Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 18/03/2010, a pag. 33, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo " Obama Israele. Molte ripicche, scarsa visione ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 17, l'articolo di Sergio Luzzatto dal titolo " Obama contro Netanyahu, tifosi liberal a Washington ". Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:
La STAMPA - Lucia Annunziata : " Obama Israele. Molte ripicche, scarsa visione "
Lucia Annunziata attribuisce a Israele la responsabilità della crisi con gli Usa : "che il governo israeliano si lanciasse in una pubblica campagna di deterioramento delle iniziative americane in Medio Oriente non lo avrebbe previsto nessuno. ". Sul fatto che, in realtà, siano le continue pressioni dell'Amministrazione Obama ad aver portato a questa situazione, non una sillaba. Sui fallimenti in politca estera di Obama, idem.
Anzi, Lucia Annunziata vede l'esatto opposto : "Forse il maggior impegno preso in politica estera dal Presidente è stato proprio quello di affrontare di petto la riappacificazione con il mondo arabo. Nella convinzione - da Obama più volte sottolineata - che la tensione fra Est e Ovest non sia uno scontro di culture, ma uno scontro politico.
Naturalmente già in questa distinzione fra scontro di culture e tensione politica si può leggere un mare di distanza fra Israele, che legge la sua missione come quella di «faro» dell’Occidente, e il pragmatismo a-ideologico di Obama. ".
Obama, un anno fa, è andato al Cairo e si è inchinato all'islam. Che cosa ha ottenuto con la sua politica di apertura a Paesi come l'Iran? Nulla. Anzi, qualcosa l'ha ottenuto, il peggioramento della situazione.
Lo scontro fra islam e occidente è reale ed è di civiltà. Per questo c'è Eurabia, l'espressione di questo scontro, che l'Occidente, al momento, sta perdendo clamorosamente.
Occidentali che difendono il burqa, che prendono le parti dei Paesi arabi contro l'unica democrazia del Medio Oriente. Giornalisti come Lucia Annunziata, che scrive nel suo pezzo : "Dunque una immaturità totale di Israele ". Uno Stato è immaturo perchè non si lascia cancellare e continua a fare ciò che è più sicuro per la propria esistenza?
L'unica cosa immatura che abbiamo notato, è la visione che Lucia Annunziata ha del Medio Oriente. Immatura e distorta.
Ecco il suo articolo:
Lucia Annunziata
Una spirale di ripicche e offese ha portato le relazioni fra Usa e Israele, nel giro di un fine settimana, al livello di bandierina rossa. Uno stato di eccezionale emotività, che si può misurare con efficacia dal riverbero che ha avuto nelle parole di un grande giornalista, nonché difensore (finora) inflessibile di Israele. Thomas Friedman, pluripremio Pulitzer, sul «New York Times» domenica ha marchiato il comportamento di Gerusalemme con parole di fuoco: «Il vicepresidente Biden avrebbe dovuto tornare immediatamente a bordo dell’Air Force Two e lasciare il seguente messaggio dall’America al governo di Israele: gli amici non permettono agli amici di guidare ubriachi. E in questo momento voi state guidando ubriachi. Pensate davvero di poter mettere in imbarazzo il vostro unico alleato al mondo, per rispondere alle vostre beghe interne, senza pagarne le conseguenze? Avete perso totalmente contatto con la realtà. Chiamateci quando sarete seri».
Non a caso, Friedman parla di telefono. Riprende infatti quasi letteralmente un’altra citazione telefonica usata per mandare a quel paese Israele. Nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo, l’allora segretario di Stato James Baker, dell’amministrazione di Bush padre, stanco di dover convincere Israele a sedersi al tavolo delle trattative di Oslo, sbottò: «Conoscono il mio numero, possono chiamarmi». Aggiungendo: «F... the Jews. Comunque non ci votano».
Finora era stato quello il punto più basso nella storia delle relazioni fra i due Paesi, ma la crisi attuale sembra averlo però ampiamente superato. Umori come quelli di queste ore non si coglievano effettivamente da anni. Che non ci sia grande amore fra Barack Obama e Bibi Netanyahu, fra l’attuale amministrazione democratica e il governo di Gerusalemme, è ormai un dato (tristemente) acquisito. Ma che il governo israeliano si lanciasse in una pubblica campagna di deterioramento delle iniziative americane in Medio Oriente non lo avrebbe previsto nessuno. Meno di tutti l’uomo cui è stato fatto lo sgarro, l’elegante vicepresidente Joe Biden, recatosi la scorsa settimana in Israele nell’ennesima visita per il processo di pace, e trovatosi spiaccicato in faccia l’annuncio del governo di Israele di aver avviato la costruzione di 1600 nuove case a Gerusalemme Nord-Est, confine zona araba.
Viceversa, si può dire che nemmeno Israele aveva anticipato le conseguenze di questo suo gesto di pubblica umiliazione. Washington ha risposto con indignazione, denunciando lo «schiaffo», ventilando conseguenze, arrivando a parlare del primo ministro israeliano senza mai citarne il titolo ma chiamandolo solo con il nomignolo, Bibi. Bibi come il bullo del quartiere, la testa calda del cortile di casa. Questa reazione emotiva da parte di Washington sta scuotendo il mondo diplomatico. Può piacere o no, è però di sicuro una diversità rispetto al passato, una forma di trasparenza rispetto al manierismo che spesso soffoca il dibattito pubblico fra nazioni.
In questo senso, la franca incavolatura della Casa Bianca va presa come una indicazione in sé: il segnale di quanto preoccupati siano gli americani per la situazione mediorientale. Secondo quanto è stato fatto circolare nella capitale, Obama pensa che Israele non abbia sufficiente cognizione della delicatezza della sua posizione, e della politica americana. Forse il maggior impegno preso in politica estera dal Presidente è stato proprio quello di affrontare di petto la riappacificazione con il mondo arabo. Nella convinzione - da Obama più volte sottolineata - che la tensione fra Est e Ovest non sia uno scontro di culture, ma uno scontro politico.
Naturalmente già in questa distinzione fra scontro di culture e tensione politica si può leggere un mare di distanza fra Israele, che legge la sua missione come quella di «faro» dell’Occidente, e il pragmatismo a-ideologico di Obama.
Ma fin qui le posizioni fra i due alleati potrebbero anche convivere. Se non fosse che la politica Usa ha dovuto fare in questi mesi un bagno di realtà. Il Presidente democratico, che pure si è preso la responsabilità di parlare al mondo arabo recandosi di persona in una delle sue capitali, Il Cairo, oggi, poco più di un anno dopo, si ritrova con in mano due guerre con gli arabi - una in Afghanistan e l’altra non del tutto conclusa in Iraq - e una potenziale deflagrazione mondiale con l’Iran. L’avvio di un qualunque colloquio fra palestinesi e israeliani, fosse anche solo formale, darebbe al presidente Obama una boccata di ossigeno, una carta da giocare, una prova che il meccanismo può essere da qualche parte disinnescato.
La teatralità, le ripicche di Gerusalemme sono in questo senso avvertite a Washington come un personale affronto, ma, ancora di più, un irresponsabile calcio negli stinchi all’unico alleato, come dice appunto il giornalista Friedman. Dunque una immaturità totale di Israele. Che è poi la conclusione cui porta la tensione di queste ore. Fra Israele e Stati Uniti ogni rottura è impensabile. Eppure, il rapporto automatico, senza ombre, paritario fra loro sembra decisamente in declino. Per colpa di Obama, amano dire molti in Israele. Per colpa di Israele, rispondono molti a Washington, convinti che mettere in imbarazzo un Presidente americano per dare soddisfazione ai propri elettori è segno di una grave perdita di visione e di grandezza da parte del governo di Gerusalemme. Sono due linee non di collisione, ma certo non più di reciproca e indiscussa appartenenza.
Il SOLE 24 ORE - Sergio Luzzatto : " Obama contro Netanyahu, tifosi liberal a Washington "
Il SOLE 24 ORE di oggi dopo aver pubblicato le fandonie di Mark Perry, ieri, ritiene che la pubblicazione dell'articolo sia motivo di vanto e, per questo, lo ricorda con foto e didascalia che riportiamo per i lettori:
" L'analisi del rapporto Petraeus al Pentagono: dalla politica di Tel Aviv nei territori rischi per gli Usa in Iraq e Afghanistan. ".
Non esiste nessuna politica di Tel Aviv. La capitale di Israele è Gerusalemme.
Quello che segue è un articolo di Sergio Luzzatto, che sarà sicuramente d'accordo qcon quanto scritto ieri da Perry (si veda IC di ieri per l'articolo). Facciamo notare ai lettori che Luzzatto elogia JStreet, meritevole di aver portato "un giudizio severo sulla maniera in cui, da quarant'anni, ogni volta che Israele ha alzato la voce gli Stati Uniti hanno obbedito." e di aver composto un documento dove si afferma che "soltanto un amico può dire la verità più scomoda ", e dove si invita il governo Obama " a trasformare l'attuale crisi diplomatica in un'opportunità per lavorare concretamente alla soluzione dei "due stati" in Palestina: lo stato ebraico, che già c'è, e lo stato palestinese, cui finora Israele ha vietato di esistere. ". Israele non vieta l'esistenza a nessuno. Per due semplici motivi: il primo è che ciò che interessa di più allo Stato ebraico è la propria sicurezza, il secondo è che, se anche Israele non volesse uno Stato palestinese, la decisione non è solo sua. Ma a JStreet fa comodo far credere il contrario. In ogni caso, ricordiamo a Luzzatto e a JStreet che lo Stato palestinese sarebbe potuto nascere con quello ebraico, se solo gli arabi l'avessero accettato, fin dal 1948 !
Non condividiamo l'entusiasmo di Luzzatto per JStreet, un gruppo che porterà solo danni a Israele. La crisi diplomatica fra Israele e Usa va risolta, non inasprita con recriminazioni inutili. Come scrive giustamente Daniel Pipes (la sua analisi è pubblicata in altra pagina della rassegna IC di oggi), ciò di cui ha bisogno Israele è un alleato americano forte e che lo sostenga nella sua lotta contro chi vuole cancellarlo.
Ecco l'articolo:
JStreet, Sergio Luzzatto
Dopo il clamoroso fallimento della visita in Israele del vicepresidente americano Biden, gli analisti internazionali concordano nel giudicare particolarmente grave la crisi presente delle relazioni fra gli Stati Uniti e lo stato ebraico: forse la più grave dal 1967, cioè dalla guerra dei Sei giorni e dall'occupazione israeliana dei territori palestinesi.
Come sempre accade, le dinamiche di politica estera si intrecciano a quelle di politica interna. La gravità della crisi diplomatica risulta accentuata dalle difficoltà domestiche di entrambi i premier, Barack Obama e Benjamin Netanyahu. Obama ha perso alcuni margini di manovra per la maggioranza democratica al Senato e si trova, in generale, sotto il possibile schiaffo delle prossime elezioni legislative di mid term . Netanyahu fatica a sottrarsi all'ipoteca politica che pure gli ha consentito, l'anno scorso, di riprendere in mano dopo un decennio le redini del governo di Tel Aviv. Fin da quando il suo partito, il Likud, non ha trovato un'intesa elettorale con Tzipi Livni e il centro di Kadima, Netanyahu si è consegnato agli alleati di estrema destra, intrattabili sulla questione delle colonie e ancor più su quella di Gerusalemme est.
Ma proprio da questa situazione di difficoltà potrebbe derivare, paradossalmente, un'opportunità per Obama e dunque, di riflesso, la possibilità di uno sbocco dell'impasse diplomatica mediorientale. Potrebbe derivare cioè la tentazione, per Obama stesso, di trasformare il limite in una risorsa: marcando una soluzione netta di continuità rispetto a quarant'anni di arrendevolezza di ogni governo americano nei confronti di Israele.
La tentazione di rompere gli indugi - a costo di un vero e proprio scontro con Netanyahu - sarebbe il frutto di una somma di fattori concomitanti. Tra questi, la difficile intesa personale (secondo alcuni, un'antipatia quasi epidermica) fra il premier israeliano e il segretario di stato americano, Hillary Clinton. E la crescente impazienza verso Israele da parte del Pentagono: se è vero (come ha argomentato recentemente la rivista Foreign Policy, in un articolo ripreso ieri dal Sole 24 Ore) che gli strateghi di Washington temono sempre più gli effetti destabilizzanti, sull'intero Medio Oriente, di una rinnovata timidezza Usa verso Israele.
La tentazione di rompere gli indugi potrebbe venire ad Obama anche dagli sviluppi del rapporto fra l'amministrazione democratica e la diaspora statunitense. Perché l'autentico fatto nuovo di quest'ultimo paio d'anni è la nascita di un polo politico liberal della diaspora. Un polo che non vuole più co-stringere gli ebrei americani dentro il ruolo tradizionale di elettori del partito democratico; un polo che intende contare anche nella capitale, a Washington, valendo da contrappeso rispetto al polo conservatore della diaspora.Quest'ultimo risulta perfettamente rappresentato, ormai da decenni, dall'influentissima lobby chiamata Anti-Defamation League. Il nuovo polo liberal si è andato invece organizzando intorno al gruppo di pressione denominato J-Street.
Il nome J-Street allude a una via notoriamente mancante nella griglia topografica di Washington; ma allude anche, evidentemente, alla necessità di portare nella capitale la voce di un mondo ebraico (J-ewish) che non si sente rappresentato dai conservatori della Anti- Defamation League. È appunto il mondo dell'intellighenzia ebraica progressista: il mondo di New York, potremmo dire, che cerca di vincere la sua spocchia intellettualistica e prova a sbarcare, armi e bagagli, nella bassa cucina di Washington. Portandovi un giudizio severo sulla maniera in cui, da quarant'anni, ogni volta che Israele ha alzato la voce gli Stati Uniti hanno obbedito.
Dopo il fallimento della missione mediorientale di Joe Biden, le teste d'uovo di J-Street sono saltate sull'occasione per aumentare la loro pressione sopra l'amministrazione e il Congresso. In particolare, hanno promosso una raccolta di firme in calce a un documento dove si afferma che «soltanto un amico può dire la verità più scomoda», e dove si invita il governo Obama a trasformare l'attuale crisi diplomatica in un'opportunità per lavorare concretamente alla soluzione dei "due stati" in Palestina: lo stato ebraico, che già c'è, e lo stato palestinese, cui finora Israele ha vietato di esistere.
Naturalmente, non basteranno certo le 18mila firme raccolte in pochi giorni da J-Street per modificare una dinamica- quella dell'arrendevolezza americana verso Israele - che si è consolidata nei decenni al punto da sembrare un fossile. Eppure, la crescente mobilitazione dell' intellighenzia ebraica liberal potrebbe esercitare, nel prossimo futuro, un'influenza effettiva sopra Obama e la sua amministrazione: magari attraverso "facilitatori" come il senior advisor del presidente,David Axelrod, altrettanto legato alle proprie origini ebraiche che indignato per l'affronto subìto da Biden durante la visita in Israele.
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