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Il Foglio Rassegna Stampa
13.03.2010 Terzo Reich, banche svizzere, nel racconto di Andrea Affaticati
La storia con la s minuscola, ma non meno interessante

Testata: Il Foglio
Data: 13 marzo 2010
Pagina: 4
Autore: Andrea Affaticati
Titolo: «Il signore dei segreti»

"Il signore dei segreti" è il titolo del pezzo di Andrea Affaticati sul FOGLIO di oggi, 13/03/2010 a pag.IV. Una lettura del sabato, una storia fra le pieghe di quella con la S maiuscola. Non meno interesante.

E’stata una scaltra campagna mediatica a trasformare questa leggenda in mito. La leggenda sostiene che il segreto bancario sia nato per sottrarre e proteggere i patrimoni degli ebrei dai nazisti. A fondare il mito è stata nel 1966 la Kreditanstalt svizzera. Oggi si sa però che tutto questo è falso”. Titolo e sommario farebbero pensare a una perfida azione tedesca, magari della Bild, che in questi giorni non le manda a dire ai greci, e in passato non è stata proprio tenera con gli svizzeri. Oppure della Frankfurter Rundschau che in febbraio, commentando l’ira degli elvetici per l’intenzione del governo tedesco di acquistare un altro Cd pieno di nomi di evasori, faceva notare velenosamente: “Come si rileva da un recente studio dell’Univeristà di Zurigo, il 72 per cento degli svizzeri sono per il mantenimento del segreto bancario. Non intendono abbandonarlo, fa parte del loro patrimonio cultural-nazionale, esattamente come il Matterhorn e il formaggio gruviera”. Solo che l’articolo che sbugiarda il mito e ricostruisce minuziosamente come sia stato creato, è uscito il 12 febbraio scorso sul TagesAnzeiger, uno dei maggiori quotidiani elvetici. La storia raccontata dal quotidiano è la seguente: nel novembre del 1966 la Schweizer Kreditanstalt, oggi Credit Suisse, pubblicava sul proprio bollettino interno un saggio titolato asetticamente: “Storia del segreto bancario svizzero”. Meno asettico il contenuto. L’autore, protetto dall’anonimato, spiegava infatti che la funzione di questo strumento è stata da sempre volta a sottrarre alle grinfie di dittatori avidi e sanguinosi, capitali e patrimoni di inermi cittadini. “Ed è proprio per contrastare la caccia dei nazisti ai soldi degli ebrei, che nel 1934 la Confederazione trasforma in legge quello che fino ad allora rientrava nel diritto consuetudinario, rendendo così penalmente perseguibile chi pensava di infrangerla”. E’ in questo modo, spiega il TagesAnzeiger, che i banchieri svizzeri – nel frattempo una spina nel fianco per tutti i ministri delle Finanze del mondo – hanno trasformato uno strumento puramente finanziario in una sorta di vessillo per la difesa dei diritti umani. Tesi che riescono a difendere per decenni anche a livello internazionale, e che crolla solo quando, a metà anni Novanta, scoppia lo scandalo della refurtiva nazista e dei patrimoni degli ebrei, tutt’ora nascosti nelle banche elvetiche. Curiosamente, né l’articolo del bollettino, né quello del TagesAnzeiger si soffermano sul padre del segreto bancario, cioè Jean-Marie Musy. Dato ancora più curioso se si ricorda che Musy fu dal 1925 al 1930 anche a capo della Confederazione elvetica. Il fatto è che il curriculum di Musy non mostra solo luci ma anche alcune ombre imbarazzanti. Meglio dunque lasciarlo riposare in pace, devono aver pensato dal Dopoguerra in poi i banchieri. Così, fino a poco tempo fa chi voleva sapere qualcosa di più dell’illustre cittadino doveva accontentarsi del sito a lui dedicato: dove si apprende del suo impegno a favore dei produttori del gruviera, dei suoi meriti in campo di riforma fiscale, e del suo eroismo nel salvare 1.200 ebrei. Poco o nulla si dice invece di alcune sue visioni politiche e amicizie scomode. I tempi però stanno cambiando, e anche parte dell’establishment elvetico così come dell’opinione pubblica, sembra disposto a guardare con occhi meno velati da miti e leggende la realtà presente e passata. E la realtà, spiegava qualche giorno fa la Televisione svizzera tedesca attraverso un grafico, è che i fondi neri conservati nei tresor ammontano a 880 milioni di franchi svizzeri provenienti principalmente da Germania (220), Italia (220) e Francia (125). Negli ultimi anni si sono poi moltiplicati i libri che parlano e spiegano le origini e le funzioni reali di questa gallina dalle uova d’oro chiamata segreto bancario, mentre ora, per completezza dell’informazione, si incomincia a far uscire dall’ombra anche Musy, il suo percorso umano e politico. A proporre una settimana fa un suo ritratto dettagliato, onesto, e privo di qualsiasi tentazione agiografica è stato il domenicale zurighese SonntagsBlick. Musy nasce nel 1876 nel cantone di Friburgo, precisamente nella regione diventata famosa per il formaggio gruviera. La sua è una famiglia benestante, i genitori sono proprietari di un albergo ad Albeuve. Lui invece studia giurisprudenza e a 35 anni viene assunto da una banca con il compito di risanarla. Esperienza che gli tornerà utile anche in futuro. Musy non ha però solo il pallino della finanza, anche la politica accende il suo interesse. La sua scelta ricade sul Partito dei conservatori cattolici dove avrà la fortuna di fare una carriera fulminea. Nel 1919 viene eletto deputato nel Parlamento nazionale, sei anni dopo, nel 1925 assume la carica più alta, quella di presidente del Parlamento e dunque (come prevede l’ordinamento elvetico) di capo di stato, carica che manterrà fino al 1930. Sarà però solo nel 1933, ormai tornato a essere semplice deputato, che presenterà la sua proposta di legge sul segreto bancario. La legge sarà approvata l’8 novembre del 1934 ed entrerà in vigore il primo marzo del 1935. Musy a quel punto non siede nemmeno più sui banchi dei deputati, vuole dedicarsi esclusivamente ai suoi poderi e alla caccia. Ma la passione politica non lo molla e torna ad accenderlo. Gli interessa soprattutto quello che sta succedendo oltre confine: segue l’ascesa dei nazisti in Germania e dei fascisti in Italia. Manifesta apertamente tutta la sua stima per Franco e decide di darsi anche lui da fare. Fonda il giornale La Jeune Suisse e finanzia il film di propaganda anticomunista “La peste rossa”. Poi si concentra sui rapporti personali: tesse relazioni soprattutto con l’entourage nazista, arrivando fino a Heinrich Himmler, con il quale intreccia rapporti particolarmente stretti. Un’amicizia che si mostrerà ben presto preziosa soprattutto per gli ebrei. Il suo primo intervento a loro favore riguarda una famiglia i cui parenti in Francia stavano per essere deportati ad Auschwitz. L’esito positivo di quella vicenda spinge, nell’estate del 1944, Isaac Sternbruch, membro dell’organizzazione ebraico-ortodossa Vaad Hatzalah, a rivolgersi al politico svizzero per un’impresa molto più ardua: portare fuori dalla Germania più ebrei possibili. Musy accetta, e inizia a viaggiare tra Berlino, Breslavia e Vienna, dove incontra Himmler e i suoi luogotenenti. Sono trattative estenuanti che richiedono grande diplomazia, molta attenzione. Come scrive il SonntagsBlick, Himmler era molto combattuto. L’architetto dello sterminio degli ebrei si rendeva conto che il sogno folle di Hitler era lì lì per naufragare. Da est avanzava l’Armata rossa, da ovest si avvicinavano gli Alleati. Il comandante in capo delle SS era combattuto tra il giuramento di lealtà al Führer e l’istinto di riuscire comunque a farla franca con gli Alleati. La proposta di Musy, un insospettabile uomo d’affari, in nessuno modo sospettabile di ideologia antinazista, diventa dunque ai suoi occhi l’ultima scappatoia possibile. Nell’ottobre del 1944, durante un ennesimo incontro a Vienna, vengono finalmente definiti i dettagli dell’accordo. Himmler chiede per la liberazione dei 500 mila ebrei ancora presenti in Germania, camion, soldi e l’assicurazione da parte di Musy che gli ebrei dalla Svizzera sarebbero emigrati in America e non in Palestina. Promessa che il Reichsführer delle SS aveva a sua volta fatto al mufti di Gerusalemme. Il 12 gennaio del 1945 si tiene un ultimo incontro segreto tra i due al termine del quale Himmler incarica dello svolgimento dell’operazione l’Obersturmbannführer Göring. Himmler si impegna a spedire ogni due settimane un convoglio di 1.200-1.300 ebrei in Svizzera. Musy in cambio deposita su un conto svizzero cinque milioni di franchi svizzeri. Denaro che ovviamente non esce dalle sue tasche, anzi per lui l’operazione prevede una ricompensa. Musy ha coinvolto nell’operazione Roswell Mc- Clelland, capo del War Refugee Board, il quale è a sua volta il referente dell’associazione dei rabbini ortodossi americani e canadesi, che materialmente hanno raccolto il denaro. Il primo convoglio di 1.200 ebrei parte da Theresienstadt il 5 febbraio del 1945. Stando ai racconti dei testimoni di allora, quando nel Lager viene data la notizia di un treno in partenza per la Svizzera e che chi vuole può salirvi, non si fa avanti nessuno. Tutti sono convinti che i nazisti li stiano ingannando, li vogliano solo far salire nei vagoni per poi spedirli da qualche parte a morire. A renderli sospettosi è anche il tono gioviale dei carcerieri che alle donne consigliano addirittura di mettersi qualcosa di carino e di dipingersi le labbra di rosso. Ma quella volta non c’è inganno, il treno, composto da diciassette vagoni, parte alle 16 dal lager e passa la frontiera svizzera a mezzanotte, portandoli tutti in salvo. E’ il primo, ma anche l’ultimo convoglio della salvezza. Himmler aveva sempre detto a Musy che Hitler era informato dell’operazione e la approvava. Ma quando i giornali svizzeri iniziano a scriverne il Führer ordina lo stop immediato e ne chiede conto a Himmler. Questi si giustifica, sottolineando che in cambio erano stati ricevuti, camion, medicinali e macchinari. Cosa muovesse Musy veramente a prestarsi a queste operazioni di salvataggio, oltre alla sua profonda avversione per tutto quello che riguardava il comunismo, non è riportato. Certo anche per lui c’era una fetta di guadagno il che, come si leggeva qualche giorno fa sulla Frankfurter Allgemeine, non può fare di Musy un angelo salvatore; anche se – e questo va ribadito – riuscì a salvare almeno 1.200 persone. Più agiografico il ritratto che si trova sul sito a lui dedicato. “Uomo animato da un profondo senso religioso e umano”, si legge. A lui la Svizzera deve l’ascesa economica: prima grazie a un drastico piano di risanamento varato nel 1919, e poi per la lungimiranza dimostrata nel 1930. Diversamente da gran parte degli altri paesi messi in ginocchio dal crollo di Wall Street, lui decise che per la Svizzera la strada dell’inflazione non era quella giusta. Optò invece per la difesa della valuta, operata attraverso una diminuzione del fatturato, la riduzione dei salari e quella dei prezzi. Per quel che riguarda il segreto bancario, sempre sul sito a lui dedicato si legge: “Fu lui la forza trainante e decisiva per questa legge che è il fondamento della stabilità economica del paese”. Il sito sorvola invece sulle sue simpatie politiche e annota concisamente: “E’ stato un profondo sentimento umano e cristiano a spingere lui e il figlio Benoît (medaglia d’oro nel bob a quattro alle Olimpiadi invernali 1936) a spendersi a favore degli ebrei chiusi nei campi di concentramento”. Poi si passa velocemente a ricordare che “Musy ebbe il coraggio di lodare durante l’apogeo dei governi totalitari il sistema statale svizzero come unico capace di garantire il rispetto dell’essere umano”. Nulla si legge invece della funzione umanitaria, che la legge sul segreto bancario, da lui formulata, doveva avere. Un mito, a dire il vero, al quale negli ultimi tempi hanno voluto credere più i politici e la lobby dei banchieri, che i cittadini. Questo almeno stando ai numerosi commenti all’articolo del 12 febbraio sul TagesAnzeiger. Certo c’è anche chi continua a credere alla funzione nobile del segreto bancario e scrive: “I nazisti davano la caccia ai patrimoni degli ebrei, come il diavolo alle anime perse. Invece noi, grazie a quella legge, siamo riusciti a mettere in salvo i loro averi. Grazie mille per questo. Manca solo che quelli di sinistra smascherino l’Olocausto come un mito e niente più”. Ma molti la pensano anche diversamente. Uno di questi scrive: “Il dato vero che manca in questo articolo è che l’origine del segreto bancario va retrodatata, cioè collocata subito dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1920 la fuga di capitali dalla Repubblica di Weimar in direzione Svizzera ammontava a 30 miliardi di franchi, cioè a quasi tre quarti del patrimonio elvetico. Insomma già allora la Svizzera pensava a come tenersi in piedi”. Un secondo commento sottolinea invece: “Andrebbe aggiunto che il segreto bancario, o meglio, la discrezione tombale per quel che riguardava i flussi di denaro provenienti dalla Germania e diretti ai nostri caveau, precedente l’emanazione della legge, ha contribuito al collasso della repubblica di Weimar, privata totalmente degli introiti fiscali dei tedeschi benestanti”. A confermare quest’ipotesi è anche Viktor Parma, giornalista e autore insieme a Werner Vontobel del libro “La Svizzera un paese canaglia?”, uscito all’inizio del 2009. In un’intervista alla svizzera Wochenzeitung, Parma ricorda che l’origine del segreto bancario risale agli anni della Prima guerra mondiale, perché già allora la Svizzera veniva inondata di capitali tedeschi. “Un flusso che aumentò poi drasticamente quando il paese si trovò a pagare le riparazioni di guerra. Allora gli imprenditori tedeschi misero in salvo i loro patrimoni in Svizzera”. Nel 1920 si trattava di circa 30 miliardi di franchi svizzeri. Ma, come racconta la Frankfurter Rundschau, probabilmente a far venire a Musy l’idea di tutelare per legge la segretezza dei rapporti con i facoltosi clienti tedeschi (e non solo) furono due eventi. Il primo riguarda la legge varata nel 1931 sotto il Reichskanzler, Heinrich Brüning, che decise di sottoporre al controllo statale il commercio delle valute, e contemporaneamente spedì in Svizzera una truppa di agenti segreti incaricati di scovare i capitali in fuga. Il secondo, giusto un anno dopo, si verifica a Parigi, dove la polizia francese scopre due banchieri svizzeri che organizzano riunioni segrete. Durante le perquisizioni, finisce in mano agli inquirenti anche un elenco di duemila facoltosi francesi, in procinto di trasferire, notte tempo e ovviamente all’insaputa del fisco, la bellezza di due milioni di franchi francesi negli assai più sicuri tresor di una banca di Basilea. La storia insomma si ripete. Come affermava nel 2005 lo storico Robert U. Vogler nel suo libro sul segreto bancario, basta con il mito: la normativa fu introdotta non per una questione umanitaria ma come reazione allo spionaggio bancario da parte degli altri paesi. Oggi Germania, Francia, Italia, sembrano non aver più bisogno degli 007, a fornire loro i dati sono impiegati e funzionari interni alla banche elvetiche. Ma cosa direbbe Musy a chi difende ancora a spada tratta questo strumento? Forse una volta ancora ammonirebbe i suoi connazionali, facendo loro notare che chi non ha coraggio “continua ad attendere fermo, immobile un passato che non tornerà mai più. Non credo né nel destino, né nel fatalismo, credo invece profondamente nel potere dell’intelligenza creativa, sostenuta da una determinazione risoluta e coraggiosa”. Insomma, meglio mollare il mito e andare avanti. Come diceva il presidente della piazza finanziaria di Zurigo Martin Vollenwyder. “Il segreto bancario ha fatto il suo tempo, e anche se scomparirà, la Svizzera potrà continuare ad attirare capitali grazie alla sua stabilità politica e valutaria”.

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