Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 26/03/2010, a pag. 16, l'articolo di Famma Nirenstein dal titolo " Tutti contro Israele, ormai è una moda ". Da FONDAZIONECDF.IT l'analisi di David Frum dal titolo " Un punto di vista insolito ". Ecco i due articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Tutti contro Israele, ormai è una moda "
Fiamma Nirenstein
Forza, diamoci giù. Quale migliore occasione per un attacco mondiale contro gli ebrei, pardon, contro Israele, di questo momento di frizione fra gli Usa di Obama, il presidente che con tutti i dubbi risultati ottenuti in politica mediorientale (Iran con i suoi mortali sberleffi, Siria e di conseguenza Libano che cadono in ambito iraniano, Turchia che passa all’islamismo, palestinesi sempre più radicalizzati...) non può tuttavia mai sbagliare. L’ultima ad essersi unita alle azioni diplomatiche antisraeliane è l’Australia, che con mossa inusitata si associa all’Inghilterra che ha cacciato il capo del Mossad (e pare che i Servizi agli ordini di Sua Maestà non siano per niente contenti) per dire che è allo studio un’azione fotocopia se risulterà che sono stati falsificati dagli israeliani anche passaporti australiani.
Intanto ci pensano i quotidiani britannici a sollevare l’opinione pubblica in favore di Miliband e del suo partito laburista fortemente antisraeliano e della notevole porzione elettorale dei musulmani immigrati. Il Daily Mail sottolinea per esempio come «Nessuno ha più bisogno di alleati di Israele circondata da nemici», e poi lo stigmatizza proibendogli di fatto di reagire agli attacchi: «Tuttavia invadendo il Libano (sgomberato nel 2000, ndr) e costruendo insediamenti nelle aree disputate di Gerusalemme... Tel Aviv (Tel Aviv?, ndr) sembra determinata a alienarsi ogni governo che le sia amica».
Sono davvero queste le ragioni? A guardarsi intorno sembra piuttosto che attaccare Israele garantisca un guadagno diplomatico e morale, di quella morale che piace alle maggioranze dell’Onu: Ban Ki Moon l’ha fatto di nuovo due giorni fa, di nuovo stigmatizzando Israele per gli insediamenti; la Ue invece di dispiacersi che la signora Ashton, suo nuovo ministro degli Esteri, si trovasse a Gaza proprio mentre da là veniva sparato il missile che ha ucciso il povero lavoratore thailandese nei campi di un Moshav di confine, ha prodotto mercoledì un’ennesima condanna di Israele per gli insediamenti. L’Onu nel frattempo lascia che sul suo sito appaia di nuovo, stavolta nella parte dedicata al Consiglio per i diritti umani, un documento di una delle sue Ngo (International Organization for all Forms of Race Discrimination Eaford) che come fece con un articolo privo di ogni fondamento che apparve sul giornale svedese Aftonbladet sostiene che gli israeliani rapiscono palestinesi, li uccidono e ne estraggono gli organi per farne commerci, che vengono definiti anche, secondo uno dei tanti stilemi antisemiti propri dell’articolo (congiura del sangue, teoria della cospirazione, ecc.) molto vantaggiosi. Non è finita: l’Unhcr, ovvero il Consiglio per i diritti umani dell’Onu, riunito a Ginevra nei giorni scorsi, e di cui è l’alto commissario la signora Navy Pillay, che recentemente è stata in visita nel nostro Paese coprendolo di accuse per le nostre, a sua detta, gravissime violazioni verso gli immigrati clandestini e i rom, ha di nuovo seguito la sua tradizione: già su 33 risoluzioni ne aveva dedicato 27 a Israele fra il 2006 e il 2009, adesso ne ha approvate ben 4 in una sessione tutte contro lo Stato ebraico. E nonostante le relazioni con gli Usa in questo momento diano evidenti segni di stress, pure i rappresentanti americani a Ginevra hanno accusato il Consiglio di trattamento discriminatorio nei confronti di Israele. Lo ha fatto l’ambasciatrice Eileen Chamberlain Donahoe che ha detto: «Siamo di nuovo terribilmente colpiti dal dovere assistere all’approvazione di risoluzioni così dense di elementi controversi e ispirati da una sola parte... Il Consiglio è troppo spesso usato come una piattaforma da cui accusare Israele».
L’Italia oltre a altri otto Paesi ha votato contro una delle quattro risoluzioni che accusa Israele di gravi violazioni nei confronti dei palestinesi, anche se però ieri il ministro Frattini ha chiesto «di fermare gli insediamenti». Si è invece astenuta sulla risoluzione che auspica la restituzione del Golan alla Siria, e meno male dato che l’argomento è fatale. Proprio ieri Assad di Siria ha minacciato Israele di guerra, e certo anche lui l’ha fatto sull’onda di un clima che ritiene favorevole per chiunque attacchi lo Stato ebraico. Sulle altre due risoluzioni, di cui una sull’autodeterminazione del popolo palestinese e l’altra sugli insediamenti, solo gli Usa hanno votato contro.
Al Consiglio per i diritti umani vigono e vincono sempre maggioranze islamiche e terzomondiste, capaci di dettare la loro agenda anche in maniera sottile e raffinata, come capita sul tema dei quartieri gerusalemitani ormai definiti da tutta la stampa internazionale “insediamenti”. Solo gli Usa, da prima dell’amministrazione Obama, hanno negli anni sempre accettato l’idea che le parti densamente abitate da ebrei siano destinate ad appartenere anche nel futuro allo Stato ebraico. E qui Obama entra in contraddizione con la sua stessa tradizione politica. Come ha detto ieri l’ex ministro degli Esteri laburista Shlomo Ben Ami, la differenza fra Clinton e Obama, lasciando da parte Bush, la si vede dai loro preti: la guida spirituale di Clinton che si fece promettere dal futuro presidente che avrebbe per sempre protetto Israele; quello di Obama, invece fortemente convinto di tutta una serie di posizioni antioccidentali e antiamericane che predicava nella sua Chiesa; in esse era sempre presente una forte diffidenza terzomondista contro lo Stato d’Israele.
Ma l’America non ha questo carattere nella sua storia politica. Dunque Obama si muove in maniera controversa, proprio come ha fatto con la riforma sanitaria. La sua strategia di spingere Israele a concessioni preventive e di metterlo in un angolo, aiutato adesso da tutto il mondo, la sua speranza, che forse potrebbe realizzarsi, di cambiarne la maggioranza di governo introducendo la presenza di Kadima può anche avere successo, ma questo non cambia il problema di come raggiungere la pace, ed esso riguarda i palestinesi e il mondo arabo. Non Israele. Come mai nessuno usa la sua forza per premere sulla parte giusta?
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FONDAZIONECDF.IT - David Frum : " Un punto di vista insolito "
David Frum
Il vicepresidente Joe Biden ha emesso una `condanna´ mentre il Segretario di Stato Hillary Clinton ha fatto la voce grossa. Gli Stati Uniti sono davvero preoccupati che l´annuncio dei nuovi insediamenti in Israele possa mandare in fumo il processo di pace.
Ma lasciatami avanzare un´opinione poco ortodossa: la principale causa dell´instabilità mediorientale è proprio il processo di pace. So bene che questo non è un punto di vista convenzionale, ma provate ad ascoltarmi ugualmente.
Secondo i miei calcoli dal 1936 ad oggi sono scoppiati almeno 10 conflitti fra Ebrei e Arabi. E ciascuno dei conflitti è terminato più o meno nella stessa maniera - o una potenza straniera imponeva il cessate il fuoco oppure Israele interrompeva le operazioni militari subito prima che il cessate il fuoco entrasse in vigore.
Tutti questi conflitti sono iniziati nello stesso modo, o con un nuovo attacco (come nel 1956 o 1967) o con una violazione dell´armistizio da parte degli Arabi.
Ma questo meccanismo è del tutto inusuale. Di solito le guerre terminano quando una delle due parti, non avendo più forza sufficiente per combattere, accetta i termini che aveva rifiutato in precedenza perché l´alternativa - cioè continuare a combattere - sembra ancora peggiore.
Dubito che gli Ungheresi in passato abbiano ceduto con grande piacere metà del loro territorio ai vicini - Romania ed ex Yugoslavia. E anche i Boliviani hanno un brutto ricordo della guerra contro il Cile, quando persero la costa pacifica (1884). E tuttora in Indonesia sono in molti a ritenere che Timor Est debba tornare sotto la giurisdizione di Giacarta. Tuttavia ognuna di queste nazioni ha dovuto accettare la realtà, per quanto fosse amara.
Nel conflitto israelo-paelestinese è avvenuto esattamente l´opposto.
Nel 1956 l´Egitto ha perso per la prima volta il Sinai, ma gli è stato immediatamente restituito. Poi l´ha perso una seconda volta nel 1967, ma è di nuovo riuscito a riaverlo indietro (questa volta in maniera `formale´, dopo la firma di un trattato di pace).
La Siria ha perso il Golan nel 1967, poi nel 1973 ha attaccato nuovamente Israele e l´ha nuovamente perso, ma tuttora si ostina a chiederne la restituzione.
I Palestinesi si sono opposti alla partizione del 1947, hanno scatenato una guerra, hanno perso e nonostante ciò tuttora chiedono di essere risarciti per le loro perdite.
È proprio come se il gestore di un casinò fermasse il gioco quando uno dei clienti inizia a perdere alla roulette, promettendogli anche di restituirgli il denaro se la sorte lo abbandonasse. Ma quale giocatore siederebbe ancora al tavolo da gioco?
Io capisco perfettamente il comportamento dei governi occidentali, i quali sono convinti che senza uno sforzo per mantenere la calma in Medio Oriente il mercato del petrolio potrebbe entrare in crisi e le ideologie radicali potrebbero diffondersi rapidamente nel mondo islamico. Ma purtroppo i loro sforzi invece di migliorare la situazione l´hanno aggravata ulteriormente.
Immaginiamo ora un´altra storia.
Supponiamo che il mondo occidentale non fosse intervenuto nel 1949, che la guerra di indipendenza di Israele fosse durata più a lungo e i due contendenti fossero andati fino in fondo. In tal caso gli eserciti arabi sarebbero stati azzerati e avremmo assistito alla fuga di lunghe colonne di rifugiati oltre il Giordano. In tal caso la guerra non sarebbe terminata con un armistizio, ma con una resa. I rifugiati palestinesi avrebbero dovuto trovare una nuova casa altrove, proprio come quelle centinaia di migliaia di Ebrei cacciati dalle loro ex case nei territori arabi. Tale esito avrebbe convinto gli Arabi che la guerra non era un´opzione valida e li avrebbe dissuasi dall´imbracciare di nuovo le armi contro Israele.
Immaginiamoci ora un altro scenario.
Nel 1990 in ex Yugoslavia scoppiò una terribile guerra, da cui sorsero numerosi stati. Migliaia di persone abbandonarono le loro case, e furono commesse atrocità indicibili, ma fortunatamente il conflitto a un certo punto cessò. I rifugiati trovarono rifugio nelle loro nuove case, e anche se gli ex nemici si guardano ancora con un certo sospetto la violenza è quasi scomparsa e probabilmente non ritornerà.
Supponiamo invece che la comunità internazionale avesse deciso che i membri di una fazione in guerra - ad esempio i Serbi - avessero il diritto di ritornare nelle proprie case d´origine. Supponiamo che il mondo fosse stato disposto a pagare miliardi di dollari ai rifugiati a condizione che non volessero fermarsi definitivamente nel territorio in cui si erano trasferiti. E supponiamo ancora che la comunità internazionale fosse stata disposta a tollerare attacchi terroristici da parte dei Serbi contro Croati, Bosniaci, Kosovari perché `reagivano a un´ingiustizia´.
Oggi avremmo la pace nell´ex Yugoslavia?
Sicuramente i mediatori internazionali agiscono con le migliori intenzioni e dispongono di una pazienza invidiabile, ma invece di contribuire a porre fine al conflitto al contrario continuano ad alimentarlo. Il processo di pace, che finora non ha fatto altro che mitigare i dolori della sconfitta araba, ha condannato il mondo arabo - e in primis i Palestinesi - a una guerra senza fine.
Ogni guerra deve finire - e finire male almeno per uno dei due contendenti. Ed è ora che questa guerra abbia fine."
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