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Il Foglio Rassegna Stampa
27.02.2010 Dubai: è Hamas ad uscirne con le ossa rotte
mentre l'economia in Israele va a gonfie vele

Testata: Il Foglio
Data: 27 febbraio 2010
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Il Colpo di Dubai incrina Hamas-C'è il gran banchiere d'Israele dietro un exploit da ritmi cinesi»

Sul FOGLIO di oggi, 27/02/2010, a pag,3, un editoriale che ristabilisce i giusti termini della questione Mossad/Dubai, alla faccia di ha voluto leggervi (per es.Repubblica) uno smacco israeliano. E' Hamas ad uscirne con le ossa rotte.
Segue una analisi dell'economia israeliana, in ottima salute, come abbiamo già sottolineato nei giorni scorsi su IC.
Ecco gli articoli:

"Il Colpo di Dubai incrina Hamas"


Logo di Hamas           Logo del Mossad

Sbraitano tutti, dall’Australia alla Gran Bretagna. Sbraitano contro Israele e il coinvolgimento del Mossad nell’uccisione a Dubai di un capo di Hamas, Mahmoud al Mabhouh, soffocato con un cuscino da un commando di almeno 26 persone. Sbraitano perché Israele non può andarsene in giro per il medio oriente a fare omicidi mirati lasciando ai killer passaporti falsi di persone che esistono davvero, inconsapevoli cittadini inglesi, tedeschi, irlandesi, australiani. Gli Emirati arabi vogliono spiccare un mandato di cattura contro il premier di Gerusalemme, Bibi Netanyahu; il governo di Canberra ha convocato l’ambasciatore israeliano in Australia per avere spiegazioni; il governo di Dubai dice di avere il dna di uno degli assassini. Ma nel clamore internazionale, sfugge ai più che quell’assassinio sta scoperchiando la crisi interna non soltanto ai palestinesi – le accuse riguardo alle responsabilità nell’omicidio di Dubai ricadono su Israele e anche su Fatah, il partito del rais dell’Autorità palestinese, Abu Mazen – ma nello stesso gruppo di Hamas. Nessun colloquio, nessuna visita diplomatica, nessuna road map, nessuna apertura avrebbe potuto ottenere tale effetto. All’interno del gruppo palestinese che malgestisce la Striscia di Gaza è in atto un regolamento di conti. La leadership in esilio a Damasco è sempre più intransigente, mentre quella a Gaza subisce gravi colpi, nelle persone e nelle finanze. E’ notizia di ieri che Mahmoud al Zahar, un pezzo grosso di Hamas a Gaza, si è dimesso dal gruppo che negozia sulla liberazione del caporale israeliano Shalit dopo l’ennesima rissa con il leader di Hamas a Damasco, Khaled Meshaal. Zahar voleva dare seguito ad alcune richieste di Israele, Meshaal no, e così ha imposto a Zahar di andarsene. Non è una frattura da poco, se si considera che soltanto in questa settimana si è scoperto che il figlio dello sceicco Yousef, un fondatore di Hamas, è stato per anni un agente dei servizi israeliani prima di convertirsi al cristianesimo e andare a vivere in California. Dopo l’omicidio di Dubai si è aperta un’inchiesta dentro a Hamas e perdura uno strano, inquietante silenzio stampa. Come se la crisi interna fosse davvero grave, pure se le cancellerie occidentali che sbraitano contro Israele continuano a non notarla

"C'è il gran banchiere d'Israele dietro un exploit da ritmi cinesi "


Stanley Fischer

 Milano. A prima vista non sembra una missione adatta a un banchiere centrale: convincere la Cina, primo acquirente del greggio iraniano, ad aderire alle sanzioni contro Teheran. Eppure Benjamin Netanyahu, premier di Israele, sapeva di giocare il suo asso quando ha stabilito che, accanto al suo vice, il generale della riserva Moshe Ya’alon, a Pechino a fine mese deve andarci pure Stanley Fischer, il governatore della piccola Banca centrale di Israele ma, soprattutto, il vero maestro dei banchieri centrali a ogni latitudine. In senso letterale, perché sotto la sua guida hanno studiato Mario Draghi e il numero due della Bce, Lucas Papademos, e ha conseguito il suo Mba al Mit nientemeno che Ben Bernanke, il numero uno della Fed. E anche in senso ideologico, perché la settimana scorsa l’allievo Ben ha “copiato”, sei mesi dopo la strategia del maestro, innalzando a sorpresa i tassi dei depositi delle banche commerciali nell’istituto centrale di un quarto di punto, dando così il via, almeno sul piano ideologico, alla ritirata dalla politica di immissione di liquidità a pioggia. Già, la stessa strategia di Fischer che lo scorso agosto, dopo aver ammonito i banchieri centrali riuniti per ascoltarlo a Jackson Hole, nella tradizionale passerella di metà estate di non abbassare la guardia contro la crisi, di ritorno in Israele spiazzò i mercati aumentando il tasso di sconto dello 0,25 per cento. La manovra, accompagnata da una pioggia di vendite di shekel contro il dollaro (tanto per far capire che Fischer non avrebbe accettato un rialzo artificiale della moneta) ha funzionato: il pil di Israele, dopo aver recuperato i dati in rosso dei primi due trimestri del 2009, corre oggi al ritmo del 4,4 per cento annuo, a un tasso quasi “cinese”. Certo, Pechino viaggia a un tasso poco sotto il 10 per cento, ma gli economisti del Drago hanno almeno una ragione per studiare l’esempio di Israele: negli ultimi cinque anni, da quando Fischer è stato scelto per guidare la politica monetaria del paese, lo stato ha ampiamente ridotto la sua influenza sull’economia, tagliando i sussidi e favorendo la liberalizzazione finanziaria che, a sua volta, ha stimolato l’afflusso di capitali, locali e stranieri, nelle centinaia e centinaia di start up ad alta tecnologia che fanno da motore all’export (in crescita del 30 per cento nonostante la crisi dei clienti europei). Un vero e proprio exploit che porta la firma, oltre che di Fischer, di Netanyahu, il premier che nel 2005, da ministro delle Finanze, suggerì ad Ariel Sharon la nomina del banchiere, all’epoca numero due dibassare la guardia contro la crisi, di ritorno in Israele spiazzò i mercati aumentando il tasso di sconto dello 0,25 per cento. La manovra, accompagnata da una pioggia di vendite di shekel contro il dollaro (tanto per far capire che Fischer non avrebbe accettato un rialzo artificiale della moneta) ha funzionato: il pil di Israele, dopo aver recuperato i dati in rosso dei primi due trimestri del 2009, corre oggi al ritmo del 4,4 per cento annuo, a un tasso quasi “cinese”. Certo, Pechino viaggia a un tasso poco sotto il 10 per cento, ma gli economisti del Drago hanno almeno una ragione per studiare l’esempio di Israele: negli ultimi cinque anni, da quando Fischer è stato scelto per guidare la politica monetaria del paese, lo stato ha ampiamente ridotto la sua influenza sull’economia, tagliando i sussidi e favorendo la liberalizzazione finanziaria che, a sua volta, ha stimolato l’afflusso di capitali, locali e stranieri, nelle centinaia e centinaia di start up ad alta tecnologia che fanno da motore all’export (in crescita del 30 per cento nonostante la crisi dei clienti europei). Un vero e proprio exploit che porta la firma, oltre che di Fischer, di Netanyahu, il premier che nel 2005, da ministro delle Finanze, suggerì ad Ariel Sharon la nomina del banchiere, all’epoca numero due diCitigroup, dopo una lunga militanza ai vertici della Banca Mondiale. All’epoca, per la verità, la nomina suscitò più di una critica: passi per l’apertura alla politica della aliyah, cioè il ritorno degli ebrei nella terra promessa, ma perché scegliere uno “straniero” con passaporto americano, studi a Londra e nel Massachusetts, nato a Mazabuka, oggi Zambia, per ricoprire una delle cariche più sensibili del paese anche sul piano politico? Fischer accettò senza reagire le critiche. L’uomo, del resto, ha la pelle dura come dimostra la pacatezza con cui ha evitato di reagire direttamente all’aggressione di Joseph Stiglitz, il premio Nobel che lo accusò di aver barattato con un posto in Citigroup una gestione favorevole alle grandi banche nella crisi asiatica, ai tempi in cui sedeva ai vertici della World Bank. Più ancora, però, pesa l’esempio: nel 2005 Fischer, pur di servire Israele, ha accettato un brusco taglio di stipendio per coronare il suo sogno sionista di ragazzo che a 17 anni, nel 1960, era corso a lavorare (e a imparare l’ebraico) nel kibbutz di Ma’agan Michael dove conobbe Rhoda Keet, altra giovane ebrea africana destinata a diventare la signora Fischer. Già, con buona pace dei suoi critici radicali, Fischer s’è rivelato un uomo di principi, capace di criticare, per tempo,l’avidità delle grandi banche americane. Ma anche di saper combinare, nel cocktail di Israele, ingredienti all’apparenza inconciliabili: la necessità di garantire la sicurezza con un’economia aperta e dinamica, in cui gli investimenti procapite dei venture capital sono trenta volte superiori a quelli della vecchia Europa. Merito di un mix tra preparazione scientifica e spirito imprenditoriale, ma anche delle mosse della “volpe” della Bank of Israel, che nel 2008 ha giocato contro lo shekel per garantire ossigeno all’export, che vale il 40 per cento dell’economia. E che ha ripetuto una mossa analoga nel 2009, per evitare che il rialzo dei tassi, necessario per assorbire le tensioni inflattive, favorisse la rivalutazione della moneta. Una volpe che sa essere intransigente: Fischer ha già fatto sapere che accetterà il rinnovo del suo mandato, in scadenza a maggio, solo se alla Banca centrale verrà affidata la supervisione di tutta l’attività finanziaria del paese, bancaria e non. Così come vorrebbe l’allievo Bernanke che, però, non può presentare al Congresso voti altrettanto brillanti del maestro Fischer, uno che i cinesi, grandi creditori degli americani, ascoltano con riverenza. Chissà, in cambio di un’apertura sull’Iran, Fischer potrà fornire una dritta sul dollaro.

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