Quelli che non dormivano Jacqueline Mesnil-Amar
Prefazione di Pierre Assouline
Traduzione di Claudia Marinelli
Guanda Euro 15
In una delle rarissime interviste, poco prima di morire, Jacqueline Mesnil-Amar (pseudonimo di Jacqueline Perquel, Parigi 1909-1987) disse che nella sua famiglia di israeliti francesi da decenni totalmente assimilati si era trovata a vivere tra “ebrei dell’oblio” ma aggiunse che, paradossalmente, i nazisti avevano semplificato le cose costringendo coloro i quali erano “vestiti da Francesi a morire nudi, cioè da ebrei”: qualcosa di simile aveva pensato Primo Levi, di formazione laica e illuminista, varcando il cancello di Auschwitz.
Non è la sola analogia fra uno dei massimi scrittori del secolo e la ragazza firmataria di un solo libro, “Quelli che non dormivano. Diario 1944-1946”, scampata per caso alla Shoah, nel dopoguerra redattrice di un bollettino di ex deportati e subito rientrata nell’ombra di una carriera da insegnante e ricercatrice: “Se questo è un uomo” attese dieci anni prima di transitare dal limbo delle plaquettes all’ufficialità della collana arancio dei “Saggi” einaudiani (’58), viceversa al Diario di Jacqueline ne sono occorsi non meno di cinquanta per la ripubblicazione, nonostante fosse uscito nel ’57 nelle celeberrime Editions de Minuit, il marchio ufficiale della Resistenza.
Libera da impronte ideologiche, la voce rediviva di Jacqueline riesce ancora a trasmettere la vivacità delle impressioni catturate in presa diretta, con una limpidezza stilistica, quasi una stenografia dei sentimenti, che il tempo ha mantenuta intatta. Epicentro del Diario è Parigi nell’estate del ’44, tra l’agonia del regime di Occupazione, terrore e borsa nera, e il fervore della città clandestina, sabotaggi e attentati, prima che esploda all’aperto il 25 agosto con l’annuncio del generale Leclerc agli insorti sulle barricate, “tenez bon, nous arrivons”. La Liberazione, per Jacqueline, ha un duplice significato, tuttavia: è la fine del giogo nazista come dell’infamia di Vichy, ma è la data, soprattutto, del ritorno a casa dell’uomo che ama da sempre, suo marito André Amar, ebreo e partigiano in armi, preso in una retata e già avviato ad Auschwitz, evaso dall’ultimo convoglio partito il 17 agosto dal binario 4 di Drancy, la Fossoli parigina: “Perché le grandi gioie sono così tristi? Perché sto piangendo?”.
La giovane donna che sta riabbracciando il suo uomo non sa nulla in quel momento del proprio futuro ma sa di avere alle spalle la catastrofe della sua giovinezza. Jacqueline è rampolla dell’alta borghesia ed è stata allevata nei licei della Terza repubblica, detta anche la Repubblica dei professori: una sobria agiatezza borghese, la quiete dell’appartamento nel XVI arrondissement, il culto esclusivo dell’arte e della scienza, l’assoluta rimozione dell’Affaire Dreyfus dal proprio orizzonte domestico, l’hanno via via narcotizzata e disarmata davanti alla disfatta. Non può affatto saperlo ma qualcosa di lei rivivrà nel personaggio di Micol ne “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani o, meglio, nel volto stupendo e raggelato di Dominique Sanda che la interpreta nell’omonimo film di Vittorio De Sica. Perciò il Diario, prima che una fonte storica da leggersi a contrasto con la memorialistica maggiore (vedi le pagine di Léautaud, dell’abate Mugnier, dell’ineffabile nazista Ernst Junger), è il referto di una rapida e squassante metamorfosi, la stessa in cui si sovrappongono e configgono le vecchie immagini della jeunesse dorée e i più crudi fotogrammi di terrore e di derelizione, vale a dire un passato da giovinetta in fiore e il presente da paria messa a nudo, nient’altro che un’ebrea.
E’ qui che lei si riconosce come essere umano senza più possibili aggettivi ed è qui che infatti il Diario si interrompe: avrà decenni, Jacqueline, per studiare in silenzio “la legge misteriosa del contagio dell’ingiustizia e della barbarie”.
Massimo Raffaeli
Tuttolibri – La Stampa