Sul FOGLIO di oggi, 27/03/2010, a pag IV, con il titolo " Il pensiero mobile ", un efficace ritratto del filosofo Bertrand Russell, ovvero come diventare, e rimanere, famoso pur non avendone mai imbroccata una.
Ecco l'articolo:
Betrand Russell
A quarant’anni dalla morte, torna di scena Russell. Il Tribunale Russell per la Palestina, per la precisione. Riesumazione di un organismo che in tutta la sua storia si è sempre e solo occupato di “misfatti” dell’occidente: Vietnam, Cile, Brasile, e ora Palestina. A differenza di quell’altro Tribunale permanente dei popoli creato da Lelio Basso che, pur strettamente collegato all’esperienza del Tribunale Russell ed essendo anch’esso prevalentemente antioccidentale, ha però a onor del vero trovato anche un po’ di tempo per trattare il Tibet, l’operato del regime di Menghistu in Eritrea, l’intervento dell’Armata rossa in Afghanistan. Ma Bertrand Arthur William Russell, terzo conte Russell, ordine al merito del Regno Unito, fellow della Royal Society, premio Nobel per la Letteratura del 1950, filosofo, epistemologo, logico, matematico, storico, politologo, teorico del socialismo, pacifista, critico sociale, era uno che scrisse 67 libri in 98 anni di vita, tra cui uno che si intitolava “Elogio dell’ozio”, e il cui messaggio era: “Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa”. E allo stesso modo di chi legge una frase del genere stenterebbe ad attribuirla a un personaggio che in realtà lavorò da matto come pochi, così anche il ricordo del vecchietto che negli anni Sessanta scriveva appelli contro il blocco a Cuba, marciava contro la guerra in Vietnam e istituiva appunto un tribunale di quel tipo, ha fatto dimenticare l’altro Russell che appena nel 1948 aveva proposto di fare un attacco nucleare preventivo contro Stalin. E nel 1950 era stato presidente onorario di quel Congresso per la libertà della cultura (Ccf) promosso dalla Cia, per mobilitare contro l’espansionismo sovietico la crema dell’intellighentsia anticomunista mondiale. Assieme a personaggi come Ignazio Silone, Raymond Aron, Benedetto Croce, Jacques Maritain, Arthur Koestler. Salvo poi andarsene sbattendo la porta nel 1956, per convertirsi ai sit-in antinucleari dopo aver detto che “da parte nostra la potenza militare e il riarmo dovrebbero avere la precedenza su ogni altro aspetto”. “Il suo aristocratico culo si era seduto/ sulle pietre che pavimentano Londra/ con checche e comunisti”, rievocarono esattamente vent’anni dopo i versi di James Simmons in “The Ballad of Bertrand Russell”. D’altronde, non era la sua prima giravolta. A trent’anni sostenitore sfegatato della guerra ai boeri, a 46 era stato cacciato dal Trinity College per la sua opposizione a quella ai tedeschi, che a 48 anni lo avrebbe pure portato per sei mesi in prigione. E sempre per protesta contro l’intervento nella Grande guerra avrebbe lasciato quel Partito liberale per cui suo nonno era stato premier, facendosi laburista. Può sembrare curioso che dopo aver esaltato una guerra imperialista abbia poi scoperto il pacifismo nel momento in cui l’Inghilterra si mobilitava in difesa del Belgio invaso, ma come spiegato in un suo articolo del 1915 il futuro fustigatore dell’intervento in Vietnam pensava all’epoca che le uniche guerre giustificabili fossero quelle coloniali: “Estendono la civiltà”. Esaltatore in seguito della rivoluzione di Ottobre, dicendo che perdonava ai bolscevichi il saccheggio dell’Assemblea costituente “se assomigliava al Parlamento di Westminster”, al ritorno da un viaggio in Russia scrisse in compenso un “Pratica e teoria del bolscevismo” durissimo. “La sua sguaiata risata al pensiero di quanti erano stati massacrati mi gelò il sangue”, raccontava del suo incontro con Lenin. “Ne riportai un intenso ricordo di fanatismo e crudeltà mongolica”. Da laburista sarebbe poi stato via via fautore dell’appeasement con Hitler, cantore della guerra democratica contro il nazismo, anticomunista arrabbiato e infine “compagno di strada” dei fronti filosovietici, prima di lasciare nel 1965 anche i laburisti, per approdare a posizioni che allora si definivano di Nuova sinistra. Restando però sempre legato a una passione da vecchio whig per il libero scambio, che se oggi provasse a ripeterla a un Forum sociale mondiale lo prenderebbero a torte in faccia. “Le tariffe doganali (sono come)… un macellaio (che) furibondo contro gli altri macellai che gli portavano via i clienti, decise di rovinarli convertendo tutta la città al vegetarianesimo, e alla fine fu sorpreso nel constatare che aveva rovinato anche se stesso”. Oltre tutto, era antistatalista. “I nove decimi delle attività di un governo moderno sono dannose; dunque, peggio son svolte meglio è”. Nel contempo, credeva però nel socialismo come “aggiustamento della produzione di massa richiesto da considerazioni di senso comune, e calcolato per incrementare la felicità non solo dei proletari, ma di tutto il genere umano eccetto una infima minoranza”. Marchiana contraddizione, risolta dai suoi apologeti nella chiave di un socialismo autogestito e federalista. La data del suo “Elogio dell’ozio”, 1935, lo celebra inoltre come volgarizzatore dell’incipiente vulgata keynesiana: lavorare meno, lavorare tutti.Sebbene ondivaghi, gli aforismi di Russell sono però quasi sempre fulminanti: alla Voltaire, che infatti il suo trisavolo aveva conosciuto, mentre suo padre era stato amico dell’utilitarista John Stuart Mill. E la sua verve era appunto quella di un brillante polemista di scuola voltairiana: con l’utilitarismo come bussola, piuttosto dell’empirismo lockiano del Voltaire originale; e in più una padronanza della logica che ne faceva un maestro dei paradossi. “La filosofia è un tentativo straordinariamente ingegnoso di pensare erroneamente”. “Una volta un fotografo raccontò di una grande mandria di elefanti selvatici in Africa centrale che aveva visto un aeroplano per la prima volta, e che era precipitata in uno stato di terrore collettivo. Poiché però tra di loro non c’era un elefante giornalista, il terrore cessò non appena l’aeroplano scomparve dalla vista”. “La vita, ci dicono, si è sviluppata per gradi dal protozoo al filosofo, e questo sviluppo, ci assicurano, è senza dubbio un progresso. Purtroppo tutto questo ce lo assicura il filosofo, non il protozoo”. Proprio grazie a questo spiritaccio, divenne un famoso divulgatore. Autore di due popolarissimi storie della filosofia, che Indro Montanelli consigliava a complemento dei propri libri di storia, e che i più conformisti professori degli anni Sessanta e Settanta appunto bollavano di “Montanelli della filosofia”. E dei “Principles of Mathematics” (titolo in inglese), e dei “Principia Mathematica” (titolo in latino). E di un “Abc dell’atomo”, e di un “Abc della relatività”. Tutti best seller, proprio per il modo in cui spiegavano alla gente i temi più complessi con parole semplici. Eppure, aveva sparato contro “l’alluvione di libri di divulgazione scientifica che ha sommerso l’America”, “dovuta in parte al non voler ammettere che vi sia qualcosa, nella scienza, accessibile soltanto agli esperti. L’idea che occorra una preparazione speciale per capire, diciamo, la teoria della relatività, provoca una sorta di irritazione, sebbene nessuno si irriti all’idea che ci voglia uno speciale allenamento per diventare un ottimo calciatore”. E sì che proprio come divulgatore gli avevano dato il Nobel della Letteratura! Quello stile non lo perdeva neanche quando dalla divulgazione passava ai contributi originali. Il paradosso di Russell, ad esempio, è quello del villaggio in cui “un unico barbiere rade tutti (e solo) gli uomini che non si radono da sé. Chi rade il barbiere?”. Risposta: il barbiere è una donna. Sembra uno scherzo, ma demolì la teoria degli insiemi di Cantor e Frege; e quel logicismo cui lo stesso Russell si era rivolto, dopo essere passato dall’idealismo all’anti idealismo. Poi c’è la storia del tacchino induttivista, che dalla rigorosa osservazione della sua esperienza ricavò l’induzione “mi daranno sempre il cibo alle nove del mattino”: rivelatasi però “incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato”. Altra barzelletta, con cui però stroncò a un tempo Bacone, il suo padrino John Stuart Mill e l’intera Scuola di Vienna, oltre a dare l’imbeccata a Karl Raimund Popper. La teoria della conoscenza che procede per congetture e refutazioni è in effetti vicina sia al continuo cambiare idea di Russell che al suo elogio del dubbio. “Non morirei mai per le mie opinioni: potrei avere torto”. Però diceva pure che “la causa principale dei problemi è che al mondo d’oggi gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”. E poi c’è la “Teiera di Russell”, famoso argomento contro l’esistenza di Dio. Paragonata alla teoria di “una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al sole su un’orbita ellittica”, non confutabile perché “troppo piccola per essere rivelata, sia pure dal più potente dei nostri telescopi”, che “venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità, e instillata nelle menti dei bambini a scuola”. Eleganza a parte, non siamo in realtà molto lontani dal Mussolini socialista che in pubblico contraddittorio prendeva un orologio per proclamare: “Se Dio esiste, gli dò cinque minuti di tempo per fulminarmi”. E’ comunque questo Russell ateo, di cui si sono cibati Dawkins e Odifreddi, a restare nella memoria collettiva. Assieme a quello del tribunale, e a quello che predicava e praticava il libertinismo: raccontando di come aveva deciso di non amare più la sua prima moglie “mentre andava in bicicletta”; e spiegando che “la psicologia dell’adulterio è stata falsata dalla morale convenzionale, che esclude, nei paesi monogami, che l’attrazione per una persona possa coesistere con il serio affetto per un’altra”. Ma così come il Russell antiamericano era venuto dopo quello anticomunista; così come il Russell libertino scriveva anche che “nel rapporto sessuale senza amore… quando il piacere momentaneo finisce, resta la stanchezza, il disgusto, e la vita sembra vuota”; allo stesso modo il Russell ateo ammetteva che dal punto di vista strettamente filosofico l’inesistenza di Dio è altrettanto indimostrabile della sua esistenza, e l’unica soluzione veramente razionale sarebbe l’agnosticismo. Il che, però, nel famoso pamphlet “Perché non sono cristiano” non gli impedì di aggredire i credenti. “Il cristianesimo, così com’è organizzato, è stato ed è tuttora il più grande nemico del progresso morale nel mondo”. “Possiamo constatare che, in ogni epoca, l’intensità della fede religiosa è andata di pari passo con inaudita crudeltà e scarso benessere”. “La paura porta alla crudeltà, ed è per questo che crudeltà e religione stanno bene insieme”. Vera la filiazione voltairiana, e vero che Voltaire aveva condotto contro la chiesa la campagna dello “schiacciate l’infame!”. Per Voltaire, però, “se Dio non ci fosse, bisognerebbe inventarlo”; mentre piuttosto lo slogan di Russell sembra: “Se Dio ci fosse, bisognerebbe abolirlo”. E poi, anche se Voltaire morì prima che il Terrore giacobino rivelasse la potenzialità distruttiva di un fanatismo laico ancor più violento di quello religioso, comunque aveva fatto in tempo a condurre la più famosa delle sue battaglie in difesa del calvinista Jean Calas: pur disprezzando personalmente il calvinismo come fede “rozza” e “intollerante”. A rileggersi la “Pratica e teoria del bolscevismo”, si scopre che in pratica Russell al comunismo rimproverava tutto, tranne la persecuzione antireligiosa. Ma anche le accuse sulle persecuzioni anticristiane del governo nordvietnamita che pure erano arrivate furono dal Tribunale Russell allegramente derubricate: compreso il caso di sacerdoti uccisi a chiodate in testa. D’altra parte, noti attivisti antiguerra come Richard Falk e Staughton Lynd avevano rifiutato di prender parte a quella “farsa giuridica”, proprio per la programmatica esclusione di tutti i crimini attribuibili a vietcong e nordvietnamiti. “Il fatto che un’opinione sia ampiamente condivisa, non è affatto una prova che non sia completamente assurda. Anzi, considerata la stupidità della maggioranza degli uomini, è più probabile che un’opinione diffusa sia cretina anziché sensata”, fu pure un famoso aforisma di Russell. Eppure Ludwig Wittgenstein, che come Popper da Russell aveva preso le mosse, il suo antico maestro finì poi per liquidarlo come “un filosofo alla moda”: “Superficiale e falso”. Ironicamente, quella moda che continua a tenere Russell sulla cresta dell’onda a quarant’anni dalla sua morte ha finito per ascriverlo al pedigree di quel movimento no global che vede come il fumo negli occhi tanto quel governo mondiale in cui lui vedeva kantianamente il suo ideale; quanto quella scienza di cui lui sosteneva che la stessa filosofia doveva diventare “ancella”. Resta la curiosità di come si sarebbe confrontato con gli Ogm e i problemi bioetici del XXI secolo; e il sospetto che, probabilmente, sarebbe stata solo l’occasione di un’ennesima, superficiale giravolta.
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