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La Repubblica Rassegna Stampa
24.03.2010 Al Qaeda usa anche le donne per attentati e proselitismo su internet
Cronaca di Francesca Caferri

Testata: La Repubblica
Data: 24 marzo 2010
Pagina: 36
Autore: Francesca Caferri
Titolo: «Le regine di al Qaeda»

Riportiamo da REPUBBLICA di ggi, 24/03/2010, a pag. 36, l'articolo di Francesca Caferri dal titolo " Le regine di al Qaeda ".


Malika al Aroud

Quando Malika al Aroud è comparsa nell´aula di tribunale di Bruxelles dove è a processo con l´accusa di aver sostenuto il terrorismo e mandato uomini a combattere in Afghanistan, due settimane fa, i presenti non hanno potuto evitare un moto di sorpresa. La donna diventata famosa nel 2008 spiegando sulle pagine del New York Times come sosteneva la jihad via Internet e sottolineando «la mia arma è la scrittura: non è mio compito mettere bombe» non era più il fantasma nero avvolto nel niqab che tutti ricordavano dalle foto di allora. Di fronte a giudici e avvocati Malika, 50 anni, originaria del Marocco, vedova di uno degli attentatori che uccise il comandante afgano Massud alla vigilia dell´11 settembre 2001, si è presentata a capo scoperto. Così, ha spiegato il suo avvocato, le era stato imposto. Occhi neri ben visibili, capelli scuri, con voce sicura ha detto di essere sì in in contatto con uomini partiti per l´Afghanistan, ma di non averli incitati a fare quella scelta. Ha ammesso di essersi rallegrata quando «i nemici americani sono caduti» e spiegato che «è un obbligo andare a difendere la nostra terra, i nostri fratelli e sorelle», ma ha negato di aver finanziato giovani pronti a combattere.
Il suo processo si chiuderà a giorni. Ieri il procuratore federale, Jean-Marc Trigaux, ha chiesto per lei una pena minima di otto anni: è «la più influente jihadista presente in Rete», ha sostenuto. Le richieste di Trigaux sono immediatamente rimbalzate sui siti Internet vicini alla posizioni di Malika, già affollati in questi giorni da documenti su un´altra donna musulmana alla prese con la giustizia occidentale: Aafia Siddiqi, la scienziata pachistana diplomata al Massachusetts Institute of Technology condannata nel febbraio scorso a New York per aver tentato di uccidere alcuni ufficiali americani al momento della sua cattura nel 2008 in Afghanistan. Aafia, 39 anni, madre di tre figli, unica donna nella lista dei most wanted di Al Qaeda, conoscerà definitivamente la sua sorte a maggio: rischia il carcere a vita. Nel frattempo domenica i suoi sostenitori faranno sentire la loro voce in tutto il mondo, organizzando proteste che, gli esperti ne sono certi, porteranno in strada migliaia di persone nel solo Pakistan, dove la vicenda è ormai un caso di Stato.
Malika Al Aroud e Aafia Siddiqi. Ma anche Colleen La Rose e Jamie Paulin-Ramirez, soprannominate dai media Usa JihadJane e JihadJamie, due donne americane accusate di aver preso parte a un complotto per uccidere Kurt Westergaard, autore della famosa vignetta di Maometto che nel 2005 fece scoppiare una crisi internazionale: nelle ultime settimane la cronaca si è riempita dei nomi di donne associate ai piani degli estremisti islamici, rilanciando la paura - già evidente a gennaio, quando gli investigatori inglesi alzarono il livello di allarme terrorismo proprio per timore di donne kamikaze - che le donne stiano assumendo un ruolo sempre più di primo piano nell´Islam radicale.
«È un dato di fatto che il ruolo femminile nella lotta dei gruppi radicali islamici contro l´Occidente sia cresciuto negli ultimi anni. E potrebbe crescere ancora», spiega Mia Bloom, esperta di terrorismo e autrice di un libro di prossima uscita in materia. «A lungo l´ala più tradizionalista di Al Qaeda, quella che faceva riferimento a Bin Laden e al Mullah Omar per intenderci, non ha voluto coinvolgere le donne. Ma la nuova generazione potrebbe avere una diversa posizione, come l´aveva già Zarqawi: quando c´era lui al comando in Iraq, il numero delle terroriste suicide si è moltiplicato. In questo momento ci sono discussioni accese in materia: i terroristi sanno che una donna, soprattutto occidentale, è un profilo che desta meno sospetti». Per Bloom Internet ha un ruolo fondamentale nel processo di coinvolgimento delle donne: «In Rete cadono le barriere: una donna non può andare in un campo di addestramento e prepararsi a combattere. Ma può incitare chi vuole fare questa scelta sui siti web, lo può guidare, può raccogliere fondi. E in questa maniera è rispettata e ascoltata come di persona non sarebbe mai».
Proprio questo è il ruolo che, per l´accusa, avrebbe ricoperto Malika Al Aroud dal Belgio. Lo stesso che, secondo alcuni esperti, avrebbe svolto la turca Defne Bayrak, la moglie di Humam Al Balawi, il giordano che il 30 dicembre si è fatto saltare in aria alle porte di un avamposto americano in Afghanistan, uccidendo sette agenti della Cia. «È riuscito a compiere una missione importante, sono fiera di lui», disse allora Defne in un´intervista. Oggi vive nella stessa casa che divideva con il marito, sotto l´occhio della polizia turca: contattata, ha prima accettato di rispondere alle nostre domande via mail, poi ha cambiato idea, su pressione della famiglia del marito. «Voglio che sia chiaro - ha scritto prima di interrompere i contatti - che io sostengo la jihad: e dire jihad non vuol dire terrorismo. I terroristi non siamo noi, sono loro (gli americani ndr.)».
«Il confine fra l´opinione e l´azione nel caso di queste donne è molto sottile - spiega ancora Bloom - loro lo sanno benissimo. E ci giocano molto bene: non possono essere condannate solo per quello che dicono o scrivono». Un concetto che Aisha Farina ha molto chiaro: italiana, sposata a Abdul Qadir Allah Fadl Mamour, ex Imam di Carmagnola, e con lui emigrata in Senegal quando il marito è stato espulso dall´Italia, ha visto il suo sito Internet chiuso dalla Digos in più di una occasione. Negli ultimi mesi Aisha ha riaperto il suo blog: nelle pagine c´è ampio risalto alle lettere dal carcere di Malika al Aroud e alla giornata mondiale per Aafia Siddiqui, così come alle invocazioni alla guerra contro gli americani in Afghanistan e in Iraq. Farina non nega le sue posizioni, ma sottolinea la differenza fra opinione e azione. Come quando parla della sua amica Malika. «Chi volesse perpetrare attentati starebbe attento a non esporsi a non gridare "no" alla guerra di sterminio in Afghanistan e in Iraq su fori islamici, con proprio nome e cognome - ci ha scritto in una mail, preferendo non rispondere a domande - ognuno può pensarla come vuole sul jihad in Afghanistan, ma pensa davvero che ci sia un musulmano al mondo che stia con gli Usa & Co.? Certamente non tutti lo dichiarano perché non vogliono ritrovarsi incarcerati o deportati solo per un reato di opinione. Perché qui sta il punto: è reato sostenere con le preghiere, con le invocazioni i nostri fratelli che combattono per liberare le nostre terre occupate? Malika non ha fatto che questo: ha detto la verità contro lo sterminio perpetrati dai paesi occidentali».
Un concetto ribadito anche dall´avvocato della signora Al Aroud, Fernande Motte de Raedt: «La mia cliente - ci dice al telefono dal suo studio a Bruxelles - non ha reclutato terroristi, si è detta scandalizzata dagli attentati in Europa. È a favore della guerra difensiva contro gli Stati Uniti che si sta svolgendo in Iraq e in Afghanistan, non del terrorismo. E pensa che sia giusto che gli uomini vadano a combattere lì. Però non ha aiutato nessuno a partire: quindi non può essere condannata».
Eppure gli studiosi avvertono che il passaggio dalle parole ai fatti spesso può essere breve. Eleonora Rossi, ricercatrice all´università della Pennsylvania, sta studiando il diario di una delle terroriste cecene morte nel 2002 al teatro Dubrovka di Mosca: «Dal linguaggio si capisce che stava andando verso l´estremismo, le sue parole sono una testimonianza di quello che è accaduto negli ultimi mesi della sua vita - spiega - c´è un moltiplicarsi di concetti che si riferiscono al martirio, di riferimenti alla jihad, alla violenza, ad Allah, al Paradiso».
Come in molti dei siti Internet consultati dalle donne americane arrestate per il complotto contro il disegnatore danese e in quelli a lungo gestiti da Malika Al Aroud. «Non possiamo dire che sia in atto un fenomeno generale di radicalizzazione delle donne islamiche - conclude Stefano Allievi, docente all´università di Padova e uno dei massimi esperti europei di Islam - ma di certo ci sono donne che si stanno radicalizzando. E di certo Internet è un modo semplice per farlo, perché arrivare ad ambienti radicali o diffondere idee radicali in questo modo è più semplice. Le donne che sostengono queste idee non parlano in moschea o nei gruppi, ma lo fanno in Rete». Il prossimo allarme, gli investigatori europei e americani ne sono certi, potrebbe venire da loro.

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