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Il Giornale - La Stampa - Informazione Corretta - Il Sole 24 Ore - La Repubblica Rassegna Stampa
17.03.2010 La politica contro Netanyahu di Obama non è approvata dal Congresso e danneggia Israele
Commenti di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Deborah Fait, Mark Perry, Lucio Caracciolo

Testata:Il Giornale - La Stampa - Informazione Corretta - Il Sole 24 Ore - La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Deborah Fait - Mark Perry - Lucio Caracciolo
Titolo: «Obama detesta Netanyahu e sta creando problemi agli israeliani - Le condizioni di Hillary a Netanyahu - 3700 anni - Duello all'ombra tra Obama e Israele»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 17/03/2010, a pag. 15, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Obama detesta Netanyahu e sta creando problemi agli israeliani ". Dalla STAMPA, a pag. 12, la breve di Maurizio Molinari dal titolo " Le condizioni di Hillary a Netanyahu ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 16, l'articolo di Mark Perry dal titolo " Duello all'ombra tra Obama e Israele ", preceduto dal nostro commento. Da REPUBBLICA, a pag. 1-32, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo " Il muro Netanyahu " preceduto dal nostro commento. Pubblichiamo il commento di Deborah Fait dal titolo " 3700 anni ". Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Obama detesta Netanyahu e sta creando problemi agli israeliani "


Fiamma Nirenstein

L’ha spiegato molto bene il consigliere diplomatico che gestì la crisi fra Rabin e gli Usa nel 1975: «Gli Stati Uniti non devono mai creare una situazione in cui Israele si senta abbandonata: questo infatti incoraggia lo spirito bellicista della parte avversa e l’inflessibilità israeliana. Se gli Usa vogliono far avanzare il processo di pace, non devono mettere Israele in un angolo chiamando Ramat Shlomo “insediamento”. Ciò che occorre da ogni parte è una costruttiva ambiguità». Ed era quanto si era avuto fino ad oggi, con lo stop alle costruzioni nel West Bank per dieci mesi e la ripresa dei rapporti fra le parti tramite interposta persona. Poi, Obama ha protestato duramente su un accordo mai fatto, per il quale secondo lui Israele non dovrebbe più costruire a Gerusalemme est prima che sia stato fatto nessun accordo. Ma è noto che a Gerusalemme est abitano da sempre decine di migliaia di ebrei insieme agli arabi, e nessuno ha mai immaginato che in vista di un accordo su Gerusalemme tale presenza potrebbe essere obliterata.
La situazione ha preso fuoco dopo che gli Usa hanno dichiarato «un oltraggio» il fatto che sia stata annunciata martedì la costruzione di 1600 unità abitative nel quartiere di Ramat Shlomo: allora cavalcando la scusa di una ipotetica aggressività israeliana nei confronti di Gerusalemme, i palestinesi hanno dato il via a scontri che potrebbero portare ovunque.
L’impressione è che Obama, che non ha mai avuto simpatia per Netanyahu, lo aspettasse all’angolo di un errore da rimarcare per allontanare la politica americana da quella israeliana. Ma se era legittimo da parte dell’amministrazione americana rimarcare lo scarso tempismo del governo israeliano rispetto all’inizio dei colloqui che dovevano riprendere in questi giorni, dall’altra parte la veemenza della reazione è stata da molti ormai giudicata, anche negli Stati Uniti, “esagerata”. Obama non è uno specialista in Medio Oriente: il suo inchino al re saudita, il discorso al Cairo, pieno di autoaccuse, non hanno portato a nessun risultato presso l’opinione pubblica, solo alla percezione della sua debolezza. L’antiamericanismo regna sovrano nel mondo musulmano. La benevolenza verso la Siria con l’apertura di un’ambasciata a Damasco ha portato a un ulteriore coinvolgimento di Bashar Assad con Ahmadinejad, la sua mano tesa verso l’Iran ha portato all’avvicinarsi del rischio atomico mentre, indisturbato, il regime degli ayatollah ha riempito di missili (tramite la Siria) gli hezbollah, che ora possono arrivare a colpire Tel Aviv, e ha preparato all’attacco Hamas.
Adesso la reazione di Hillary Clinton («un insulto - ha detto alla Cnn - di cui Netanyahu è responsabile») al piano per Ramat Shlomo, un sobborgo di Gerusalemme est piazzato nel cuore di vecchi quartieri ebraici, ha portato a due conseguenze: lo scaldarsi della piazza palestinese, eccitata dal sostegno americano e quindi mobilitata su tutta Gerusalemme in termini religiosi; e da parte israeliana a una rinvigorita decisione da parte di Netanyahu di non cessare di costruire «come ha fatto - ha detto Bibi - ogni primo ministro israeliano».
Ricapitoliamo i termini della questione. Dal 1993, con l’accordo di Oslo, Israele e i palestinesi aprirono le trattative su tutta la questione territoriale: non fu mai messo in discussione se dovesse continuare o meno a costruire dentro gli insediamenti. I negoziati non se ne occupavano, puntavano a trovare una soluzione generale nel West Bank e a Gerusalemme. Lo stesso è accaduto durante i negoziati fra Olmert e Abu Mazen. Ambedue i negoziati, fra Barak e Arafat e fra Olmert e Abu Mazen, per la cronaca, hanno parlato di Ramat Shlomo come di una zona di Gerusalemme che potrebbe, una volta raggiunto un accordo generale per due capitali, restare a Israele. Quando più avanti, allo scopo di riprendere i negoziati interrotti con la guerra di Gaza, Obama chiese a Netanyahu di cessare dal costruire anche dentro gli insediamenti, Bibi indisse il freezing per dieci mesi nei Territori, ma non a Gerusalemme: gli americani lodarono tuttavia l’iniziativa che definirono un gesto di buona volontà verso la pace.

Ed eccoci all’oggi: Abu Mazen aveva accettato la ripresa dei colloqui. Ma ecco che Obama gli porge di nuovo un ramo altissimo su cui asserragliarsi. E non calcola, forse, che quando si dice Gerusalemme si rischia di dare fuoco a tutta l’area, e di mettere Fatah nelle fauci dei movimenti islamisti che puntano alla distruzione di Israele e non a un processo di pace. Gli scontri che hanno luogo in queste ore nascono dal movimento islamista degli arabi israeliani e da Hamas congiuntamente, ma anche il primo ministro Fayyad ha invitato i palestinesi ad andare a difendere la moschea di Al Aqsa come se Israele volesse occuparla, cosa lontanissima dalla realtà.
Lo spunto è stata l’inaugurazione lunedì dentro il quartiere ebraico della Città Vecchia dell’antica Sinagoga della Hurva restaurata. Hurva, si chiama così, «rovine», perché gli arabi l’avevano già distrutta due volte. Adesso gli ebrei hanno fatto gran festa inaugurandola, ma ciò è avvenuto solo nella piazza ebraica che la ospita fin dal 1700, secondo tutte le mappe che delimitano lo status quo. Non importa: adesso i movimenti islamisti sostengono a spada tratta, nel mentre i giovani vengono invitati in piazza per difendere la Moschea di Al Aqsa che non c’entra nulla, che gli ebrei la minacciano. E si torna a sentire risuonare il mito a suo tempo genialmente inventato dal Mufti filo nazista Haj Amin Al Husseini e poi ripreso da Arafat, che gli ebrei si sono inventati tutto, che il loro plurimillenario legame con Gerusalemme è un’invenzione, insomma, in una parola, che la storia e anche la Bibbia sono un’opinione. Sbagliata, naturalmente.
www.fiammanirenstein.com

INFORMAZIONE CORRETTA - Deborah Fait : " 3700 anni "


Deborah Fait

Chi si annoia venga  pure in Israele, qui non c'e' nessun pericolo che accada anzi non sai piu' dove metter le mani tante sono ogni  giorno le notizie nuove e importanti. Alla fine ti metti le mani fra i capelli e cerchi di giostrarti alla meno peggio.
La notizia  piu' bella sono le 500 pagine di rapporto israeliano in risposta all'innaccurato e partigiano rapporto Goldstone.
Cinquecento pagine in cui si racconta con prove e fotografie che hamas, durante la guerra dell'anno scorso, aveva occupato 100 moschee adibendole a basi militari stracolme di esplosivo, armi, missili e su questa Santabarbara i fedeli musulmani pregavano, tanto se saltavano per aria era molto facile dare la colpa a Israele, tutti gli avrebbero creduto e sarebbero partite le maledizioni contro di noi.
Oltre alle moschee  anche 10 ospedali , compreso il famoso Shifa, avevano sotto al letto dei pazienti armi e esplosivo. I magazzini  erano pieni e strapieni e tutti i rifugi di Gaza erano stati requisiti da hamas perche' i coraggiosissimi capoccia potessero nascondersi  e per riempire anche questi di armi.
Poi la gente, ignara, dice "poveri palestinesi, non potevano nascondersi da nessuna parte, Israele maledetto!"
Israele mandava milioni di biglietti, faceva centinaia di migliaia di telefonate "mettetevi in salvo" e hamas li prendeva a calcioni se tentavano di entrare nei rifugi.
Come mai questo occidente del cavolo, che ormai conosce le cose, non se la prende mai con i palestinesi e sempre con Israele?
Domanda inutile che non aspetta risposta.
 
I palestinesi sono maestri nel fare  giochetti infami e incolpare Israele, sicuri di essere creduti perche' le persone normali non possono pensare che della gente sia  cosi' perfida con il suo stesso popolo.
Nessuna  persona normale potrebbe immaginare tanta crudelta' quindi  dare la colpa a Israele   toglie le castange dal fuoco e semplifica il problema: Israele e' colpevole sempre, una volta di piu' non fa niente.
Oltre al rapporto israeliano di risposta a Goldstone che ci ha riempiti di soddisfazione, oggi viviamo a Gerusalemme la "Giornata della rabbia".
Ve la racconto?
Allora esisteva a Gerusalemme un' antica sinagoga risalente al 1701, tale sinagoga  chiamata Hurva, fu distrutta tre volte, la terza e ultima nel 1948 dai giordani che la rasero al suolo.
Ieri e' stata inaugurata, dopo 10 anni di lavori di restauro, in tutto il suo splendore.
Bello no? Una cosa degna di nota restaurare antichi monumenti e opere d'arte. In qualsiasi paese dell'occidente ci sarebbero state lodi sperticate per un simile lavoro. Non qui, qui siamo a Gerusalemme dove gli ebrei non possono nemmeno mettere la cuccia del cane in giardino senza che gli arabi non si mettano a urlare che gli rubiamo la terra.
E qui, a Gerusalemme, infatti, gli arabi hanno dato libero sfogo a tutta la loro creativita', inventando una giornata della rabbia e facendo una piccola intifada che potrebbe pero' allargarsi.
Di questo dovremo dire grazie a mr. Obama che sta facendo un gran casino per  il progetto , risalente a tre anni fa, delle case nel quartiere ebraico di Gerusalemme.
Tre anni , dove erano Obama, Biden e la Clinton? Sulla luna che non sapevano niente?
Tre anni!
Biden, dietro suggerimentio di Obama, e' arrivato addirttura a dire che Israele mette in pericolo la vita dei soldati americani in Pakistan, Afghanistan e Iraq.
Questa e' una cosa gravissima da dire perche' ha il chiaro intento di cancellare nel popolo americano la simpatia innata per Israele e potrebbe provocare un nuova serie di violenze contro gli ebrei in tutto il mondo.
Qui in Israele e nei territori il comportamente di Obama sta dando ai palestinesi la sicurezza che possono fare qualsiasi tipo di violenza, giustificati...."Se Obama  ce l'ha con Israele noi siamo piu' forti".
Hilary Clinton ha detto a Bibi di essere offesa perche' Israele costruisce case.
Offesa?
Mannaggia, offesa!
Addirittura!
E perche'?
Mica le facciamo a Washington le case, le costruiamo a Gerusalemme, Capitale nostra.
Si sono mai sentiti offesi i Clinton e gli Obama per la violenza contro Israele che i palestinesi insegnano ai bambini?
Si sono sentiti offesi dal rifiuto di Abu Mazen di togliere dalla karta palestinese il comma  che  chiama alla distruzione di israele?
Si sono sentiti offesi per come i palestinesi trattano il loro stesso popolo e quando si ammazzano fra loro?
Si sono mai sentiti offesi quando buttano dai tetti dei palazzi i palestinesi di correnti opposte?
E si sono sentiti offesi quando, domenica scorsa, l'Autorita' Palestinerse ha dedicato una piazza di Ramallah a una terrorista che nel 1978 provoco' un massacro ammazzando 37 israeliani  che viaggiavano su un autobus lungo la costa, 1 americano e 70 feriti gravi.
Hillary Clinton , in quanto donna, non si e' sentita offesa?
Una piazza a una terrorista , il giorno dopo la visita di Biden e Hilary non si offende?
Come mai?
Eppure si offendono se Israele costruisce case.Case, non bombe nucleari, CA-SE.
Scandaloso e disgustoso.
Ci aspettavamo tempi duri con l'amministrazione Obama, la sua cultura non prometteva nulla di buono, i suoi viaggi nei paesi arabi , disposto anche ad essere trattato a pesci in faccia pur di dire loro che lui era un amico, andare in Egitto e mandare in Israele il suo vice.
I tempi duri sono arrivati ma come disse Begin a Carter, grande presidente antisemita o grande antisemita presidente,  che minacciava di "punire" Israele  se non obbediva ai suoi ordini :
 
" Che tipo di espressione e' questa? Punire Israele? Siamo forse uno stato vassallo? Siamo una repubblica delle Banane? Il popolo di Israele ha vissuto 3700 anni senza gli americani e continuera' a vivere altri 3700 anni" .
 
Ci pensi Obama, 3700 anni, lui al confronto e' un piccolo uomo.

Il SOLE 24 ORE - Mark Perry : " Duello all'ombra tra Obama e Israele "

Mark Perry sarà pure "giornalista e saggista", come lo presenta IlSole24Ore, e autore di un libro intitolato "Parlare con i terroristi", ma avrebbe bisogno di un editing piuttosto severo. Un articolo così lungo e confuso per dire in sostanza che Israele deve arrendersi ai suoi nemici altrimenti i terroristi fondamentalisti islamici continueranno ad uccidere soldati americani in Pakistan e Afghanistan. Una tesi tanto strampalata che non crediamo sia nemmeno venuta in menta nemmeno a Barack Obama. Il quale deve però fare attenzione non solo a come si governano le cose dalla Casa Bianca, ma sarà il caso che porga l'orecchio per capire come la pensano i rapprentanti del popolo americano, Repubblicani e Democratici, eletti al Congresso, che non sono affatto d'accordo con la linea Obama-Biden-Clinton per quanto riguarda la politica nei confronti di Israele. Il rischio di Obama è quello di perdere di vista persino l'America, anche quella che l'aveva votato.
Si veda il pezzo successivo di Maurizio Molinari sulla STAMPA, l'unico a d aver segnalato la frattura tra Congresso e Casa Bianca.

Il 16 gennaio, due giorni dopo il terribile terremoto che ha portato devastazione e morte ad Haiti, un gruppo di alti esponenti militari del Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom), responsabile della sicurezza americana in Medio Oriente, arrivava al Pentagono per riferire al Capo di stato maggiore, ammiraglio Michael Mullen, sulla situazione del conflitto israelo-palestinese.
Il team era stato espressamente inviato dal comandante del Centcom, generale David Petraeus, per rendere note le sue crescenti preoccupazioni relative al mancato progresso nella risoluzione del conflitto. La relazione in Power Point – 33 diapositive per una durata di 45 minuti – lasciava sbigottito Mullen.
Dal rapporto emergeva infatti che tra i leader arabi è crescente la sensazione che gli Stati Uniti siano del tutto incapaci di opporsi a Israele, che la componente araba del Centcom ha perso fiducia nelle promesse americane; che l'intransigenza d'Israele nel conflitto israelo-palestinese ha danneggiato e compromesso l'autorevolezza degli Stati Uniti nella regione e che lo stesso George Mitchell (l'emissario statunitense per il Medio Oriente, ndr ) era - come ha riferito senza mezzi termini più tardi anche una fonte di alto grado del Pentagono- «troppo vecchio, troppo lento, troppo in ritardo».
Un fatto inedito
Il rapporto fatto a Mullen a gennaio non ha precedente alcuno: nessun comandante del Centcom, in passato, si è mai espresso in relazione a quella che, in fondo, è una questione politica. Ecco perché i suoi interlocutori sono stati cauti nel riferirgli che le loro conclusioni si basavano su una visita nella regione effettuata nel dicembre 2009, nel corso della quale – su precise direttive di Petraeus – hanno conferito con leader arabi di alto livello.
«Ovunque andassero, le notizie erano alquanto umilianti », ha riferito una fonte anonima del Pentagono a conoscenza del rapporto. «Non soltanto l'America è considerata debole, ma oltretutto la sua potenza militare nella regione è messa in dubbio e vista come logora ». Ma c'è ancora dell'altro: due giorni dopo il briefing a Mullen, Petraeus ha spedito un documento alla Casa Bianca chiedendo che Cisgiordania e Gaza (che insieme a Israele sono di competenza dell'Eucom, European Command) siano annesse alla sua area operativa. La spiegazione addotta da Petraeus non lascia adito a dubbi: con le truppe statunitensi dispiegate in Iraq e in Afghanistan, l'esercito statunitense deve essere considerato dai leader arabi impegnato anche in quella regione così travagliata.
Su quest'ultimo episodio, una fonte militare di alto grado ha smentito che Petraeus abbia fatto pervenire un documento alla Casa Bianca. Con una e-mail a me indirizzata, è stato precisato che «un team di Centcom ha sì ragguagliato il capo di stato maggiore in relazione alle preoccupazioni che emergono per la questione palestinese, e Centcom ha suggerito alcuni cambiamenti, ma lo ha fatto al capo di stato maggiore e non alla Casa Bianca. Il generale Petraeus non sa con certezza quali parti del rapporto inviato allo stato maggiore possano essere poi arrivate alla Casa Bianca».
In ogni caso, il rapporto a Mullen e la richiesta di Petraeus hanno avuto sulla Casa Bianca l'effetto di una bomba. Se la richiesta di Petraeus di estendere alla Palestina le competenze del Centcom è stata respinta («era già lettera morta ancora prima di arrivare », conferma un funzionario del Pentagono), l'amministrazione Obama ha deciso di raddoppiare i suoi sforzi nella regione, esercitando pressioni ancora una volta su Israele per la questione degli insediamenti, inviando Mitchell in visita in varie capitali arabe e spedendo Mullen a un incontro meticolosamente programmato con il capo di stato maggiore israeliano,il generale di corpo d'armata Gabi Ashkenazi.
Mentre la stampa americana congetturava che la visita di Mullen riguardasse l'Iran, di fatto il capo di stato maggiore ha trasmesso un messaggio secco e inequivocabile sul conflitto israelo-palestinese: Israele deve considerare il conflitto con i palestinesi in un «ambito più ampio, a livello regionale», suscettibile quindi di avere un impatto diretto sulla posizione dell'America nella regione. Si credeva che Israele avrebbe sicuramente afferrato il messaggio.
Invece non è andata così: Israele non lo ha fatto.Di fronte all'annuncio da parte israeliana che il governo di Netanyahu avrebbe costruito 1.600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est, il vice presidente Joe Biden si è sentito fortemente a disagio e l'amministrazione Usa ha reagito. Nessuno è rimasto maggiormente indignato dello stesso Biden che, secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, nel corso di un colloquio riservato si è lanciato in una discussione aspra e piena di collera con il primo ministro israeliano.
Interessi a rischio
Non deve stupire pertanto ciò che Biden ha riferito a Netanyahu e che riflette l'importanza che l'amministrazione Usa ha attribuito al briefing di Petraeus a Mullen: «La situazione sta iniziando a farsi pericolosa per noi. Ciò che fate voi israeliani mette a repentaglio la sicurezza delle nostre truppe che combattono in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Mette in pericolo noi e la pace nella regione».
Yedioth Ahronoth ha anche riferito: «Il vice presidente ha comunicato ai suoi ospiti israeliani che – tenuto conto che molti tra i musulmani instaurerebbero un collegamento diretto tra l'operato di Israele e la politica statunitense – qualsiasi decisione di costruire nuovi insediamenti che leda i diritti dei palestinesi di Gerusalemme Est potrebbe avere un impatto diretto sulla sicurezza individuale dei soldati americani che stanno lottando contro il terrorismo islamico ». Il messaggio, insomma, non poteva essere più chiaro: l'intransigenza di Israele potrebbe costare vite all'America.
In America vi sono lobby importanti e potenti, come l'Nra (National Rifle Association); l'American Medical Association; quella degli avvocati, e poi la lobby israeliana. Nessuna di queste, però, è importante, potente o anche solo paragonabile all'esercito degli Stati Uniti.
Mentre i commentatori riflettono sul fatto che la visita di Joe Biden in Israele è il segno di qualcosa che ha cambiato una volta per tutte i rapporti dell'America con il suo alleato principale nella regione, la vera spaccatura è avvenuta a gennaio, quando David Petraeus ha inviato un gruppo di suoi interlocutori al Pentagono con un irremovibile avvertimento: i rapporti dell'America con Israele sono sì importanti, ma non quanto le vite dei soldati americani. Forse, adesso, Israele avrà afferrato il concetto.
Mark Perry è giornalista e saggista. Il suo ultimo libro s'intitola Talking To Terrorists (Basic Books)

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Le condizioni di Hillary a Netanyahu "


Maurizio Molinari

L’inviato Usa George Mitchell rinvia la partenza per il Medio Oriente in attesa di ricevere da Israele, entro martedì, le risposte alle tre richieste avanzate dal Segretario di Stato Hillary Clinton: la cancellazione del progetto di costruire 1600 nuove case a Gerusalemme Est; l’invio di un «segnale consistente ai palestinesi»; l’assenso a discutere «anche di Gerusalemme» nei negoziati. L’annullamento della partenza di Mitchell ha fatto scattare un’intensa fase di consultazioni Usa-Israele che potrebbe portare a colloqui fra Hillary e Netanyahu quando il premier israeliano arriverà a Washington, domenica prossima. Hillary nega l’esistenza di una «crisi fra alleati» ma ribadisce che «Israele deve dimostrare di volere la pace». A premere per un superamento delle tensioni è il Congresso, dove democratici e repubblicani hanno criticato la Casa Bianca per i toni usati contro Israele.

La REPUBBLICA - Antonio Caracciolo : " Il muro Netanyahu "

 L'analisi di Lucio Caracciolo, pur sottacendo ogni critica alla parte palestinese, secondo la linea di REPUBBLICA, non può fare a meno di constatare le difficoltà dell'Amministrazione americana nei confronti delle ragioni di Israele. Che Caracciolo ovviamente non condivide. Sbaglia anche ad elencare i nemici dell'Stato ebraico, senza accorgersi di quanti invece non lo sono affatto. Gli è sfuggito, grave per un supposto esperto di cose americane, la vicinanza bipartisan del Congresso americano, dove Repubblicani e Democratici si sono dichiarati apertamente contro l'ostilità della Casa Bianca contro Israele. Se una crisi nei rapporti Israele-Usa c'è, ed è indubbio che ci sia, non coinvolge il popolo americano, che continua, attraverso i suoi rappresentanti al Congresso, a stare dalla parte di Israele.


Lucio Caracciolo

Nel giro di pochi mesi, Israele ha rotto con il suo fondamentale partner regionale, la Turchia, e ha sfidato il suo unico alleato globale, gli Stati Uniti d´America. Follia? Masochismo? Non proprio. C´è del metodo in queste crisi. E c´è una logica nel modo in cui Israele le conduce.
Il metodo e la logica sono quelle dominanti in ogni democrazia: prima il consenso di chi vota, poi tutto il resto. Nel caso turco, per un Paese che si sente minacciato di distruzione dall´Iran, lo slittamento di Ankara verso il campo islamista è intollerabile. Erdogan è considerato un traditore dell´intesa turco-israeliana, un sodale di Hamas e di Ahmadinejad. Tornare all´asse costruito negli anni Novanta su impulso dei due establishment militari, uniti dall´avversione per l´islamismo e per i velleitarismi arabi, è fuori questione.
Ma anche nella crisi con gli Stati Uniti, Netanyahu può contare sul consenso di gran parte della società israeliana. Su Gerusalemme non si discute. E un vero Stato palestinese non ci sarà mai. Solo che finora questo dissidio strategico fra Washington e Gerusalemme era coperto dalla diplomazia. Ora non più.
Obama è visto da molti israeliani come un cripto-musulmano. Più attento a guadagnarsi le simpatie del mondo islamico, a corteggiare gli ex "Stati canaglia", dall´Iran alla Siria, che a proteggere l´esistenza dello Stato ebraico. Netanyahu è convinto che alla Casa Bianca si stia complottando per provocare la caduta del suo governo, in favore di un gabinetto centrista, sperabilmente più aperto al negoziato con gli arabi e meno ossessionato dall´Iran.
Ipotesi molto teorica. Con l´opinione pubblica israeliana orientata a non cedere un palmo ai palestinesi, specie dopo che Hamas s´è installato a Gaza, è impensabile per qualsiasi leader israeliano impedire la costruzione di nuove case a Gerusalemme Est. Sarà pur vero che Benjamin Netanyahu non sapeva del piano del suo ministro dell´Interno, Eli Yishai, di edificare 1.600 abitazioni nella parte orientale di quella che Israele considera la sua capitale eterna e indivisibile. Ma anche se lo avesse saputo non lo avrebbe impedito. Al massimo, avrebbe rinviato l´annuncio di qualche giorno, per non provocare il suo ospite americano, Joe Biden.
È possibile, anzi probabile, che nel medio periodo Israele paghi caro la sua intransigenza nei confronti dei pochi amici di cui ancora dispone. Ma fra i dirigenti dello Stato ebraico prevale lo sguardo corto, il tatticismo. Forse perché sentono che immaginando scenari futuri, scoprirebbero che il tempo non lavora per Israele. Meglio restare alla stretta attualità. Per sentirsi tuttora la massima potenza regionale. L´unica nucleare – almeno finché Teheran non avrà la Bomba.
Se Obama si sbarazzerebbe volentieri di Netanyahu, nessuno dubita che l´impulso sia ricambiato. E la grave perdita di consenso del presidente americano, a pochi mesi dalle elezioni di mezzo termine, induce il leader israeliano ad affrontare il braccio di ferro con relativa serenità. Forte del consenso domestico e della debolezza interna e internazionale di Obama. Al quale si rimprovera di aver enfatizzato lo sgarbo a Biden, provocando secondo Michael Oren, ambasciatore di Gerusalemme a Washington, «la più grave crisi da 35 anni nei rapporti Israele-Usa». Il riferimento è allo scontro del marzo 1975 fra Kissinger e Rabin sul ritiro delle truppe israeliane dai passi di Jidda e Mitla, nel Sinai. Il primo, americano di origine bavarese ma ben consapevole delle sue radici ebraiche, avvertì il premier israeliano: «Tu sarai responsabile della distruzione del terzo commonwealth ebraico». «Tu non sarai giudicato dalla storia americana, ma dalla storia ebraica», replicò Rabin. Sei mesi dopo, Israele cedeva alle pressioni Usa.
È molto improbabile che nella crisi attuale Netanyahu possa innestare la marcia indietro. L´incidente verrà formalmente archiviato, prima o poi. Forse già domenica, quando Netanyahu andrà a Washington – sapendo che Obama non ci sarà perché in missione in Indonesia e Australia – per perorare la sua causa davanti all´Aipac, la principale lobby pro-israeliana negli Usa. Ma anche se scambierà sorrisi e strette di mano con Biden e Hillary Clinton, il contrasto strategico è destinato a restare.
Allo stato attuale del match, Obama è il perdente. Sembra passato un secolo – invece nemmeno un anno – da quando prometteva una nuova èra di dialogo con i musulmani e di pace in Medio Oriente, con ostentati inchini alla civiltà islamica e al contributo della cultura araba al progresso umano. Il "nuovo inizio" non è mai iniziato. Le distanze fra Israele e i palestinesi sono aumentate. La diffidenza reciproca è insormontabile. Obama ha scoperto che l´America non può fare la differenza, perché in Terrasanta la stagione dei miracoli pare scaduta. Non si può imporre la pace a chi non la vuole. O fa finta di volerla, ma non ci crede.
Obama non è il primo presidente americano a sbattere contro il muro Netanyahu. Quando Bill Clinton lo ricevette alla Casa Bianca, stanco della lezioncina inflittagli dall´amico israeliano, sbottò: «Chi è la superpotenza qui?». Se Obama osasse ripeterlo a Netanyahu oggi, probabilmente incontrerebbe un sorriso di commiserazione. Perché fra amici gli incidenti si superano, i danni si riparano. Ma ormai gli Stati Uniti non fanno più paura a nessuno. Nemmeno allo Stato che rischierebbe di essere spazzato via se non fosse per la protezione strategica americana.
Americani e israeliani sono una vecchia coppia. Continueranno a frequentare lo stesso letto, pur sognando sogni diversi. Ma senza un´intesa fra Washington e Gerusalemme i mille dossier mediorientali non potranno trovare soluzione. Anzi, si aggraveranno. Incoraggiando gli estremisti, eccitando i fanatici. In Israele come fra gli arabi e i musulmani. Dall´Egitto all´Iraq, dall´Iran all´Afghanistan, lo stallo del motore israelo-americano intaccherà le posizioni di entrambi.
L´ultimo degli scenari immaginati da Obama quando lanciò il suo "nuovo inizio" era di approfondire la crisi israelo-palestinese. La Terza Intifada, se mai scoppierà, si distinguerà per il marchio religioso. Ce lo annunciano gli incidenti di ieri nella Città Vecchia di Gerusalemme, che hanno suscitato emozione e rabbia nell´universo islamico. Il fallimento di venti anni di "processo di pace" ha trasformato la disputa fra nazioni in conflitto di religioni. Qui non c´è spazio per compromessi, perché la Verità non ne tollera.
Nella battaglia per Gerusalemme – tutta ebraica o tutta musulmana (con i quattro gatti cristiani arabi a rischio di diaspora o sterminio) – ogni vittoria sarà effimera, premessa di rancori e rivincite interminabili. Riportare indietro l´orologio della storia, e ricondurre lo scontro nei classici canoni dei nazionalismi, è esercizio futile. Anche per il presidente della "superpotenza unica", mai così impotente nella regione e nel mondo. Forse anche gli antiamericani più sfrenati vorranno interrogarsi sui danni che la crisi dell´egemonia a stelle e strisce può provocare, quando nessuno sa come riempire il vuoto scavato dalla beata incoscienza di chi, vent´anni fa, s´illudeva che la storia fosse finita. Con il suo apparente trionfo.

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