Sull'uccisione di Pietro Colazzo a Kabul, riprendiamo la cronaca di Anna Zafesova e il commento di Francesco Grignetti dalla STAMPA di oggi, 27/02/2010. Significativa la dichiarazione dell'ex leader pakistano Pervez Musharraf: " Ma quale ritiro, gli occidentali devono restare per altri 10 anni" , se confrontata con quella di Di Pietro: " Exit strategy immediata per portare a casa i nostri soldati ", il cui partito si fregia della parola "valori".
Anna Zafesova: "Kabul, ucciso 007 italiano "
Pietro Colazzo
Pioveva e faceva freddo, all’alba di ieri a Kabul, un venerdì di festa dato che si celebrava il Mulud, il compleanno del profeta Maometto, quando il silenzio è stato squarciato da un boato terribile. Un’autobomba ha fatto cadere il muro di cinta del piccolo albergo, il «Park Residence Guesthouse», e subito diversi terroristi sono scivolati dentro l’edificio. In contemporanea, poco distante, finiva sotto attacco un grande centro commerciale, nove piani in ferro e vetro, con all’ultimo piano il «Safi Landmark Hotel». Assalito anche, secondo alcune fonti, un altro albergo, il Hamid Hotel. Per l’ennesimo attacco dei taleban al cuore di Kabul, questa volta sono stati colpiti alberghi meno vistosi e perciò meno protetti, ma ugualmente frequentati da stranieri. Ed è dolorosa la conta delle vittime: almeno 17 i civili uccisi, di cui 10 medici indiani, un documentarista francese, e un italiano, Pietro Antonio Colazzo, che si scoprirà essere un agente segreto in forza all’Aise, il nuovo Sismi.
Quello di ieri è stato un «attacco combinato», per stare al gergo degli analisti. E cioè prima vengono le autobombe che servono a smantellare le difese e annichilire le guardie al perimetro esterno di alberghi o ministeri; subito dopo, come s’è visto già nell’attacco all’hotel «Serena» di Kabul, che era l’alloggio preferito degli stranieri, oppure nell’attacco agli hotel di Mumbai, i guerriglieri sciamano a seminare la morte tra corridoi e stanze. Sono tutti kamikaze armati fino ai denti e con cinture esplosive alla vita: a volte si fanno saltare in aria per non farsi prendere vivi oppure se si trovano vicini a un agente di polizia. Si nascondono per saltare fuori a un certo punto. Oppure prendono ostaggi. Ingaggiano lunghi conflitti a fuoco, insomma, per tenere le città con il fiato sospeso.
Così è andata anche ieri a Kabul. Ci sono state scene di panico nelle strade e anche nel «Safi Landmark». Un ospite britannico, Brian Briscombe, ha detto alla Bbc di essersi svegliato tra vetri infranti e nel fumo. Dopo circa trenta minuti ha deciso di lasciare l’edificio: «Sono rimasto ferito ad una mano, volevo farmi curare, ma un soldato ha iniziato a gridarmi contro, quasi mi ha sparato quando ha visto che avevo uno zaino. Pensava fossi un kamikaze».
La polizia afghana ha impiegato quasi tre ore per riprendere il controllo dei luoghi e dichiarare il «cessato pericolo». Nel frattempo sono morti tre agenti e diversi terroristi, e molti feriti si sono potuti evacuare solo alla fine delle sparatorie. «L’esplosione è stata fortissima. Gli scontri a fuoco successivi si sono protratti a lungo», racconta il portavoce della Missione Ue a Kabul, Andrea Angeli. «La tensione è ancora molto palpabile. La capitale è blindata, presidi di polizia bloccano le intersezioni di accesso ai ministeri e ad altri edifici sensibili. Per spostarsi occorre fare molte deviazioni e superare numerosi check-point messi in piedi all’alba».
E pensare che ci sono in atto colloqui esplorativi tra la dirigenza talebana e il governo afghano, ma anche con americani e occidentali vari. Allo stesso tempo, la Nato sta conducendo l’offensiva al sud. Una situazione fluida. Ma proprio per questo, più pericolosa che mai. Spiega il rappresentante uscente dell’Unione europea in Afghanistan, l’ex ambasciatore italiano, Ettore Francesco Sequi: «A fronte della difficoltà dei taleban di fronteggiare le forze afghane e della coalizione internazionale nel sud, è chiaro che c’è da mettere in conto che vi siano episodi come questi che possono creare una percezione di insicurezza, anche per il rilievo mediatico che ne deriva».
Con la morte del funzionario dei servizi segreti nell’attentato di ieri, sale a 22 il numero degli italiani morti in Afghanistan, dall’inizio della missione nel 2003. La nazione che più ha pagato in termini di vite l’assalto è stata l’India, la cui ambasciata si trova a circa 500 metri dal primo degli alberghi. Gli indiani erano l’obiettivo principale dell’attacco, come ha dichiarato Hamid Karzai. «Non intaccheranno le relazioni fra l’India e l’Afghanistan», ha assicurato il presidente afghano. I talebani avevano già preso di mira l’India per i suoi legami con l’Alleanza del Nord, il gruppo armato rivale che contribuì alla loro caduta a fine 2001, e l’ambasciata di Nuova Delhi a Kabul è stata bersaglio di due sanguinosi attentati negli ultimi anni, con decine di vittime tra i funzionari indiani.
Francesco Grignetti: " Colazzo è caduto da eroe con la pistola in pugno "
Forse non era un attacco agli italiani. Forse. Ma questa volta i nostri 007 si sono trovati davvero al centro dello scontro. Ospiti del «Park Residence Guesthouse» di Kabul, nel quartiere vicino all’ambasciata indiana, erano infatti cinque funzionari dell’Aise. Pietro Antonio Colazzo, il più alto in grado. E quando i guerriglieri infiltratisi nell’hotel hanno cominciato a sfondare porte e lanciare granate, gli italiani hanno reagito fulmineamente. Colazzo, che parlava bene la lingua locale, il dari, e che per il suo speciale incarico teneva i rapporti con i vertici della polizia e dei servizi segreti locali, ha avvisato chi di dovere. Nel frattempo ha dato l’ordine secco agli altri agenti di sganciarsi ed è rimasto lui, pistola in una mano, cellulare nell’altra, a coprire la fuga dei suoi. Ha potuto così guidare a colpo sicuro i reparti speciali della polizia afghana. Ma non ce l’ha fatta. È morto con l’arma in pugno, crivellato di colpi. E ora chi sa come sono andati i fatti, dal presidente Hamid Karzai, a Silvio Berlusconi, al ministro Ignazio La Russa, s’inchina al suo eroismo.
«Ci ha fornito informazioni precise - racconta il capo della polizia afghana, il generale Abdul Rahman - grazie alle quali la polizia è stata in grado di portare al sicuro, sani e salvi, altri quattro italiani. Era un uomo coraggioso».
Un coraggioso. Di più: un eroe. Ma di un eroismo all’italiana condito di simpatia, gentilezza, acume e però anche fermezza al punto giusto. Chi l’ha conosciuto nei due anni che Colazzo ha vissuto a Kabul, ne parla già con immenso dolore. Piccolo di statura, barbetta nera, occhiali, a 47 anni Colazzo era il numero 2 nella cellula dei servizi segreti di stanza a Kabul. In questi giorni, poi, assente il capo, comandava lui. Da giovane aveva studiato le lingue orientali a Napoli, e parlava bene l’arabo e il dari, l’idioma di origine persiana che si usa tra Iran e Afghanistan. In un periodo indefinito della sua vita era finito a fare lo 007 e non era più tornato a casa, a Galatina, in provincia di Lecce.
Grazie al suo carattere e alla sua serietà, Colazzo s’era conquistato rapidamente la stima e la considerazione degli interlocutori afghani. Un successo professionale così come era accaduto in Oman, la sua base operativa prima di questa.
Di mestiere Colazzo faceva la spia, ma non si deve pensare a chissà quale vita da cappa e spada. Aveva in tasca un passaporto diplomatico, frequentava l’ambasciata, dormiva con gli altri agenti in una «guest house» dove molti credevano che quegli italiani fossero dei sanitari, e faceva da ufficiale di collegamento tra i nostri apparati di sicurezza e quelli del governo legittimo.
In Italia, a Roma, aveva una ex moglie e un appartamento. A Galatina, una sorella cui era molto legato e due nipoti che adorava. Ma il suo tempo e le sue energie erano tutte per questo curioso lavoro che non si può raccontare e che anche ieri, fino all’ultimo, è stato tenuto segreto. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ad esempio, ha insistito a lungo nel dire che Colazzo era un semplice consigliere d’ambasciata. Inizialmente, poi, si era sparsa la voce che fosse un medico, ma negli ospedali nessuno lo conosceva. Equivoci. Che fosse un funzionario dell’ex Sismi, s’è capito solo quando l’hanno detto Karzai e i suoi ministri.
Nulla da stupirsi, ovviamente. E’ giusto che i nostri servizi, l’Aise e il Ris, ovvero Agenzia informazioni e sicurezza estera e Reparto informazioni e sicurezza, siano presenti in forze in quel Paese martoriato dove sette anni fa abbiamo inviato 2.500 soldati (e tra poco ne arriveranno mille in più) e dove il pericolo è nascosto dietro ogni roccia. L’arma migliore, si sa, in un teatro operativo del genere è l’intelligence con gli agenti squinzagliati sul terreno. Ma non si deve dire. Accade così nella provincia di Herat, dove ci sono le nostre truppe, e altrettanto a Kabul dove servono agenti non tanto per raccogliere notizie direttamente, quanto per convogliare e valutare la massa cospicua di segnalazioni, i «warning», che sfornano i Servizi locali, più quelli della Nato e gli americani. E chissà quante vite Colazzo ha salvato, nella sua attività. O quante decisioni sono state prese, a Roma, sulla base dei suoi rapporti.
Qualche anno fa, il Sismi ha stampato un libro («Storie di chi si è dato coraggio», testi di Giampaolo Rugarli) per celebrare i suoi eroi senza nome, chi ha ricevuto la medaglia d’oro e non l’ha potuto raccontare, così come è stato per Nicola Calipari. In futuro ci sarà un capitolo anche per lui, l’uomo di Kabul.
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