La storia di Mosab Hassan Yousef Figlio di un fondatore di Hamas, dopo essersi convertito al cristianesimo è diventato un agente dello Shin Bet
Testata: Il Foglio Data: 10 marzo 2010 Pagina: 6 Autore: Matthew Kaminski Titolo: «I segreti del principe verde»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/03/2010, a pag. III, l'articolo di Matthew Kaminski dal titolo " I segreti del principe verde ".
Mosab Hassan Yousef
So perfettamente che agli occhi di tutti io sono un traditore – dice Mosab Hassan Yousef – a quelli della mia famiglia, della mia nazione e del mio Dio. Ho oltrepassato tutte le linee rosse della mia società”. Ora trentaduenne, Mosab è il figlio di Sheikh Hassan Yousef, uno dei fondatori e massimi leader del gruppo terrorista palestinese Hamas. Per tutto lo scorso decennio, dallo scoppio della Seconda intifada fino all’attuale situazione di stallo, Mosab ha lavorato a fianco del padre in Cisgiordania. Nello stesso periodo si è anche segretamente convertito al cristianesimo. E, come ora rivela nel suo libro “Son of Hamas”, in uscita questa settimana, è anche diventato una delle spie più importanti dello Shin Bet israeliano. La notizia di questa doppia conversione ha scatenato un grande trambusto in tutto il medio oriente. Uno dei suoi istruttori nello Shin Bet ne ha confermato il racconto in un’intervista rilasciata al quotidiano israeliano Haaretz. Hamas – già particolarmente scosso dall’assassinio di un importante capo militare a Dubai lo scorso gennaio – definisce la sue affermazioni semplice propaganda sionista. Dalla prigione israeliana in cui è rinchiuso dal 2005 Sheikh Yousef ha rilasciato, lunedì scorso, una dichiarazione nella quale, a nome di tutta la famiglia, afferma di “avere completamente ripudiato l’uomo che era il nostro figlio maggiore e che porta il nome di Mosab”. Negli ultimi due anni Mosab Yousef ha vissuto vicino a San Diego, in California, tenendosi lontano dal palcoscenico per questioni di sicurezza personale. Gli Stati Uniti stanno attualmente valutando la sua richiesta di asilo politico e, fino alla sua recentissima confessione di spionaggio e al grande clamore che ha suscitato, gli americani lo conoscevano soltanto come il figlio di un terrorista che ogni tanto frequentava le chiese evangeliche californiane. Mosab Yousef, i cui grandi e penetranti occhi spiccano dalla forma perfettamente ovale del suo volto, dice di essere rimasto confuso e disorientato per molti anni, ed è convinto che lo saranno anche molte altre persone. La sua famiglia è stata disonorata e i suoi vecchi amici si rifiutano di credergli. Il suo libro – un thriller in stile Le Carré inserito in una storia di maturazione spirituale – è un tentativo di rispondere a ciò che lui stesso definisce “impossibile da immaginarsi”: “Come ho potuto finire a lavorare per i miei nemici, che infliggono sofferenze a me, a mio padre, al mio popolo?”. “C’è una spiegazione logica”, prosegue Mosab in un inglese piuttosto fluente: “Semplicemente i miei nemici di ieri sono diventati miei amici. E gli amici di ieri sono diventati miei nemici”. La prima parte del suo libro racconta gli anni dell’infanzia a Ramallah, contrassegnati dall’intensità dei rapporti famigliari e dall’occupazione israeliana. Dipinge il quadro di un gentile e inconsueto padre musulmano che prepara la cena, tratta bene la moglie e si preoccupa dei suoi vicini. Imam formatosi in Giordania, Sheikh Hassan Yousef diventa un personaggio di primo piano a Ramallah e nel 1986, insieme a sei altri palestinesi (tra i quali Ahmed Yassin, lo sheikh di Gaza confinato su una sedia a rotelle), fonda Hamas in un incontro segreto tenutosi a Hebron. La prima Intifada palestinese scoppia l’anno seguente. Mosab fa la sua parte, scagliando pietre contro i settlers e i veicoli militari israeliani. “La maggior parte della gente ha conosciuto Hamas dopo che Hamas ha cominciato a compiere attacchi terroristici – continua Mosab –ma è iniziato come un’idea. Un’idea nobile: resistere all’occupazione”. I primi scontri con gli israeliani non fecero però che partorire nuove e più terribili violenze, e il cimitero vicino a casa sua iniziò a riempirsi di cadaveri. Gli stessi palestinesi si scagliarono gli uni contro gli altri. L’Olp, sempre più corrotta e autoritaria, entrò in dissidio con Hamas e altri gruppi. Tutti sfruttavano l’accusa di “collaborazionismo” come scusa per torturare e uccidere i propri rivali. Mosab descrive poi la sua prima concreta esperienza della crudeltà di Hamas. Nel 1996 fu arrestato dagli israeliani per acquisto d’armi. Racconta di essere stato picchiato e brutalmente torturato in prigione. Fu allora che fu avvicinato dallo Shin Bet. Dice di aver pensato di diventare un agente doppiogiochista. “Volevo vendicarmi di Israele”. Ma quando fu mandato a scontare la sua pena nella prigione di Megiddo, nell’Israele settentrionale, Mosab rimase ancora più scioccato dal modo in cui il maj’d, ossia il servizio di sicurezza di Hamas, trattava i propri prigionieri. “Ogni giorno era un susseguirsi di grida e ogni notte si ripeteva il supplizio della tortura. Hamas torturava il proprio popolo!”. I musulmani incontrati in carcere, scrive Mosab, “non assomigliavano in alcun modo a mio padre”, “erano cattivi e meschini… dei bigotti e degli ipocriti”. Avendo accettato di lavorare per lo Shin Bet, uscì abbastanza presto di prigione. Nel suo libro racconta che aveva molta curiosità per gli israeliani e di aver presto abbandonato l’idea di fare l’agente doppiogiochista. Sebbene abbia ricevuto denaro dallo Shin Bet e sia rimasto sul suo libro paga per un intero decennio, nei primi tempi i suoi superiori non pretesero molto da lui. Lo incoraggiarono a proseguire gli studi e a essere un figlio modello. Il suo nome in codice era Principe Verde: verde come il colore della bandiera islamista di Hamas, e principe in quanto erede della dinastia regale di Hamas. Durante questi anni tranquilli a Gerusalemme Mosab conobbe un tassista britannico che gli regalò una copia del Nuovo Testamento in traduzione inglese e araba e lo invitò a partecipare agli incontri di lettura biblica che si tenevano nell’albergo in cui entrambi alloggiavano. “Scoprii di essere profondamente attratto dalla grazia, dall’amore e dall’umiltà di cui parlava Gesù”, come dichiara lo stesso Mosab nel suo libro. Come spia, Mosab non fu attivamente impiegato fino allo scoppio della Seconda intifada nel settembre del 2000. Pochi mesi prima, a Camp David, il capo dell’Olp Yasser Arafat aveva rifiutato l’offerta palestinese di uno stato indipendente sul 90 per cento della Cisgiordania con Gerusalemme est come capitale. Secondo Mosab, Arafat decise che era necessaria una nuova insurrezione per ottenere una maggiore attenzione internazionale. Così, cercò il sostegno di Hamas attraverso Sheikh Yousef, come scrive lo stesso Mobad, che accompagnò il padre al quartier generale di Arafat. L’incontro si tenne prima che l’Autorità palestinese sfruttasse un pretesto per scatenare la Seconda intifada: la visita del primo ministro israeliano Ariel Sharon alla Spianata del Tempio a Gerusalemme, sito della moschea di al Aqsa e della Cupola della Rocca. Il racconto di Mosab è un importante contributo alla conferma storica del fatto che l’insurrezione fu premeditata da Arafat. Mosab mi racconta di essere rimasto allibito dall’inutile violenza perpetrata da politici pronti ad arrampicarsi “sulla spalle di gente povera e pia” pur di raggiungere i propri obiettivi. Dichiara che i palestinesi che hanno risposto alla chiamata “si sono incolonnati come un gregge di pecore verso il macello pensando di incamminarsi verso il paradiso”. Così, come scrive lui stesso nel suo libro, “all’età di ventidue anni sono diventato l’unico infiltrato in Hamas dello Shin Bet in grado di accedere ai bracci militari e politici di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi”. Mosab si attribuisce il merito di vari importanti successi di intelligence, e aggiunge che non sta rivelando nemmeno tutto. E’ stato il primo a scoprire che le Brigate dei Martiri di al Aqsa, un gruppo terrorista nato durante la Seconda intifada, erano formate da guardie di Arafat e finanziate con le sovvenzioni dei donatori internazionali. Afferma di avere individuato il più pericoloso costruttore di ordigni palestinesi e di avere sventato più di un piano per assassinare il presidente Shimon Peres, allora ministro degli Esteri, nonché un importante rabbino. Sostiene di avere neutralizzato alcune cellule di attentatori suicidi pronti ad attaccare Israele. E di avere contribuito a convincere suo padre a diventare il primo leader di Hamas a offrire una tregua ad Israele. Il suo diretto superiore israeliano – un certo “Captain Loai”, ora non più in servizio attivo allo Shin Bet – ha confermato molte di queste affermazioni in un’intervista al quotidiano Haaretz. Secondo quanto si legge nell’articolo, lo Shin Bet considerava Mosab il proprio “agente più fidato e autorevole”. Mosab cerca di giustificarsi, ma, in fin dei conti, “la domanda è se, ai miei stessi occhi, io sono un traditore oppure un eroe”. Torniamo dunque alla questione del perché. Il motivo fondamentale, dichiara Mosab, era quello di salvare vite umane. “Avevo visto troppe uccisioni. Avevo visto morire moltissima gente… Salvare una vita umana era qualcosa di veramente fantastico… non aveva importanza di chi si trattasse. Non sono soltanto israeliani quelli che mi devono la vita. Posso assicurarle che molti terroristi e molti leader palestinesi sono vivi grazie a me – o, per meglio dire, devono la loro vita al mio Signore”. Mosab dice di avere usato la propria influenza nello Shin Bet per convincere gli israeliani a provare ad arrestare gli esponenti di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi anziché farli semplicemente fuori con attacchi missilistici. Dice inoltre di aver salvato suo padre dal destino di Sheikh Yassin e di altri leader di Hamas uccisi dagli israeliani organizzando segretamente il suo arresto. “So per certo che mio padre oggi è ancora vivo soltanto perché io ho avuto parte nella cosa”. In Mosab Yousef c’è qualcosa del predicatore evangelista, persino quando dice di non essere un cristiano particolarmente devoto e di essere ancora nella fase di apprendimento della sua nuova religione. Desidera che i palestinesi e gli israeliani possono trarre insegnamento, come accaduto a lui, dal Dio cristiano. “Mi sono convertito al cristianesimo perché sono stato convinto dalla figura di Gesù Cristo, dal suo carattere e dalla sua personalità. Ho amato la sua persona, la sua saggezza, il suo amore, un amore incondizionato. Non ho abbandonato la religione islamica soltanto per accomodarmi in un’altra preconfezionata casella religiosa. Al contempo, è una cosa meravigliosa vedere il mio Dio esistere nella mia vita e vedere i mutamenti che produce nella mia vita. Credo che quando succederà la stessa cosa ad altri medioorientali ci sarà un grande cambiamento”. “Non sto cercando di convertire al cristianesimo l’intera nazione israeliana o quella palestinese. Mi auguro soltanto che possano essere introdotte all’ideologia dell’amore, l’ideologia del perdono, l’ideologia della grazia. Questi principi sono magnifici in se stessi, ma non si può negare che abbiano la propria origine nel cristianesimo”. Mosab racconta di essersi sentito esausto e di aver deciso di non lavorare più per lo Shin Bet nel 2006. Si è così trasferito in California da amici che aveva conosciuto attraverso gli incontri di lettura biblica. In quanto figlio di un uomo del clero musulmano, Mosab dice di essere giunto alla conclusione che il terrorismo non può essere sconfitto senza una nuova comprensione dell’islam. In questo si avvicina ad altri defezionisti dall’islam come l’ex parlamentare e scrittrice olandese Ayaan Hirsi Ali. Tuo padre è un fanatico? “No, non è un fanatico – risponde Mosab – è una persona estremamente moderata e ragionevole. Ciò che conta non è se mio padre sia o no un fanatico: il punto è che sta facendo la volontà di un Dio fanatico. Non conta se è un terrorista o un musulmano rispettoso della tradizione. Il punto è che un musulmano rispettoso della tradizione compie la volontà di un Dio fanatico, fondamentalista e terrorista. So che è una cosa dura da dire. Quasi tutti i governi evitano l’argomento. Non vogliono ammettere che questa è una guerra ideologica”. “Il problema non sta nei musulmani – continua Mosab – il problema sta nel loro Dio. Devono essere liberati dal loro Dio. E’ lui il loro maggior nemico. E’ da millequattrocento anni che sono vittime delle sue menzogne”. Sono parole molto pericolose. A proposito delle minacce alla sua vita fattegli dagli islamisti Mosab dice che “non è la cosa peggiore che possa capitarti. Mi sta bene, non ho paura… i palestinesi hanno ragioni concrete per volermi uccidere. Anche qualche israeliano potrebbe desiderare la mia morte. Il mio obiettivo non è sconfiggere il mio nemico, ma convincerlo e portarlo verso la mia fede”.
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