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Il Foglio Rassegna Stampa
25.03.2010 Solo Israele, nel '79 come oggi, comprese il pericolo dell'Iran degli ayatollah
Analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 25 marzo 2010
Pagina: 6
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Vi insegno i miei errori»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 25/03/2010, a pag. II l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Vi insegno i miei errori ", introduzione al suo libro Ayatollah atomici. Tutto quello che non ho capito della Rivoluzione iraniana 1978-1979 (248 pp, Mursia, 12 euro).

Da trentadue anni lavoro su quanto ho sbagliato nelle mie entusiastiche corrispondenze da Teheran sulla Rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Khomeini, pubblicate sul quotidiano Lotta Continua e trasmesse da Radio Popolare di Milano. Ne ripropongo una cernita, in presa diretta col passato.Un errore soltanto non ammetterò mai, anche se oggi va di moda affermare che fu tale: la Rivoluzione contro lo scià Reza Pahlevi non soltanto era giusta, ma indispensabile. Il regime dello scià era autoritario, antidemocratico e feroce (fonti attendibili calcolano 100 mila oppositori imprigionati, quattromila torturati, cinquemila uccisi, spesso senza processo, e non meno di otto-diecimila vittime della repressione delle manifestazioni nel 1978-79), ma era innanzitutto un regime rigido. Era, essenzialmente, un regime stupido. Era talmente infarcito di corruzione e ferocia da essere incapace della minima flessibilità riformista, della minima manovra politica che, fatta per tempo, l’avrebbe salvato. Un regime che non comprese che il suo progetto modernista era fallito, che aveva coinvolto solo un’esile patina di privilegiati, ma non era condiviso da un popolo rimasto profondamente islamico.Un regime che a fronte del contraccolpo provocato dalla fortissima contrazione dei consumi, dopo il boom del prezzo del petrolio del 1973, e del disagio sociale conseguente, seppe soltanto mettere in campo l’esercito a sparare sulla folla. Un regime che non sapeva cosa fosse la politica e che la confondeva con il comando imperiale. Un regime che lavorò con la sua rigidità feroce e sanguinaria ad allargare il consenso popolare nei confronti di Khomeini, anche nei settori più laici e filoccidentali della società iraniana. Detto questo, torno al punto: ripropongo un mio lavoro pieno di errori, di analisi errate, di incapacità di cogliere gli sviluppi successivi. Sviluppi tragici e orrendi, come vediamo. Dunque, non solo una sfida a me stesso – e anche ad altri – a non nascondere ma a evidenziare gli sbagli commessi, perché contengono semi fertili, ma un’occasione per riandare al cuore del problema straordinario e terribile che oggi l’Iran degli ayatollah propone. Quella Rivoluzione che fu corale come poche, che fu popolare come nessuna nel Novecento, che coinvolse tutte le forze politiche iraniane oggi si è sedimentata in un enorme blocco sociale costituito da milioni e milioni di iraniani che esprimono consenso a un regime feroce e letteralmente apocalittico. Un regime che si caratterizzò da subito con una vera e propria vendetta degli uomini sulle donne, alle quali tolse quel poco di parità di diritti che avevano conquistato (unico vanto del regime dello scià), per imprigionarle con le catene di una legge coranica umiliante e vergognosa. Catene alle donne che sono il perfetto simbolo della società, dell’“Uomo nuovo islamico” che vogliono far trionfare. Un regime che forgiò una “religione di morte” che ha più contatti di quanto non si pensi con l’ideologia nazista, incluso il Führerprinzip, incluso il culto della morte, incluso l’odio per l’ebreo “seminatore di complotti”. Un consenso popolare a un regime perfettamente simboleggiato da un Mohammed Ahmadinejad che fonde in un tutt’unico antisemitismo viscerale la proclamata volontà di distruggere Israele e di denunciare il “complotto ebraico” planetario che ne permise la nascita, “inventando” la Shoah, con la repressione più feroce del dissenso interno, con il progetto di dotarsi di un arsenale di bombe atomiche. C’è dunque un rapporto diretto tra l’ideologia, la religione della morte che iniziò a essere forgiata in quella rivoluzione, i suoi obiettivi apocalittici e la costruzione della bomba atomica, il cui fine va ben oltre il rafforzamento dell’Iran quale potenza regionale. L’Iran post khomeinista di oggi pretende più di quanto non abbia compreso Barack Obama. Non gli basta ottenere un riconoscimento internazionale della propria leadership, anche se persegue questo obiettivo. Se questa fosse la sua unica aspirazione, in parte – ribadisco: in parte – sarebbe anche opportuno e saggio riconoscerglielo. Ma la sua vera aspirazione è esportare la Rivoluzione islamica, rompere il cerchio dell’islamismo in un paese solo a cui fu costretto dall’attacco “controrivoluzionario” di Saddam Hussein nel 1980. Su questo punto sbagliano analisi le cancellerie occidentali, che commettono oggi lo stesso errore commesso da Chamberlain nel 1938 a Monaco, quando si mosse nella convinzione che Hitler si accontentasse del riconoscimento del suo ruolo di potenza nazionale e della conseguente mano libera per annettersi la Cecoslovacchia. Errore non di viltà, ma di incomprensione dell’essenza dei progetti dell’avversario che non era soltanto la “terra”, lo “spazio vitale”, ma che puntava a forgiare nei forni di Auschwitz una nuova umanità Judenfrei, libera dalla “zavorra degli ebrei”. Ma se oggi, per paradosso, l’occidente abbandonasse al suo destino Israele (e purtroppo non manca chi se lo augura in Europa, e non solo nell’estrema sinistra), nulla cambierebbe nelle strategie iraniane. Anzi. Esattamente come allora, questo scambio darebbe carburante alla rivoluzione khomeinista perché la missione dell’Iran islamico è la costruzione, attraverso l’idolatria della morte, dell’Uomo nuovo, dell’Utopia. L’arsenale atomico cui l’Iran sta lavorandoè ben più che la base per una “deterrenza” regionale che moltiplichi permille il peso nazionale dell’Iran. E’ anche questo, ma è soprattutto una dimensione nuova, un’invenzione che ha del fantastico e dell’orrorifico: quella a cui puntano l’ayatollah Khamenei e Ahmadinejad è un’atomica al servizio della Rivoluzione islamica dal basso, che attiri con la sua immensa potenza le coscienze dei musulmani e li spinga a ribellarsi ai “falsi Califfi”, essenza originaria dello sciismo. Una bomba che sia di copertura e di stimolo al contagio della Rivoluzione khomeinista in tutto il mondo islamico, a iniziare dal Golfo, dal Libano e da Gaza, e che elimini Israele dalle carte geografiche. Questa è la nuova “dottrina” che l’Iran ha messo in atto. Dottrina che purtroppo ha successo, perché da quando Khamenei, tramite Ahmadinejad, ha iniziato ad attuarla, l’Iran ha preso il controllo del sud del Libano con Hezbollah e di Gaza con Hamas, come autorevolmente ha testimoniato lo stesso Abu Mazen, che ha dichiarato: “Il processo decisionale di Hamas è nelle mani di Teheran”. Questo è dunque il lascito della Rivoluzione islamica del 1978-79 in Iran. Un’evoluzione sconvolgente, logico sviluppo della novità ideologica più clamorosa di quella rivoluzione: la religione della morte, l ’esaltazione del martirio islamico, del kamikaze. E’ l’irrompere sulla scena di un nuovo nefasto totalitarismo: l’ideologia del martirio, non già extrema ratio del fedele combattente, ma dovere specifico, massima aspirazione di ogni credente musulmano. Religione di morte seguita da una massa di migliaia e migliaia di kamikaze. Scisma – sì: scisma – nell’islam e nello stesso mondo sciita, che ha attecchito nello stesso mondo sunnita. E’ la prima ideologia totalitaria di massa sorta non in alveo laico, come il nazismo e il fascismo, il comunismo, ma nel solco di una religione più che millenaria. Di questo esito non colsi nessun germe quando seguii, entusiasta, la Rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini a Teheran, preso – e confuso – dal carattere assolutamente non violento di quella rivolta. Ingannato dal fatto – peraltro incontestabile – che mai in quei mesi Khomeini avesse dato il minimo ordine di rivolta violenta. Oggi si legge una chiara linea di continuità tra quelle manifestazioni di allora e il consenso enorme, forse minoritario, ma tuttavia immenso, che Ahmadinejad e gli ayatollah oltranzisti oggi riscuotono ancora – va detto: ancora – in Iran. Sicuramente Ahmadinejad non ha avuto i 24 milioni di voti che – grazie a evidenti brogli – vanta nelle elezioni presidenziali del giugno 2009, ma certo si avvicina ai 15, se non ai 20 milioni di elettori che hanno fiducia in lui. Per trovare un paragone, bisogna, di nuovo, riandare agli anni Trenta, al consenso di massa nei confronti del nazismo e del fascismo e della loro apocalisse promessa. Per imparare a leggere il pericolo iraniano, bisogna tenere presente la lezione di Renzo De Felice e di François Furet, sul rapporto tra dittature totalitarie e consenso popolare. Un’evoluzione possibile che allora non compresi, non intuii, che anzi fraintesi totalmente. Un terribile lascito delle giornate del 1978, che tutti abbiamo sofferto nel vedere le immagini dell’agonia di Neda nel giugno del 2009. Perché lo scandalo di quella morte non è solo nella vita straziata di quella giovane che rantola sull’asfalto, tra le urla del padre. Lo scandalo più misterioso è altrove: nel suo assassino. Non uno sgherro, uno scherano: ma un giovane, un ventenne, un bassiji, replica contemporanea di Hitlerjugend, che l’ha uccisa sicuro di ammazzare il demonio che lei, ai suoi occhi, impersonava. Ahmadinejad è appunto il rappresentante proprio di quella generazione di pasdaran e bassiji che aveva venti, trent’anni nel 1978 e che poi ha portato su di sé il peso di morte – e di quegli otto anni di guerra che iniziarono per difendere la patria e continuarono nel vano tentativo di esportare la Rivoluzione. La sua biografia unisce in sé le due fasi e la sua strategia ne è la riproposizione. Ahmadinejad è presidente per il semplice fatto che tutto il potere è oggi nelle mani del patto di sangue che lega pasdaran e ayatollah e mullah oltranzisti. Sono loro ad avere elaborato il passo successivo alla strategia, fallita, di Khomeini: dotarsi di quella bomba atomica che – se fosse stata nelle loro disponibilità nella guerra del 1980-88 – avrebbe permesso di “portare la rivoluzione” a Baghdad. Ahmadinejad, non a caso, è riuscito a imporsi sulla scena mondiale brandendo due spade, l’una legata all’altra: la costruzione dell’atomica e la distruzione di Israele, la “scomparsa di Israele dalla faccia della terra”. Israele, dunque. L’errore che più mi brucia, perché non compresi che dentro quella rivoluzione erano piantati i semi di un antisemitismo di massa – che riscuote consenso in tutta la umma islamica – dalle profonde connotazioni religiose. La generazione di pasdaran e bassiji che Ahmadinejad rappresenta crebbe nella certezza che arrivare sino a Baghdad sarebbe stata tappa fondamentale per regolare una volta per tutte i conti col sionismo, celebrando ogni anno la “giornata di al Quds” che Khomeini aveva instaurato. Di questo allora non compresi la portata. Quando i miei interlocutori attaccavano Israele, non vi facevo caso, convinto com’ero che il tema fosse quello della fine dell’occupazione israeliana dei territori occupati nel giugno del 1967. Commisi l’errore dei tanti che ancora oggi pensano che l’antisionismo di Ahmadinejad si riferisse a un problema “di terra araba” illegittimamente occupata da Israele nella Guerra dei Sei Giorni. Il 20 gennaio 1978 la mia cecità arrivò al punto di farmi salutare con gioia la partecipazione di migliaia di ebrei in un corteo per Khomeini, convinto come ero che fosse la prova di una volontà ecumenica del futuro stato islamico, che si sarebbe limitato ad appoggiare le rivendicazioni nazionaliste dell’Olp, rispettando in pieno gli ebrei, parte del “popolo del Libro”. Non avevo capito nulla. Non era così: quell’antisionismo era ed è parte di un profondo odio nei confronti degli ebrei, era ed è antisemitismo e si riferiva non alla Cisgiordania e Gaza, ma all’esistenza stessa di Israele. La negazione della Shoah riporta infatti alla visione degli ebrei che Khomeini – Corano alla mano (là dove spesso gli ebrei vengono insultati e derisi per aver “falsificato la parola parola di Dio”) – così riassume nel secondo capoverso della sua premessa al suo trattato sul Governo islamico: “Sin dai primi momenti, gli ebrei hanno seminato divisione e zizzania dentro la comunità dei credenti musulmani”. Negando la Shoah, Ahmadinejad a questo si riferisce, a un odio per gli ebrei che ha le sue ragioni precedenti alla fondazione dello stato di Israele, al sionismo, all’odio per il “complotto ebraico”. Quella che definisce un’“invenzione” mirata a ottenere dall’Onu, con la frode, il governo su Gerusalemme e sulla Palestina sarebbe parte di un millenario complotto ebraico, già denunciato e combattuto dal Profeta a Medina. Solo Israele, sin da allora, ebbe sentore di quanto si stava incubando a Teheran. Solo Israele, oggi, comprende il pericolo della fusione tra i progetti atomici iraniani e la riproposizione – con immenso seguito di massa nel mondo islamico – di un antisemitismo su base coranica. Solo Israele si erge a difesa non solo di se stessa e degli ebrei, ma anche dei valori dell’occidente contro una nuova barbarie, mentre l’Europa e lo stesso Obama tentennano, non colgono l’essenza del pericolo, sperano di poterla confinare in una dinamica di “deterrenza”, di trattativa sulle “sfere di influenza”. Solo a Israele, purtroppo, è affidata la responsabilità di un’azione militare che – esaurite le vie diplomatiche e politiche – impedisca la messa a punto di un arsenale atomico dal dichiarato obiettivo antisemita. (…) Nel giugno del 2009, per la prima volta, una parte della società iraniana si è ribellata e, a fronte dei palesi brogli elettorali in occasione della seconda elezione a presidente della Repubblica di Ahmadinejad è scesa in piazza. Lo ha fatto anche perché ha visto che proprio quegli ayatollah iracheni – i più autorevoli nel mondo sciita, quelli di Najaf, il “Vaticano” degli sciiti – che più duramente avevano contrastato Khomeini e la sua Costituzione islamica sono riusciti a costruire ai confini dell’Iran uno stato retto da una Costituzione che si basa proprio su quei principi che ci raccontavano i dirigenti iraniani – sconfitti e eliminati – della Rivoluzione iraniana del 1979. Grazie e solo grazie all’abbattimento per via militare del regime di Saddam Hussein in Iraq per decisione di George W. Bush, gli sciiti, gli iraniani vedono oggi ai loro confini rafforzarsi uno stato che si basa su saldi principi islamici, ma che è democratico. Il principio ispiratore della Costituzione della Repubblica dell’Iraq è esattamente quello che ci spiegavano Banisadr, Bazargan e l’ayatollah Taleghani: in assenza del dodicesimo Imam, il potere di rapportarsi al Verbo, al Corano, di calarlo nella società umana, è del popolo tutto, non di un uomo, di un filosofo, di un giureconsulto, di un Rahabar. Milioni, sono milioni gli iraniani che ogni anno passano il confine e vanno in pellegrinaggio a Najaf e Kerbala, in Iraq. A milioni vedono nascere e lentamente consolidarsi, nel contrasto durissimo al terrorismo, una promessa di democrazia. Il “contagio iracheno” si sta dimostrando antidoto forte alla volontà di “esportare la rivoluzione khomeinista” che è il cuore della strategia dell’ayatollah Khamenei e di Ahmadinejad. Antidoto forte, ma non sufficiente. Perché chi si oppone al regime iraniano, come si è visto in questi mesi, non ha di fronte solo un apparato repressivo feroce. I pasdaran, i bassiji che uccidono Neda e i ragazzi come Neda a Teheran, i giudici islamici che impiccano i rivoltosi hanno dietro di sé un terribile consenso popolare. Minoritario, forse, ma che forma una massa critica immensa. In Iran, nei prossimi mesi, nei prossimi anni, assisteremo allo scontro tra due blocchi sociali: quello forgiatosi con la Rivoluzione e con la guerra del 1980-88 e quello che vuole ciò che volevano i primi rivoluzionari iraniani: costruire una democrazia in alveo islamico. (…) Assisteremo nei prossimi mesi a uno scontro epocale, che si intreccerà con il braccio di ferro che la comunità internazionale è costretta a mettere in atto per impedire che venga realizzata la prima “bomba atomica per la Rivoluzione” della storia. Fino a quando, una seconda rivoluzione, che temo sarà insanguinata, non seppellirà, finalmente, la prima.

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