Il MANIFESTO, giornale anticapitalista per eccellenza, che però gode di buona salute grazie ai generosi contributi del banchiere capitalista Geronzi (come informava dettagliatamente il Foglio di ieri ), pubblica oggi, 28/03/2010, a pag.10, una lunga analisi, la cui serietà è pari al titolo " Perchè Tel Aviv incrina l'intesa con gli Usa", di Giampaolo Calchi Novati, terzomondista di lungo corso. Va da sè che il pezzo è pieno di strafalcioni e di riletture della storia recente adattate secondo la regola comunista, "non è vero ciò che è successo, è vera la mia interpretazione". Ci dispiace portare via un po' di tempo ai nostri lettori, ma una attenta disamina delle manipolazioni del Calchi Novati, è sempre utile per non dimenticare con chi si ha a che fare.
Nella pagina precedente, Filippo Gentiloni ha scritto: " I palestinesi di oggi non molto lontani dagli ebrei di ieri ". Che si legge Israele= Terzo Reich. Consigliamo una riflessione ai vari Moni Ovadia, Gad Lerner & C. , che per decenza non fingano più di chiedersi da dove arriva l'antisemitismo.
Ecco il pezzo di Calchi Novati:
Non è la prima volta che l’intesa di ferro fra Stati Uniti e Israele s’incrina. Nel 1956-57 Eisenhower usò le maniere forti per convincere il governo israeliano a restituire il Sinai dopo la guerra di Suez. Nel 1991 il vecchio Bush arrivò all’orlo della rottura di fronte ai tentennamenti di Israele sull’adesione a quella che sarà la Conferenza di Madrid, dove gli israeliani si trovarono al tavolo con i palestinesi, sia pure con una formula astrusa per non riconoscere l’Olp e tener lontano Arafat. La concezione di «sicurezza» delle due parti non è sempre coincidente. L’America ha un corteggio di alleati arabi che non possono essere contrariati tutti e tutti insieme. La regola è che le impuntature dei vari Ben Gurion o Shamir non si spingono troppo in là per non compromettere la copertura assicurata dagli Stati Uniti allo stato ebraico contro i «nemici». La novità dell’ultima crisi potrebbe essere rintracciata proprio nella natura della «minaccia» che nella congiuntura Netanyahu o chi per lui considera prioritaria. I palestinesi, Hamas, gli arabi o l’Iran? O gli stessi Stati Uniti? Dal famoso discorso di Obama al Cairo del 4 giugno scorso l’indice di gradimento in Israele del presidente nero sospettato di contiguità familiari o di formazione con l’islam non ha fatto che scendere. I comandi militari americani hanno detto chiaramente che la politica israeliana nuoce alla strategia della Casa Bianca e del Pentagono nella vasta area che dal Mediterraneo arriva all’Asia centrale. Netanyahu potrebbe aver deciso di «vedere» il giuoco del suo maggiore alleato non solo sulla questione della Palestina e neppure solo sui molti dossier del Medio Orientema sull’insieme delle relazioni internazionali. Dopo tutto, se il mondo è in piena evoluNon è la prima volta che l’intesa di ferro fra Stati Uniti e Israele s’incrina. Nel 1956-57 Eisenhower usò le maniere forti per convincere il governo israeliano a restituire il Sinai dopo la guerra di Suez. Nel 1991 il vecchio Bush arrivò all’orlo della rottura di fronte ai tentennamenti di Israele sull’adesione a quella che sarà la Conferenza di Madrid, dove gli israeliani si trovarono al tavolo con i palestinesi, sia pure con una formula astrusa per non riconoscere l’Olp e tener lontano Arafat. La concezione di «sicurezza» delle due parti non è sempre coincidente. L’America ha un corteggio di alleati arabi che non possono essere contrariati tutti e tutti insieme. La regola è che le impuntature dei vari Ben Gurion o Shamir non si spingono troppo in là per non compromettere la copertura assicurata dagli Stati Uniti allo stato ebraico contro i «nemici». La novità dell’ultima crisi potrebbe essere rintracciata proprio nella natura della «minaccia» che nella congiuntura Netanyahu o chi per lui considera prioritaria. I palestinesi, Hamas, gli arabi o l’Iran? O gli stessi Stati Uniti? Dal famoso discorso di Obama al Cairo del 4 giugno scorso l’indice di gradimento in Israele del presidente nero sospettato di contiguità familiari o di formazione con l’islam non ha fatto che scendere. I comandi militari americani hanno detto chiaramente che la politica israeliana nuoce alla strategia della Casa Bianca e del Pentagono nella vasta area che dal Mediterraneo arriva all’Asia centrale. Netanyahu potrebbe aver deciso di «vedere» il giuoco del suo maggiore alleato non solo sulla questione della Palestina e neppure solo sui molti dossier del Medio Orientema sull’insieme delle relazioni internazionali. Dopo tutto, se il mondo è in piena evoluzione, anche Israele – così diverso al suo interno non solamente dal lontano 1956 ma anche dall’immediato dopo-guerra fredda – potrebbe tentare strade diverse da quelle abituali. Con lamezza sfida sugli insediamenti nella Gerusalemme araba, Netanyahu ha ottenuto il non trascurabile successo di aver esteso come mai in passato la base del suo consenso. Non è normale che si sia dato più rilievo al bisticcio diplomatico sugli insediamenti che agli insediamenti in sé, che vanno avanti da anni e che hanno stravolto in modo irreversibile il profilo territoriale, logistico e abitativo dei resti della Palestina araba. Quasi nessuno ha dato importanza al grido d’allarme dell’Onu sulle condizioni disumane in cui, dopo il cosiddetto «ritiro» dalla striscia, Gaza è costretta da Israele, interessato solo ad autorealizzare la profezia secondo cui qualsiasi stato palestinese è destinato a essere la base per le incursioni terroristiche di chi vuole la sua distruzione. Israele ha dimostrato di non essere un satellitema uno stato padrone di se stesso. È un punto fermo che verrà buono quando, senza fretta, fra un anno o due, dopo qualche altra prova di forza in loco per tener vivo il ricordo dell’operazione Piombo fuso, Israele riprenderà le trattative con i palestinesi.Nel frattempo il contrasto fra Fatah e Hamas, la disperazione della gente di Gaza, l’ovvia impotenza di Abu Mazen avranno ulteriormente complicato l’attuazione sul terreno del solo schema di soluzione ufficialmente in agenda: i due stati per i due popoli non avranno più un barlume di verosimiglianza perché i popoli potrebbero essere diventati tre o quattro e i due stati si saranno ridotti a uno. Nessun Clinton, uomo o donna, e nessun Obama sembra in grado di far riemergere la Palestina dal baratro in cui è sprofondatamentre la comunità internazionale assiste fra distratta e compiaciuta. La posta sta assumendo una dimensione molto più ampia dei confini di una piccola o piccolissima Palestina. Israele ha i titoli per giocare la partita in prima persona. Già adesso, lo stato ebraico dice la sua sul programma nucleare dell’Iran anche senza partecipare ufficialmente al negoziato. Prendendo un po’ le distanze dagli americani Netanyahu pensa ad altri scenari. Negli ultimi anni il blocco pro-occidentale ha perso posizioni nelMedio Oriente a favore della filiera intessuta da Teheran coinvolgendo la Siria, il Libano e lo stesso Iraq oltre alla Palestina. Il giro di valzer della Turchia non è che l’ultimo episodio. Israele non nasconde che la sua opzione è il ricorso alla forza fino, se necessario, all’impiego dell’atomica. In una prospettiva di questo tipo, Israele non ha più solo gli Stati Uniti come interlocutore ma la Russia e la Cina. Obama potrebbe aver visto giusto dando tanta importanza all’Egitto: peccato cheMubarak non sia il leader adatto ad attivare davvero il solo antemurale che potrebbe scongiurare sia la finta pace che cancellerebbe per sempre Palestina e palestinesi sia una guerra più disastrosa di quelle che l’hanno preceduta.
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