Sul CORRIERE della SERA di oggi, 08/03/2010, a pag.17, Davide Frattini racconta,con il titolo "I misteri della stanza 115 dove morì l'agente italiano", la storia di Pietro Colazzo, l' agente italiano ucciso a Kabul.
KABUL — Le camere sono traboccate sul prato. Coperte, vestiti, carta da lettere, un pettine. Sull’erba sbiadita, i resti della battaglia e dell’unico kamikaze che si è fatto saltare, due dita annerite, l’indice e il medio in un segno perverso di vittoria. Indossava il burqa — dicono adesso gli investigatori afghani— ed è entrato al Park Residence armato di kalashnikov, granate, la cintura-ordigno nascosta sotto la lunga veste femminile. La voragine aperta nella parete dalla sua esplosione ha scavato la via di fuga per l’altro attentatore, che si sarebbe sbarazzato delle munizioni e della voglia di ammazzarsi.
La stanza 115 sta dall’altra parte del fango. È il lato opposto all’ingresso, da dove gli assalitori sono arrivati dopo che l’autobomba all’incrocio ha divelto il cancello di ferro. È un’ala formata da otto stanze, su due piani, che guardano il giardino. La 115 è nell’angolo in basso a sinistra, le altre sfilano incastrate una sopra l’altra. Qui è stato ucciso Pietro Antonio Colazzo. L’unico degli ospiti in quest’area a morire. «Gli altri sono scappati da quel tetto — racconta Khalid Essa, il gestore —. Basta un salto e da lì si passa nel cantiere del palazzo in costruzione a fianco. Avrebbe potuto fuggire anche lui. Non capisco perché non l’abbia fatto».
Indica i fori dei proiettili sui muri, i colpi sparati contro chi si è lanciato fuori per salvarsi. «Oltre a Colazzo, in quella parte dormivano un britannico, un pachistano, un neozelandese, un afghano con passaporto americano e tre italiani». I tre italiani— dice Khalid— erano registrati come diplomatici. Come Colazzo, che in realtà era il numero due a Kabul dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna. I nostri servizi segreti in Afghanistan.
La versione del gestore confermerebbe quella del generale Abdul Rahman, capo della polizia a Kabul. «Colazzo è stato un eroe. Al cellulare, ci ha fornito informazioni precise e grazie a lui siamo stati in grado di portare al sicuro altri quattro italiani (su questo punto le due testimonianze discordano, ndr). È stato ucciso dai terroristi, quando hanno capito che ci stava aiutando», aveva raccontato poche ore dopo l’attacco di venerdì 26 febbraio nel centro di Kabul, sedici morti.
Colazzo conosceva il dari, una delle due lingue ufficiali parlate nel Paese, lo aveva studiato all’Università Orientale di Napoli. Dopo il primo scoppio alle 6.30 del mattino (è l’autobomba davanti alla guest-house Hamid, dall’altra parte della strada) avrebbe telefonato a un funzionario dell’ambasciata italiana. Un altro contatto ci sarebbe stato un quarto d’ora dopo. In mezzo, le chiamate alle forze di sicurezza afghane, quelle che avrebbero permesso agli altri italiani di salvarsi.
L’autopsia ha stabilito che è stato centrato da due colpi alla schiena, uno gli ha perforato il colon e lo ha ammazzato. Un altro alla gamba destra. Due lo hanno sfiorato. I proiettili hanno seguito una traiettoria dall’alto verso il basso, l’agente doveva essere accovacciato, la finestra della stanza, al piano terra, si apre sul prato, unica protezione il muretto che fa da davanzale. Prima di piazzarsi davanti a lui, plotone d’esecuzione, gli attentatori hanno freddato gli altri ospiti in una sequenza sistematica. In un paio di camere, hanno lanciato le granate, sul pavimento i segni del buco con i frammenti a raggiera.
L’hotel ospitava soprattutto indiani, medici e volontari che lavorano all’ospedale pediatrico Indira Gandhi, funzionari dell’ambasciata di New Delhi, poco lontana. Gli indiani sono convinti di essere stati il bersaglio del commando. Sayed Ansari, portavoce dell’intelligence afghana, ricostruisce l’operazione al Washington Post e accusa Lashkar-i-Taiba, il gruppo pachistano responsabile degli attentati a Mumbai del novembre 2008, 165 morti. Dice: gli assalitori — quattro in totale — parlavano l’urdu, usato in Pakistan, e davano la caccia a vittime indiane. I miliziani fondamentalisti hanno smentito ogni coinvolgimento, anche New Delhi resta cauta. Ci sono i racconti dei testimoni: «Dov’è il direttore indiano?», avrebbe gridato uno dei kamikaze. Ci sono le coincidenze geopolitiche: l’attacco è arrivato il giorno dopo il vertice tra i ministri degli Esteri indiano e pachistano, il primo in quindici mesi dal massacro di Mumbai, l’incontro avrebbe dovuto far ripartire il dialogo tra i due Paesi.
Il Park Residence non è un albergo di lusso. La facciata— sventrata come una casa di bambole dell’orrore — dà sul traffico di piazza Ansari. Colazzo ci avrebbe passato tutto il suo periodo in Afghanistan. «È arrivato qui un paio di anni fa, restava a dormire», ricorda Khalid. Non solo una base d’appoggio, quindi. Le stanze sono piccole. Il letto, il tavolino che fa da scrivania, l’armadio a due ante, il bagno-doccia.
Nella 115, i vetri infranti dai proiettili coprono quello che gli investigatori non si sono portati via: il pane in cassetta integrale (italiano), le infradito nere, un paio di pantaloni verde militare, un biglietto da visita di un hotel a Bamyan (la regione dove i talebani hanno distrutto le statue dei Buddha), due scatole di medicine, un vasetto di Nutella semivuoto.
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