Alberto Stabile è andato a Gaza e ha visitato il carcere. Un'esperienza che ci auguriamo gli sarà utile per capire l'aria che tira nella Striscia. Un resoconto istruttivo, dal quale veniamo informati su come funziona le "giustizia" amministrata da Hamas. Su REPUBBLICA di oggi, 28/03/2010, a pag. 17, con il titolo " Tra i 'dead men walking' di Gaza dove Hamas processa le sue spie ". Eccolo:
DAL NOSTRO INVIATO GAZA - Da qui non si scappa neanche sulle ali della fantasia. Perché se mai si riuscissero a saltare le grate coperte di lamiera, i cancelli, le spirali di filo spinato e le guardie armate in divisa blu del carcere di Ansar, ci sarebbero sempre, insormontabili, i valichi chiusi e i confini bloccati della Grande Prigione di Gaza: la "gabbia a cielo aperto", dove un milione e mezzo di palestinesi vivono rinchiusi da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia. Ansar, un accozzaglia di prefabbricati ed edifici diroccati nel cuore della città, ospita 380 detenuti, tutti "definitivi", privati anche della speranza dell´appello. Per molti di loro un´inaspettata opportunità d´evasione si presentò, un anno fa, durante l´Operazione Piombo fuso: la vecchia prigione centrale venne distrutta dall´aviazione israeliana e i reclusi ne approfittarono per fuggire. Ma dopo qualche settimana, tutti tornarono in cella. «Chi di voi è stato condannato a morte?», chiede, sbrigativo, il mio interprete, appena varchiamo la grata che ci introduce nel girone degli assassini. Come marionette sospinte da fili invisibili, stupiti e incuriositi al tempo stesso dalla nostra visita, gli uomini in tuta da ginnastica e piedi nudi, fanno scattare le braccia: io, io, io. Sono in sei, soltanto in questa camerata, a portare impresso il marchio della morte inflitta e di quella ricevuta: per ora come condanna, ma presto, a sentire l´annuncio fatto qualche giorno fa dal governo di Hamas, come punizione. Il braccio della morte di Ansar non ha niente del limbo asettico, con le sue luci fluorescenti e i gabinetti inox, in cui si muovono i "dead men walking" delle prigioni americane. Qui si parla di un corridoio al piano terra che si affaccia sul cortile, la cui vista è coperta da un telone, dietro al quale si aprono tre camerate: la prima riservata ai condannati per reati di sangue, la seconda ai collaborazionisti del "nemico sionista", la terza agli assassini. Non è l´isolamento, ma l´inesorabile trascorrere del tempo, la pena accessoria inflitta ai "morti viventi", i quali dividono le celle con gli altri reclusi. L´aria nel terzo stanzone, quello dei condannati per omicidio, è greve. Dietro a un paravento di compensato, scorre inesorabile un getto d´acqua. Addossati alle pareti ingrigite dalle scritte e dalle cancellature, i letti a castello lasciano uno spazio al centro dove c´è chi mangia per terra, chi gioca a domino e chi si sgranchisce in piedi. Si soffoca, ma il direttore, Abu Nader, ci tiene a precisare che questa è una sistemazione provvisoria. La nuova prigione sarà pronta entro due mesi. Osama al Ghul, 31 anni, era una faccia conosciuta nel circo itinerante dei media che ha sempre avuto in Gaza una piazza d´obbligo. Fino all´ultima guerra, faceva il cameraman per una società privata che forniva servizi ai grandi Network. L´hanno condannato a morte con l´accusa, che egli respinge, di aver ucciso un gioielliere cristiano per rapinarlo dei soldi con cui avrebbe voluto comprare un terreno. Una trappola. Il processo ad Osama è durato sei mesi, «sei mesi invece che due anni», si lamenta scuotendo la testa. Ma è l´unico tra i condannati alla pena capitale a cui ho chiesto se avessero paura che risponde, in un fiato: «Sì». Quello che colpisce di questo e come degli altri cameroni è l´assenza di simboli politici. Evidentemente, nel lavoro e nei passatempi dei reclusi sono ammessi soltanto i riferimenti alla religione. Il Duomo della Roccia, di Gerusalemme, che tutti qui chiamano Al Aqsa è un tema obbligatorio. Ed ecco la moschea realizzata in mille modi: con gli stuzzicadenti, con dei pezzetti di cartone, con le perline, a mosaico. Ma la politica c´è nelle parole di Shadi Hamed, 30 anni, tre figli, «ex agente della National Security di Abu Mazen», come si presenta per fare intendere la sua appartenenza ad al Fatah, l´organizzazione arcinemica di Hamas sconfitta a Gaza. «C´era stata una manifestazione di Hamas. Due mesi dopo la polizia viene a casa mia e mi arresta. Mi accusano di aver sparato e ucciso due persone durante quella manifestazione. Chi lo dice? Un tale che mi chiama in causa. Ma io non c´ero e ho portato 80 testimoni che la corte non ha voluto ascoltare». Condannato a morte, Shadi dice di considerarsi un «detenuto politico». Non è la prima volta che un tribunale palestinese emana condanne a morte. Ma mai sentenza capitale è stata eseguita. Ora, però, il governo di fatto degli islamisti ha comunicato di essere pronto a mandare al patibolo "due traditori", senza dire chi. Una tragica lotteria. Eppure, fra i "predestinati" c´è chi ha ancora la forza di sorridere. «Che dovrei fare - chiede Shadi infastidito - ? Sono musulmano, se questa è il mio destino, sia fatta la volontà di dio». Anche Salam Jundieh, 33 anni, sei figli, pavimentista, accusato d´aver ucciso a sangue freddo un agente di cambio, si appella alla volontà divina. «Se lo faranno, Dio mi ricompenserà». Ma si lamenta del modo in cui è stato condotto il processo. "Sono stato accusato - dice - dai membri delle Brigate Kassam. Ma che centrano le brigate Kassam in un processo civile?» Il tempo della visita è finito. S´avvicina un giovane secondino: «Mi dica - chiede provocatoriamente - in quale prigione di Ramallah potete entrare e parlare con i detenuti di Hamas?» E´ già sceso il buio quando il muezzin dei condannati chiama la preghiera della sera sporgendosi dalla cella degli assassini. Il luogo, l´ora, tutto infonde una grande tristezza e, forse, nella mente di queste persone anche i confini chiusi di Gaza improvvisamente si dilatano.
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