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La Stampa Rassegna Stampa
23.03.2010 Hillary Clinton all'AIPAC
Cronaca di Maurizio Molinari, commento di Vittorio Emanuele Parsi

Testata: La Stampa
Data: 23 marzo 2010
Pagina: 12
Autore: Maurizio Molinari - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Hillary a Israele: scelte difficili per la pace - Usa, passi falsi in Medio Oriente»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/03/2010, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Hillary a Israele: scelte difficili per la pace ", a pag. 35, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Usa, passi falsi in Medio Oriente ".

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Maurizio Molinari : " Hillary a Israele: scelte difficili per la pace "

PM: J’lem is not a settlement
Maurizio Molinari

Riguardo le dichiarazioni di Hillary Clinton circa la costruzione di nuove case a Gerusalemme, condividiamo il commento fatto da Benjamin Netanyahu: " Gli ebrei hanno costruito Gerusalemme 3000 anni fa e lo fanno anche oggi. Gerusalemme non è una colonia, è la nostra capitale ".

Benjamin Nethanyau viene ricevuto oggi da Barack Obama alla Casa Bianca in un incontro che avrà al centro il dissenso sulle costruzioni a Gerusalemme Est e la comune opposizione al programma nucleare iraniano.
È toccato al Segretario di Stato, Hillary Clinton, disegnare l’agenda dei rapporti bilaterali nell’intervento fatto ieri di fronte ai 7500 delegati dell’Aipac, la maggiore organizzazione pro-Israele negli Stati Uniti. «Perseguiamo delle sanzioni contro il nucleare dell’Iran, non incrementali ma capaci di mordere» ha detto Hillary, sottolineando la volontà di farle approvare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu in tempi stretti. Per la Clinton la comune opposizione all’Iran nucleare è un tassello di un’alleanza bilaterale «solida come una roccia» perché fondata «sui valori comuni di democrazia» e l’impegno dell’Amministrazione Obama a garantire la sicurezza dello Stato ebraico «non oscilla e durerà per sempre». Ma ciò non esclude l’esistenza del dissenso sulla costruzione di 1600 nuove case a Gerusalemme Est, considerata dai palestinesi la capitale del futuro Stato.
«La nostra reazione all’annuncio fatto lo scorso 9 marzo su queste nuove costruzioni non è stata dovuta al sentimento di un orgoglio ferito - ha detto Hillary, riferendosi alla coincidenza con la visita del vicepresidente Joe Biden in Israele - ma al fatto che minano la credibilità dell’America come mediatore e soprattutto le possibilità di successo dei negoziati che stanno per iniziare con i palestinesi», grazie al ruolo dell’inviato Usa George Mitchell. E ancora: «Costruendo case a Gerusalemme Est si mette in risalto un contrasto fra Stati Uniti e Israele che altri Stati della regione possono sfruttare». Ovvero, si fa il gioco di Stati proprio come l’Iran. Da qui l’appello di Hillary al governo israeliano affinché accetti di «compiere delle scelte difficili» al fine di arrivare ad un accordo sullo status definitivo dei confini fra Stato Ebraico e Stato di Palestina capace di garantire «pace e sicurezza» per entrambi negli anni a venire.
Non vi sono state contestazioni nella platea sul tema di Gerusalemme Est anche se Howards Kohr, direttore esecutivo dell’Aipac, ha messo a nudo il problema affermando dal palco che «Gerusalemme Est non è un insediamento». Hillary da parte sua ha mandato ripetuti segnali di attenzione all’Aipac, come in occasione delle critiche ai palestinesi «per i continui incitamenti alla violenza» e per «considerare la ricostruzione di un’antica sinagoga a Gerusalemme come un’offesa all’Islam».
Proprio della questione di Gerusalemme Est ha trattato ieri sera il premier Netanyahu con Biden durante una cena nella residenza dell’Osservatorio navale e si appresta a discutere oggi in un incontro con Obama rimasto incerto fino all’ultimo. Prima di lasciare Israele, Netanyahu ha riunito i suoi ministri affermando che «la nostra posizione è che costruire a Gerusalemme è come costruire a Tel Aviv» al fine di far sapere a Obama che difficilmente oggi farà dei passi all’indietro su Ramat Shlomò, il quartiere dove fra tre anni saranno edificate le 1600 case. Sempre di Gerusalemme Netanyahu ha parlato ieri pomeriggio di fronte alla platea dell’Apac - composta di delegati e studenti - che lo ha salutato con una raffica di standing ovation.
Resta da vedere se i due alleati riusciranno a trovare un linguaggio comune sul nodo di Gerusalemme Est: Obama vuole ottenere dall’ospite l’inclusione di questo spinoso tema nell’agenda dei colloqui israelo-palestinesi mentre Netanyahu è consapevole che una simile scelta porterebbe al collasso della sua coalizione, che si regge su partiti alla destra del Likud che hanno la base elettorale negli insediamenti in Cisgiordania.

Vittorio Emanuele Parsi : " Usa, passi falsi in Medio Oriente "


Vittorio Emanuele Parsi

Speriamo che dai colloqui di Washington tra israeliani e americani esca qualcosa di buono, capace di rianimare un processo di pace in condizioni simili al Lazzaro del Vangelo di Giovanni. Barack Obama è uomo di grande qualità e straordinariamente tenace, come ben attesta lo storico successo ottenuto sulla riforma sanitaria. Ma quello dell’ordine mediorientale è un tema ugualmente intrattabile e dall’altrettanto storica portata, per affrontare il quale il Presidente degli Usa si troverà a condurre una battaglia persino più solitaria.
Tra le tante politiche pubbliche, la politica estera è per definizione quella il cui successo non dipende totalmente dal governo che la elabora e la mette in opera, neppure quando si tratta della superpotenza americana. A farla naufragare o, meno drammaticamente, a procrastinarne e attenuarne gli effetti, non concorrono solo gli eventuali abbagli analitici, o le «resistenze» di avversari e rivali (che evidentemente giocano ognuno la propria partita), ma talvolta le mosse degli stessi alleati. L’inopportuna decisione israeliana di consentire nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est è tra queste. Mentre la condanniamo, occorre però riconoscere che essa è frutto di un’analisi convinta innanzitutto della debolezza della leadership e della crescente solitudine americana in Medio Oriente.
La sensazione è che gli Usa stiano perdendo innanzitutto la presa sugli alleati nella regione: non solo gli israeliani, ma anche la Turchia (nonostante proprio da Ankara Obama avesse inaugurato il suo primo viaggio europeo) e persino l’Iraq, che è sempre più impaziente di liberarsi dei soldati di Petraeus.
Se Netanyahu sfida così apertamente Obama, è perché sa che l’America non è in grado né di sanzionare seriamente Israele né di cambiare significativamente per il meglio l’orizzonte strategico in cui Israele vive. Da un lato, come dovette pubblicamente ribadire Hillary Clinton appena 48 ore dopo una dura sfuriata nei confronti delle autorità israeliane, «l’impegno americano a favore della sicurezza di Israele» prescinde da qualunque contingente divergenza di opinione, anche aspra (esempio di quello che gli arabi chiamano «doppio standard»). Dall’altro, l’amministrazione Obama non è riuscita a far rallentare di un solo giorno la prospettiva di un Iran nucleare, vero e proprio incubo della dirigenza israeliana. Anzi, l’aver trascurato di impegnare più frontalmente l’Iran sulla questione dei diritti umani e delle elezioni truccate a favore della sola issue nucleare ha finito col fornire a Mosca e Pechino uno spazio sempre maggiore in Medio Oriente, trasformandoli di fatto nei protettori degli ayatollah.
Questo è lo scenario che contemplano anche gli arabi, che dopo il «discorso del Cairo» (tanto ispirato quanto audace) si aspettavano molto di più dal presidente Obama e che invece vedono gli «altri» (israeliani, iraniani e turchi) acquisire sempre più peso e autonomia a scapito loro. Serve un cambio di rotta rapido e incisivo, un segnale che «compensi» il ritiro delle truppe dall’Iraq e sia in grado di chiarire a tutti (alleati, avversari e neutrali) che gli Stati Uniti hanno intenzione di tornare a esercitare una leadership effettiva nel Medio Oriente.

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