è un manager, ha una grande esperienza nel mondo delle materie prime e si è distinto per l’abilità con cui ha governato una ricca provincia della Siberia, il Krasnoyarsk. Il suo arrivo ha raccolto il favore di alcune organizzazioni umanitarie, ma ha sollevato critiche negli ambienti militari: molti pensavano che fosse troppo presto per concedere agli affari il primato sulla guerra. Un politico dell’opposizione, Boris Nemtsov, dice che la storia della pace è “un mito messo in piedi dalla macchina di propaganda di Putin” e teme che l’attentato di lunedì possa scatenare una nuova stretta sulle libertà dei cittadini. I controlli sono già partiti in molte città del Caucaso, ma anche a Mosca: secondo i servizi segreti, ventuno “Vedove Nere” si trovano ancora nella capitale e potrebbero colpire ovunque. Nemtsov sostiene da mesi che la Russia è sull’orlo della terza guerra cecena. Oliver Bullough, un reporter inglese che ha passato gli anni Novanta fra Mosca e Grozny, non ama parlare di guerra numero tre. “Io sono convinto che la seconda non sia mai finita -– spiega al Foglio – C’è una novità soltanto rispetto al passato: l’identikit del ribelle. Le persone qualunque hanno smesso di combattere perché sono morte o hanno deciso di abbandonare le armi, sulle montagne sono rimasti gli estremisti più duri, quelli ‘hardcore’, capaci di sopravvivere a uno scontro lungo dieci anni in condizioni disumane. Vogliono l’indipendenza e sono più arrabbiati di prima”. Secondo le fonti ufficiali, i terroristi “hardcore”, i “poveri diavoli” descritti da Kadyrov, sarebbero cinquecento soltanto in Cecenia. Il loro leader è Dokka Umarov, un reduce della prima guerra che combatte dal ’96. Ha ricostruito il Riyad us Saliheen, una brigata composta da aspiranti suicidi che comprende uomini e donne ed è responsabile dei peggiori attacchi avvenuti in Russia negli ultimi mesi. Accanto ai guerriglieri ceceni, ingusceti e daghestani combattono decine di estremisti turchi, azeri, sauditi e algerini. A febbraio, le forze di sicurezza hanno ucciso l’egiziano Mokhmad Mohamad Sabban, conosciuto come “la spada dell’Islam”. Guidava una cellula di al Qaida nel Caucaso e aveva il compito di raccogliere fondi per la guerriglia. Pochi mesi prima, era stato il turno del “Dottor Muhammed”, un algerino morto dopo uno scontro a fuoco al confine tra il Daghestan e la Cecenia. Ma la storia che ha fatto più scalpore è quella di Sayyid Buriati, nato con il nome di Alexandr Tikhomirov nella lontana Buriazia, una provincia pacifica in cui non esistono moschee, ma ci sono soltanto chiese ortodosse e templi buddisti. Buriati era una figura conosciuta nel mondo del terrorismo per i sermoni deliranti. Secondo alcuni, era un’anomalia pericolosa, la prova che le istanze di al Qaida possono conquistare il cuore e la mente di qualsiasi russo, musulmano e non. Ma la sua vera storia è diversa da quanto si era appreso sinora. Un sito internet vicino ai ribelli ceceni dice che la famiglia di Buriati è originaria di Irkutsk, dove esiste una minoranza islamica forte e compatta. Lui non sarebbe mai stato cristiano né buddista, ma ha abbracciato l’islam sotto la guida di alcuni parenti kazachi. In una moschea di Irkutsk ha intrapreso un percorso che lo ha portato prima in una madrassa egiziana, poi in Pakistan. Lì ha completato la propria formazione prima di unirsi alla guerriglia cecena. Buriati è riuscito a muoversi con facilità negli ultimi anni: ha predicato in Kazakistan, ha raccolto giovani reclute per gli attacchi suicidi e ha registrato ore e ore di discorsi che si trovano in formato dvd nei grandi bazar dell’Asia centrale. Pare che abbia registrato la sua ultima preghiera con un telefono cellulare pochi minuti prima di morire, quando già il suo covo era circondato dalle forze speciali. Quando è stato ucciso, i servizi segreti hanno parlato di “grande successo”: gli investigatori hanno detto che Buriati era la mente dell’attacco al treno Mosca-Pietroburgo dello scorso novembre, ma l’ipotesi non convince tutti gli analisti. “In casi come questo, la tradizione russa vuole che il ribelle catturato sia responsabile di tutti gli attentati degli ultimi anni”, dice Mairbek Vatchagaev di North Caucasus analysis, un think tank che si occupa di Cecenia e dintorni. Per l’esperto, Buryati era un volto noto della guerriglia, “ma la sua morte non avrà ripercussioni sulla loro attività”. Il caso Buriati è importante per un altro motivo. Ogni anno, decine di giovani come lui lasciano la Russia per studiare in Egitto e in medio oriente, sono addestrati secondo le regole del terrorismo internazionale e tornano in patria pronti per alimentare il jihad. I servizi segreti non riescono a controllare questo movimento. Ogni tanto, bloccano gli studenti all’aeroporto di Mosca, oppure ottengono il loro arresto al Cairo attraverso la collaborazione con la polizia egiziana, ma è troppo poco per arginare il fenomeno. Sono loro, assieme ai fanatici sauditi e algerini, il pericolo più grande per il paese. Secondo il reporter Bullough, “quella gente non può essere fermata. Non si può portare la pace in Cecenia, è troppo tardi, è tutto marcio, è come in Afghanistan”. Che cosa può fare la Russia per vincere la guerra nel Caucaso? Grigory Shvedov, un reporter del web magazine Caucasian Knot, dice che Putin non ha un margine di manovra molto ampio. “Ci sono già 130 mila uomini nella regione e 50.000 sono ufficiali – spiega – Non si può inventare nulla di nuovo e non si può aggiungere niente. E’ difficile immaginare una terza guerra cecena, è davvero poco probabile”. Se le indagini sull’attacco alla metropolitana confermeranno l’intreccio con “la terra senza legge” al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, Putin potrebbe cominciare a riflettere sulla posizione della Russia a livello internazionale. Il presidente americano, Barack Obama, ha promosso una nuova epoca di dialogo con Mosca, ma la risposta del Cremlino è stata fredda. Dopo un anno di trattative, le due parti hanno trovato l’intesa soltanto sull’accordo per ridurre gli armamenti atomici, che è scaduto lo scorso dicembre e sarà firmato fra pochi giorni a Praga. Manca una posizione comune nei confronti dell’Iran, manca una strategia solida per affrontare il terrorismo in Asia e in medio oriente, manca un patto per costruire una difesa missilistica in grado di garantire la sicurezza dell’Europa e di Israele. Sinora, Putin ha preferito ricorrere a una sorta di isolamento strategico per non essere condizionato dalle scelte degli altri. Le bombe alla metro di Mosca dimostrano che il paese non ha mai avuto tanto bisogno come oggi di una partnership leale e coraggiosa con gli Stati Uniti e con i paesi del Vecchio continente, il che non significa necessariamente perdere la sovranità. Pochi, a Mosca, pensano che ciò avverrà. “L’attacco di lunedì è davvero un guaio? – chiede Yulia Latynina, popolare opinionista di Radio Ekho Moskvy – No, non lo è. La Russia esplode da undici anni: semplicemente, ora è accaduto a Mosca”.

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