I rapporti fra l'Ammnistrazione americana e Israele quanto mai controversi. Pubblichiamo l'intervista di David Braha con Maurizio Molinari, corrispondente da New York della Stampa, e autore del recente libro sul primo anno della presidenza Obama (ed.Laterza)
Maurizio Molinari
I rapporti tra l’Amministrazione Obama e lo Stato d’Israele sono stati caratterizzati da una forte tensione fin dall’inizio. A cosa è dovuta quest’atmosfera di reciproca sfiducia?
Io credo che la sfiducia sia stata soprattutto inizialmente da parte di Israele nei confronti dell’Amministrazione Obama. Il primo passo del Presidente Obama sul terreno del Medio Oriente è stato mosso con il fine di migliorare, rilanciare, e ristrutturare i rapporti con il mondo arabo e mussulmano, al fine di trasformare ogni avversario in un amico. Questa scelta strategica da parte di Obama è stata percepita dal pubblico e dal Governo israeliano come un distacco dalla tradizionale alleanza fra gli Stati Uniti ed Israele. L’opinione di Obama in realtà è sempre stata l’opposto. Ovvero lui ritiene che un’America più vicina al mondo arabo e mussulmano possa meglio servire gli interessi di Israele, che alla fine sono quelli di vivere in pace e sicurezza nella propria regione. Per questo, tale differenza di interpretazione dell’orientamento dell’Amministrazione Obama è stata l’origine delle tensioni iniziali che continuano fino ad oggi.
Nel celebre discorso del Cairo, Barack Obama ha presentato le linee guida della sua politica in Medio Oriente. Quali sono state le conseguenze di tale discorso, e cosa è cambiato da allora?
Dentro e fuori l’Amministrazione sono in molti a criticare il Presidente per la carenza di risultati del suo approccio: ha teso la mano all’Iran tentando di raggiungere un accordo bilaterale sul blocco del programma nucleare, ma tale strategia non ha portato alcun risultato, al punto che adesso è stato lui stesso ad invertire la marcia, puntando piuttosto sulle sanzioni. Ha teso la mano alla Siria, riallacciando di recente le relazioni, e scommettendo sulla possibilità che la Siria possa migliorare la stabilità dell’Iraq ed aprire allo stesso tempo un negoziato con Israele. Ma Barack Obama ha tentato di fare anche dell’altro. Ci sono stati contatti informali e segreti con Hamas, ha ridotto di molto le critiche al Sudan sulla questione del Darfur… in altre parole ha tentato, partendo dal discorso del Cairo, di costruire un rapporto diverso con tutti quegli attori che erano più ostili all’America. Il problema è che, a quasi un anno di distanza da tale discorso – che egli tenne nel Giugno 2009 – di risultati concreti non ce ne sono stati: è questo il motivo per il quale oggi sono in molti a Washington, sia democratici che repubblicani, a chiedere un cambiamento di marcia all’Amministrazione. Tuttavia Obama risponde a tali critiche affermando che in realtà il suo differente approccio sta pagando, e lo sta facendo in particolar modo in Iran. Lui ritiene infatti che proprio la scelta di aver ammorbidito i toni contro l’Iran abbia facilitato la mobilizzazione dell’opposizione in strada: proprio perché ha smitizzato l’opposizione radicale degli USA all’Iran, il regime iraniano non ha più potuto dire che tutti gli oppositori erano agenti americani, e per questo l’opposizione ha tratto forza da questa politica. Tuttavia, a Washington, il confronto su questo tema resta comunque molto duro, in quanto gli avversari dell’Amministrazione continuano a sollecitare il Presidente ad invertire la marcia rispetto al discorso del Cairo. Io credo che vedremo presto delle novità: non cambierà l’orientamento di massima, ovvero la scelta di Obama di tendere la mano agli avversari, e l’idea di cercare un rapporto con il mondo arabo e mussulmano basato su comuni interessi e mutuo rispetto. È possibile però che, spinto soprattutto dal proprio partito, Obama cambierà registro sul tema dei diritti umani, ponendola con molta più enfasi ai paesi arabi e mussulmani.
Al giorno d’oggi, Netanyahu ha assecondato la richiesta americana di un blocco alle costruzioni negli insediamenti, per quanto tale blocco sia parziale e temporaneo. Tuttavia ciò non sembrerebbe aver portato ad alcun tipo di progresso nelle trattative di pace. Perché?
Perché in questo momento chi si oppone ad una ripresa delle trattative è l’Autorità Nazionale Palestinese. In questo momento la situazione è la seguente: Netanyahu ha bloccato le costruzioni per dieci mesi, gli Stati Uniti hanno plaudito a questa iniziativa e, sulla base della posizione di Netanyahu, chiedono alle parti di tornare a trattare. L’Amministrazione Obama ha dato un giudizio positivo sulla proposta di Netanyahu, Hillary Clinton lo ha addirittura definito un momento storico senza precedenti per il Medio Oriente. L’Autorità Nazionale Palestinese ha però dato un giudizio negativo, chiedendo invece un blocco totale delle costruzioni al di la della linea verde. Assumendo tale posizione l’Autorità Nazionale Palestinese è adesso in attrito non solo con il Governo di Gerusalemme, ma anche con le posizioni dell’Amministrazione Obama. Quindi, paradossalmente, mentre prima sul piano della percezione collettiva e degli orientamenti politici vi erano delle frizioni tra Israele e Stati Uniti ed un riavvicinamento tra gli USA ed il mondo arabo, sul terreno del negoziato in Medio Oriente riguardo alla questione palestinese le posizioni dell’Amministrazione Obama oggi sono più vicine a quelle del governo Netanyahu che non a quelle del presidente Abu Mazen.
Cosa dovrebbe fare, o come dovrebbe comportarsi l’Amministrazione Americana al fine di riavviare in maniera credibile il processo di pace tra Israeliani e Palestinesi?
Quello che gli americani stanno tentando di fare ora è di riavvicinare le parti sul tema del blocco degli insediamenti: ovvero l’Amministrazione Obama da una parte dice ad Abu Mazen di accettare la premessa negoziale di Netanyahu e di sedersi al tavolo, mentre dall’altra contestano a Netanyahu decisioni come quella di riprendere le costruzioni a Gerusalemme Est. In questa maniera il Governo statunitense prova ad agire in maniera più imparziale possibile rispetto alle due parti. Al momento però, questo approccio non funziona, ed è possibile quindi che si debba cambiare strategia. Una delle carte che Obama ha a disposizione è quella di un’impostazione regionale finalizzata ad aiutare Israeliani e Palestinesi a sedersi assieme. Ciò significa coinvolgere maggiormente altri attori, e in particolar modo Egitto e Giordania. Se noi facciamo bene attenzione a cosa sta avvenendo a Gaza, ci accorgiamo che in realtà qualcosa del genere sta già avvenendo. Gli egiziani stanno infatti collaborando con gli americani, con gli israeliani, e con Abu Mazen per limitare i movimenti dei militanti di Hamas ed il traffico di armi, in maniera superiore a ciò che avveniva prima dell’Amministrazione Obama. Su questo non c’è dubbio: stanno sigillando la frontiera, vogliono costruire un muro, hanno arrestato molti militanti di Hamas… ciò dimostra che gli egiziani sono per la prima volta impegnati attivamente e seriamente nell’assicurare un contenimento di Hamas a Gaza. L’interrogativo è se anche la Giordania possa essere in qualche modo coinvolta per rafforzare la stabilità di Abu Mazen in Cisgiordania. Inoltre, quest’idea di un approccio regionale con il coinvolgimento dei principali paesi arabi alleati degli Stati Uniti a sostegno del negoziato diretto, è una carta che può essere accettata è condivisa anche dagli Israeliani. Resta però il vero interrogativo sulla posizione di Abu Mazen. Il suo problema è che, come noi sappiamo, egli è un leader debole con uno stato molto debole, delle infrastrutture vacillanti, una popolarità in calo, ma che dalla sua parte ha un miglioramento della situazione economica sul territorio. Bisognerà vedere se tutto ciò lo porterà ad ammorbidire la sua posizione, così come Obama gli chiede.
Abbiamo parlato dei rapporti tra Stati Uniti e paesi arabi, ed in particolar modo con l’Iran. Poi abbiamo discusso della politica americana nei confronti di Israele. Come si inserisce la questione iraniana all’interno dei rapporti tra Israele ed USA?
Alla fine della scorsa settimana il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak è stato in visita a Washington: ha incontrato il suo collega americano Robert Gates, il Vicepresidente Joe Biden, si è recato al Congresso, e ha visto il Segretario di Stato Hillary Clinton. Dal risultato di questi colloqui, la mia impressione è che ci sia una forte convergenza in questo momento tra i due paesi, attorno ad un termine: sanzioni robuste contro il nucleare. Entrambi i paesi in questo momento sono infatti convinti che il pacchetto di sanzioni rigide contro il nucleare iraniano, in discussione dentro e fuori il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, possa effettivamente servire a bloccare il programma. Io credo che questo dipenda da due fattori. Il primo è un’analisi convergente sullo sviluppo del programma iraniano: se in passato ci sono state delle divergenze fra i due paesi sul livello del suo avanzamento, la mia impressione è che queste divergenze oggi non ci sono più. Tutti e due comprendono che gli iraniani stanno accelerando, che hanno in animo un programma militare e non civile, ma che comunque non sono ancora concretamente arrivati, e che quindi ci sia ancora una finestra di tempo. L’altra convergenza è sulla questione delle sanzioni, perché tali sanzioni hanno una struttura simile a quelle che i due paesi propongono: sia Israele che gli Stati Uniti sono infatti d’accordo nel colpire le importazioni di benzina dell’Iran e la struttura di potere dei Pasdaran – le guardie della Rivoluzione – nella convinzione che esse siano ormai diventate una milizia alle dipendenze di Ali Khamenei che le adopera per gestire il programma nucleare, per proteggerlo, ma anche e soprattutto per gestire lo stato. In altre parole Khamenei ha creato uno stato dentro lo stato. Ed entrambi i paesi concordano sul fatto che la maggioranza degli iraniani è ostile a questa scelta di Khamenei di gestire lo stato tramite i Pasdaran. Quindi c’è un’analisi generale coincidente, c’è l’accordo sul mezzo – quello delle sanzioni – e c’è anche l’accordo di tenere sul tavolo l’opzione militare. Quindi in questo momento i due paesi sono molto vicini. Gli interrogativi però sono lo stesso due. I primo è se le sanzioni robuste saranno davvero approvate, perché nel caso in cui non dovessero passare a causa del veto russo o cinese si dovrebbe necessariamente pensare ad opzioni alternative. Il secondo ha invece a che vedere sul tempo che sarà necessario a queste sanzioni per funzionare, nel caso in cui dovessero essere approvate. Quindi nonostante la vicinanza tra Israele e Stati Uniti riguardo al nucleare iraniano, quest’intesa potrebbe tuttavia durare per breve tempo, perché noi non sappiamo se queste sanzioni verranno votate e quanto tempo ci vorrà per farle funzionare.