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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.03.2010 Secondo Romano i cittadini arabi di Israele sono di serie B
Non ne comprendiamo il motivo, dato che godono degli stessi diritti degli altri

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 marzo 2010
Pagina: 54
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Le accuse delle università e il boicottaggio di Israele»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/03/2010, a pag. 54, la risposta di Sergio Romano ad una lettrice dal titolo " Le accuse delle università e il boicottaggio di Israele ".


Sergio Romano

Romano inizia con queste parole la sua risposta: "Apartheid ebbe all’inizio, paradossalmente, un significato neutrale, se non addirittura positivo.". Una politica di segregazione razziale di parte della popolazione sudafricana sarebbe nata all'inizio con un significato positivo?!?
Romano continua la sua risposta storpiando il significato delle parole della lettrice : "
Possiamo parlare di apartheid per lo Stato d’Israele? Lei sostiene, se ho ben capito la sua lettera, che si tratterebbe di una apartheid provvisoria, dovuta a un temporaneo regime di occupazione e a un conflitto non ancora risolto.". Nella lettera, la sig.ra Perosa sostiene proprio l'opposto. In Israele non c'è niente che assomigli a misure di segregazione e sottomissione che ricordino anche solo vagamente l'apartheid o le leggi razziali.
Ma a Romano fa comodo fingere di aver compreso male, scrive parole come regime di occupazione e conflitto non ancora risolto, termini non usati dalla lettrice.
Poi Romano cita Janiki Cingoli, a sostegno delle proprie tesi.
Per farsi un'idea delle teorie di Cingoli e sulla loro affidabilità, è sufficiente andare sulla Home Page di IC e digitare 'cingoli' nella casella 'cerca nel sito'. Si aprirà un archivio ricchissimo.
Romano sostiene che l'idea stessa di Stato ebraico non sia democratica perchè : "
questa pretesa è in contraddizione con il concetto di Stato laico e democratico in cui i cittadini sono tali, senza distinzione di stirpe o credo religioso, se aderiscono alla sua costituzione. ". Romano è mai stato in Israele? Se ci fosse stato, saprebbe che tutti i suoi cittadini godono degli stessi diritti. La popolazione araba che Romano difende (non è ben chiaro da che cosa) ha i propri rappresentanti alla Knesset, può esercitare qualunque professione in Israele. L'unico divieto, ma non totale, riguarda il servizio militare, per ovvie motivazioni.
Romano scrive : "
In uno Stato che si definisce ebraico questi arabi non possono che essere cittadini «minori», che non giova all’immagine di Israele nel mondo. ". Curioso che non usi le stesse parole riferite, per fare un esempio a caso, alla Repubblica islamica dell'Iran. Uno Stato islamico dal quale tutte le minoranze religiose stanno scomparendo. Questo giova all'immagine (già per altro devastata dai programmi nucleari bellici di Ahmadinejad e dal colpo di Stato di Khomeini) dell'Iran, secondo Romano? Dal suo silenzio ne deduciamo di sì.
Facciamo notare a Romano che in Israele la minoranza araba non viene vessata, nè ci sono leggi discriminatorie a suo carico. La popolazione araba non scappa da Israele, perchè, evidentemente, ci vive bene. E ne chiedono persino la nazionalità.
Ecco lettera e risposta di Sergio Romano:

Quarantacinque università mondiali hanno deciso di boicottare Israele e le sue prestigiose università, per una settimana, perché «Israele è razzista». Vige l’apartheid. Mi risulta che l’apartheid non sia una misura temporanea di sicurezza in tempo di guerra o guerriglia, ma un sistema sociale di segregazione o sottomissione permanente. Vorrei fare degli esempi: le Leggi razziali italiane (1938) contro gli Ebrei, o dei Copti in Egitto, attualmente, da parte del governo e clero musulmano, o i Cristiani in generale nel mondo arabo (Libano e Maghreb escluse) senza tralasciare il Sudafrica dove è rimasto in vigore sino al 1991.

Donata Perosa
donata_p54@yahoo.it

Cara Signora,

Apartheid ebbe all’inizio, paradossalmente, un significato neutrale, se non addirittura positivo. Nelle intenzioni dichiarate dal governo sud-africano era la formula politico-istituzionale che avrebbe permesso ai due popoli (quello degli eredi dei colonizzatori europei e quello degli aborigeni) di svilupparsi autonomamente, secondo i principi e i criteri propri delle loro rispettive tradizioni e culture. La parola cominciò ad avere un significato negativo quando scoprimmo che la popolazione indigena era soltanto fornitrice di manodopera per mestieri servili e non avrebbe goduto di alcun diritto.

Possiamo parlare di apartheid per lo Stato d’Israele? Lei sostiene, se ho ben capito la sua lettera, che si tratterebbe di una apartheid provvisoria, dovuta a un temporaneo regime di occupazione e a un conflitto non ancora risolto. Le restrizioni scompariranno, in altre parole, quando le circostanze e i negoziati consentiranno ai palestinesi di avere uno Stato. Benjamin Netanyahu, Primo ministro dopo la vittoria del partito Likud nelle ultime elezioni, è stato per molto tempo contrario a questa prospettiva, ma nel giugno dell’anno scorso ha modificato la sua posizione. Prima o dopo, quindi, l’occupazione dei territori occupati dovrebbe finire e le molte limitazioni imposte ai loro abitanti dovrebbero avere termine. Vi è tuttavia, nella politica di Netanyahu, un punto sottolineato da Janiki Cingoli nell’ultima Newsletter del Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente), un istituto milanese sostenuto dal ministero degli Esteri e dalla Fondazione Cariplo. Cingoli ricorda che Netanyahu ha posto una condizione: i palestinesi, e più generalmente i Paesi arabi, devono anzitutto riconoscere il carattere ebraico dello Stato d’Israele. Tutti gli Stati della regione, quindi, dovrebbero riconoscere che Israele non è soltanto lo Stato dove tutti gli ebrei hanno diritto a una accoglienza privilegiata: è anche e soprattutto uno «Stato ebraico». A me è sempre parso che questa pretesa fosse in contraddizione con il concetto di Stato laico e democratico in cui i cittadini sono tali, senza distinzione di stirpe o credo religioso, se aderiscono alla sua costituzione. Ma il problema è ulteriormente complicato dal fatto che il 20% della popolazione di Israele è costituito da arabi che non hanno mai abbandonato le loro case dopo le guerre degli ultimi sessant’anni, hanno un passaporto israeliano e hanno, incidentalmente, un tasso di accrescimento demografico superiore a quello della popolazione israeliana. In uno Stato che si definisce ebraico questi arabi non possono che essere cittadini «minori», che non giova all’immagine di Israele nel mondo.

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