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Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.03.2010 Romano si arrampica sugli specchi per dare un'idea di imparzialità alle sue risposte su Israele
Ma, come al solito, non convince

Testata: Corriere della Sera
Data: 24 marzo 2010
Pagina: 49
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Le repubbliche arabe e lo Stato ebraico»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/03/2010, a pag. 49, la risposta di Sergio Romano a un lettore dal titolo " Le repubbliche arabe e lo Stato ebraico ".

Romano scrive : " A proposito delle repubbliche islamiche non avrei difficoltà a ripetere ciò che ho scritto dello Stato ebraico". E allora perchè non lo fa?
Non abbiamo mai letto articoli di Sergio Romano in cui l'Iran veniva definito uno Stato d'apartheid.
Poi, come fa sempre, Romano elude la domanda postagli dal lettore e scrive: "
È alquanto diverso, invece, il caso degli Stati che si definiscono arabi ", dilungandosi in una divagazione sul panarabismo.
La distinzione fra stati islamici e stati arabi è di poco rilievo, ai fini della domanda che ha posto il lettore. In entrambi i casi, infatti, la religione dominante è quella islamica e le minoranze vengono perseguitate.
Anche il caso dell'Egitto, citato da Romano, non fa eccezione. Basta leggere l'articolo di Michelle Mazel sull'inaugurazione della sinagoga Rambam al Cairo pubblicato su IC il 18/03/2010, dove si legge delle limitazioni imposte alla popolazione ebraica locale nelle celebrazioni.
Stati arabi e Stati islamici sono acomunati da una cosa: il disprezzo per le minoranze di altre religioni e il fondamentalismo islamico.
Come gli fa giustamente notare il lettore, Israele, è uno Stato ebraico, e, al contempo, una democrazia in cui le minoranze non vengono discriminate.
Ecco lettera e risposta di Sergio Romano: 


Sergio Romano

Lei sicuramente sa meglio di me che la contrapposizione ideologica tra «Stato degli ebrei» e «Stato ebraico» fu ampiamente dibattuta fra i sionisti fino dagli inizi del loro movimento. Oggi credo che 60 anni e più di conflitti, e la Shoah, abbiano radicalizzato posizioni che prima potevano essere discusse. Penso che uno Stato laico e democratico potrà diventare reale se e quando un lungo periodo di pace e di convivenza farà prevalere l’idea di cittadinanza (israeliana) su quella di etnia (araba o ebraica). Resta l’incongruenza di mettere sotto il microscopio della critica continua l’essenza «ebraica» di Israele, da cui l’accusa di apartheid, ma non fare mai la stessa cosa nei riguardi, ad esempio, della Siria (denominazione ufficiale: Repubblica araba di Siria), dell'Egitto (Repubblica araba d'Egitto), della Libia (Grande Jamahiriyya araba di Libia popolare e socialista) o, ancora, di Sudan, Iran, Afghanistan, Pakistan, Mauritania che sono tutte repubbliche islamiche. Vale la domanda: e chi non è arabo? E chi non è islamico? Possiamo parlare di apartheid anche in questi casi? È evidente che Israele è uno Stato democratico di tipo europeo, ma ha una sua specificità derivante dalla storia complessa del popolo ebraico, sempre minoranza in casa d’altri negli ultimi venti secoli e, per questo, sempre duramente colpito.

Fabio Della Pergola
f.dellapergola@gmail.com 

Caro Della Pergola,

A proposito delle repubbliche islamiche non avrei difficoltà a ripetere ciò che ho scritto dello Stato ebraico. È alquanto diverso, invece, il caso degli Stati che si definiscono arabi. Quando un gruppo di giovani colonnelli prese il potere al Cairo nel luglio del 1952 e costrinse re Faruk ad abdicare, il loro leader, Gamal Abdel Nasser, sognava un grande rinascimento arabo. Il suo obiettivo politico era una federazione che avrebbe riscattato gli arabi dall’umiliante ricordo della lunga cattività ottomana e li avrebbe definitivamente liberati dall’imperialismo europeo. Prese corpo così una ideologia panaraba che non era concettualmente diversa da certe forme di nazionalismo europeo fra l’Ottocento e il Novecento: panellenismo, pangermanesimo, panslavismo. Non bastava quindi sbarazzare l’Egitto da una dinastia che aveva ascendenze ottomane e aveva lungamente collaborato con le potenze coloniali europee. Occorreva farne il cuore di un movimento che avrebbe coinvolto gli Stati della costa meridionale del Mediterraneo. Il libro di Nasser, «La filosofia della rivoluzione», divenne il vangelo politico dei giovani nazionalisti che aspiravano alla conquista del potere. Per Gheddafi, in particolare, fu il manuale a cui ricorse per programmare le sue prime mosse politiche alla fine degli anni Cinquanta e il colpo di Stato con cui rovesciò il regno di Idris nel 1969. 
Vi fu persino un momento in cui il panarabismo di Nasser sembrò prossimo a materializzarsi. Il suo primo successo fu il matrimonio fra Egitto e Siria nell’ambito della Repubblica Araba Unita (1958). L’esperimento durò soltanto tre anni e Nasser ne annunciò la fine con un melanconico discorso in cui si dichiarò certo che quella prima esperienza della «nazione araba» non sarebbe stata l’ultima. Ve ne furono altre effettivamente: una unione tripartita (Egitto-Libia-Siria) nel 1971, una unione fra Libia e Tunisia nel 1974, una unione fra Libia e Marocco nel 1984. Ma furono tentativi effimeri dovuti in gran parte alle improvvisazioni di Gheddafi. Il panarabismo era morto nel 1967 quando la vittoria israeliana nella guerra dei Sei giorni umiliò Nasser, vale a dire il solo uomo che potesse far valere, nell’ambito di un negoziato inter-arabo, il peso di una importante potenza regionale. Ogni Stato arabo, da allora, tende anzitutto a rafforzare se stesso e a perseguire interessi che sono spesso alquanto diversi da quelli dei suoi vicini. La parola «arabo» sopravvive nelle loro denominazioni come traccia storica di un esperimento fallito.

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