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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.03.2010 I film sul nazismo banalizzano la Memoria
Il commento di Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 marzo 2010
Pagina: 14
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Hollywood si prende troppe licenze. Così il nazismo diventa gioco»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/03/2010, a pag. 14, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Hollywood si prende troppe licenze. Così il nazismo diventa gioco ".


Bernard-Henri Lévy

Già l'anno scorso c'eravamo meritati Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, dove Hitler non moriva a Berlino ma a Parigi, nell’incendio di un cinema. Dove ebrei americani, combattenti per la libertà, strappavano lo scalpo ai nazisti che catturavano; o incidevano una svastica sulla fronte di coloro che lasciavano in libertà. Il sergente Donnie Donowitz, alias «l’Orso ebreo», giocava a baseball con i crani delle proprie vittime. Lo stesso Hitler diventava una sorta di Grande Produttore che aveva esteso a Germania ed Europa le frontiere dei suoi studio. E Tarantino, quando gli si chiedevano spiegazioni sul significato ultimo del suo film, non temeva di rispondere che, per gli angeli sterminatori antinazisti le cui «nonnette» europee erano rimaste «impotenti» quando per la prima volta si andò a «bussare alle loro porte», il tempo era scaduto e «l'ora della vendetta» era suonata. Certo, Tarantino restava Tarantino. L'autore di «Pulp Fiction» e delle «Iene» non aveva perso nulla, grazie al cielo, della propria genialità. Ma era difficile non domandarsi cosa avrebbe lasciato questo film nella testa di un adolescente mediamente informato della California, del Minnesota o, anche, della vecchia Europa. Ed era impossibile non vedere, quanto alla verità, il tipo di incertezza che — malgrado, o in realtà a causa, del talento stesso del regista— il film doveva immancabilmente generare: l'antinazismo, davvero, come risposta dei nipoti all'umiliazione delle nonne? In altre parole, la guerra del 1939 come replica di quella del 1914? Chi sa, dopotutto, in quali condizioni è morto Adolf Hitler? Chi sa se non è morto per l'overdose da cinema narrata nel film? Visto che i fatti diventano, via via che la narrazione va avanti, una materia grezza che il gran spettacolo tarantiniano ingoia, rigetta e finisce per cancellare, perché la morte senza immagini nell'oscuro bunker berlinese non dovrebbe cedere il posto alla morte messa in immagine, orchestrata, prodotta, in un'opera di genio? Si teme di pronunciare la parola, tanto essa potrebbe sembrare politicamente corretta. Eppure… Nelle gioiose ma macabre facezie di «Bastardi senza gloria», c'è un vero rischio di revisionismo. Oggi è un altro gigante del cinema americano, Martin Scorsese, a impadronirsi del materiale altamente infiammabile che è la storia del nazismo, e nel farlo, temo, si assume una responsabilità dello stesso genere. Anche in questo caso, il talento non è in causa. Né è in causa la trama del film, dal titolo «Shutter Island» (nei cinema italiani da venerdì, ndr), che mescola con un virtuosismo sbalorditivo i riferimenti a Hitchcock, a Samuel Fuller, a Vincent Minnelli o al film troppo spesso sottovalutato di Val Lewton e Mark Robson, «Il vampiro dell'isola». Ma cosa pensare, di nuovo, dell'identificazione implicita di Guantanamo con i campi della morte? Cosa pensare dell'isola del Diavolo, situata nel cuore degli Stati Uniti, dove l'amministrazione avrebbe riciclato dopo la guerra ex criminali nazisti? E Dachau? Che dire delle immagini del campo di Dachau allegramente confuso con Auschwitz, visto che sul frontone dell'entrata appare la celebre scritta: Arbeit Macht Frei? Che pensare degli ossari dove morti colorizzati ci guardano con occhi da bambole di cera o di plastica e tornano, lungo tutto il film, come un terribile Leitmotiv, a ossessionare il cervello dell'eroe? E come non sussultare, infine, quando appare l'inquadratura della camera a gas vuota di cui Leonardo Di Caprio, errando nei sotterranei dell'ospedale psichiatrico dove svolge la sua inchiesta, apre inavvertitamente la porta e intravede i rubinetti delle docce non più usati? Il povero Gillo Pontecorvo, per una inquadratura appena più insistente sulla mano alzata di Emmanuelle Riva, morta fulminata nel filo spinato del campo da cui cerca di scappare nel film «Kapò», si attirò, quasi cinquant'anni fa, «il più profondo disprezzo» di Jacques Rivette in un articolo apparso sulla rivista Cahiers du Cinéma, che l'ha perseguitato fino alla morte. Fu ostracizzato, quasi maledetto, per un'inquadratura, una sola, il famoso «carrello di Kapò», il cui estetismo fu giudicato «osceno» da tutti coloro che, prima e dopo Rivette, hanno creduto al famoso aforisma di Godard sul carrello (usato per le scene in movimento) che è «questione di etica». E dovremmo lasciar passare gli ammassi di cadaveri stomachevoli, elaborati con photoshop, come sottoposti a lifting, che sembrano usciti direttamente da una regia di Jeff Koons? E dovremmo lasciar scavare il baratro del non-tempo dove ciò che— come sappiamo dopo i commenti di Claude Lanzmann sulla «Lista di Schindler» — non è possibile riprodurre in immagine, viene edulcorato e trattato con effetti speciali? La verità è che il nazismo sta diventando un nuovo terreno da gioco dove si divertono i bad boys di una Hollywood le cui star, simili al Dio di George Berkeley che rinnova in ogni istante la sua Creazione, decretano, ogni minuto, quello che è reale e quello che non lo è. Meglio ancora: il nazismo è uno di quei self-service, un tabù come altri, al quale attinge chi pensa che, essendo la favola a condurre il mondo, il reale dovrebbe essere solo una delle modalità della finzione. L'arte ne è avvantaggiata. Non la memoria. Né, ancor meno, la morale. Che avrebbe bisogno di un'altra Nouvelle Vague per ricordarci che essa è una questione che riguarda sempre, e più che mai, il cinema.

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