Riportiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 26/02/2010, a pag. 16, l'articolo di Jimmy Carter dal titolo " Obama come Carter? Magari! ".
Condividiamo le dichiarazioni di Walter Russell Mead quando scrive : " Come molti altri presidenti americani, Barack Obama è influenzato nelle scelte in politica estera dall'andamento dei conflitti: nel peggiore fra gli scenari possibili potrebbe diventare un nuovo Jimmy Carter ".
Jimmy Carter fu un presidente disastroso per gli Stati Uniti. Basta vedere il modo catastrofico in cui gestì il rapimento dei suoi diplomatici in Iran. Li lasciò in balia della teocrazia senza battere ciglio e, per questo (fortunatamente), perse le elezioni. Carter, però, nel finale dell'articolo, si prende il merito del ritorno a casa dei diplomatici. In realtà fu Reagan a rendere possibile il loro rientro.
Per quanto riguarda la gestione della situazione in Medio Oriente, Carter scrive : " Non fui oggetto di pressione alcuna quando decisi di lanciare un'iniziativa di pace in Medio Oriente, e lo feci dal primo giorno del mio mandato. A Camp David e nelle settimane seguenti, negoziammo una risoluzione per la questione palestinese e all'inizio del 1979 Egitto e Israele firmarono un trattato di pace. Benché non siano stati onorati gli impegni presi nei confronti dei palestinesi, neppure un articolo del trattato di pace è stato infranto.". Non c'è la pace fra Israele e i palestinesi, è vero. Ma la responsabilità non è di Israele. Carter è sempre pronto a spalleggiare Hamas e il suo terrorismo antisemita, se no specificherebbe che, nonostante i ripetuti accordi, da parte palestinese il terrorismo non è mai cessato, come non è mai finito l'odio per Israele.
Questa vignetta rende bene l'idea di come la pensi Carter sul Medio Oriente.
"Tutto ciò che stiamo dicendo...è dare agli assassini antisemiti una chance".
Mai vignetta fu più azzeccata. Carter poi, è fra i sostenitori di Israele stato dell'Apartheid.
Il titolo dell'articolo ("Obama come Carter? Magari!") è impossibile da condividere, a meno che non si desideri la distruzione di Israele, l'armamento nucleare dell'Iran, la sconfitta in Afghanistan, il trionfo dei fondamentalisti islamici.
Ecco l'articolo:
Come molti altri presidenti americani, Barack Obama è influenzato nelle scelte in politica estera dall'andamento dei conflitti: nel peggiore fra gli scenari possibili potrebbe diventare un nuovo Jimmy Carter. È il timore che Walter Russell Mead ha espresso sulla rivista di politica internazionale Foreign Policy, nell'analisi dal titolo « The Carter syndrome».
La questione Afghanistan
Secondo Walter Russel Mead le decisioni prese per l'Afghanistan sono emblematiche della schizofrenia di Obama: nuove truppe al fronte ma ritiro da giugno 2011. Negli anni 70, Carter appoggiò la resistenza contro l'occupazione in Afghanistan.
I fondi per la difesa
Il budget destinato alla difesa sottraea Obama, come pure fu per Carter, risorse necessarie ai bisogni interni.
Obama, come Carter, fa parte della vecchia ala del partito democratico: la strategia in politica estera è ridurre costie rischi dove possibile. Poi, invece, risorse per nuove truppe, per aprire nuovi fronti.
Benché mi sia astenuto dal rispondere alle ingiustificate e sbagliate analisi sulla mia politica estera, mi sento obbligato a commentare l'articolo di Walter Russell Mead ( La sindrome Carter, pubblicato su Foreign Policy, ndr). Deploro che Mead abbia utilizzato espressioni come Obama «nel peggiore dei casi potrebbe trasformarsi in un secondo Jimmy Carter», «debolezza e indecisione», «incoerenza e continui rovesciamenti di fortuna» per descrivere la mia presidenza.
Di particolare gravità è il fatto che Mead dichiari che «alla fine del suo mandato Carter si ritrovò a dare il suo pieno appoggio alla resistenza contro l'occupazione sovietica dell'Afghanistan, ad aumentare il budget della Difesa e a gettare le premesse per una più ampia presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente». Nessuna di queste fu una decisione dell'ultimo minuto,presa a partire da una tardiva presa di coscienza di presunte sviste o errori di valutazione commessi in precedenza.
A eccezione di sviluppi ovviamente imprevedibili, quali la caduta dello scià,l'invasione dell'Iran da parte dell'Iraq e l'occupazione sovietica dell'Afghanistan, tutte le iniziative sopra ricordate furono pianificate e addirittura annunciate prima ancora che io prestassi giuramento e m'insediassi alla presidenza. Tra queste vi furono le risolute decisioni prese nei confronti di Cina, Medio Oriente, Panama, il controllo delle armi nucleari, i bilanci della Difesa, Rhodesia e diritti umani.
Non fui oggetto di pressione alcuna quando decisi di lanciare un'iniziativa di pace in Medio Oriente, e lo feci dal primo giorno del mio mandato. A Camp David e nelle settimane seguenti, negoziammo una risoluzione per la questione palestinese e all'inizio del 1979 Egitto e Israele firmarono un trattato di pace. Benché non siano stati onorati gli impegni presi nei confronti dei palestinesi, neppure un articolo del trattato di pace è stato infranto. Purtroppo, da allora ci sono stati pochissimi progressi, se mai ce ne sono stati. Nell'ambito dell'enfasi globale da noi data alla questione dei diritti umani, una priorità assoluta per me è stata porre fine al regime di apartheid in Africa. Iniziammo in Rhodesia, oggi Zimbabwe, con l'aiuto di alcuni alleati europei, dei britannici, del presidente della Tanzania Julius Nyerere, il presidente dello Zambia Kenneth Kaunda, e altri leader africani di colore. Quello sforzo fu coronato da successo. Insistemmo a chiedere la fine di quel regime oppressivo, esortando a concedere «un voto a ogni cittadino» e ciò negli anni seguenti ha dato effetti benefici.
Con ogni probabilità, la sfida politica più importante e sicuramente la più difficile che ho dovuto affrontare fu il negoziato dei trattati sul Canale di Panama e la successiva ratifica dal Senato.Quell'incarico,estremamente impopolare ma tassativo, era stato preso dai tempi del presidente Lyndon Johnson, ma era sempre stato procrastinato per ovvie ripercussioni politiche negative. In ogni caso, quell'iniziativa rafforzò enormemente i legami della nostra nazione con le popolazioni dell'America Latina e di molte altre del Movimento dei Non Allineati che in precedenza intrattenevano stretti rapporti con l'Unione Sovietica.
Il nostro pieno appoggio ai diritti umani e ai movimenti che per essi si battevano ebbe in molte nazioni un effetto positivo e a vasto raggio. La maggior parte dei paesi dell'America del Sud, per esempio, era governata all'epoca del mio insediamento da despoti o da giunte militari. Noi ripudiammo la politica in vigore da tempo negli Stati Uniti, finalizzata a fiancheggiare e proteggere questi dittatori " amichevoli" a discapito degli attivisti per i diritti umani e dei movimenti degli indigeni, e nel giro di quattro anni un buon numero di essi diede inizio alle procedure necessarie a organizzare elezioni democratiche- o si impegnarono a farlo a breve - su costanti pressioni da parte nostra e di veri e propri eroi così coraggiosi da sfidare i regimi oppressivi. Ben presto, tutti quei paesi divennero democrazie.
Dopo l'invasione sovietica del dicembre 1979, non avemmo esitazione alcuna e fornimmo armi alla resistenza afghana, e nel mio discorso al Congresso di un mese dopo dichiarai inequivocabilmente che condannavo l'invasione e che avevo informato i sovietici che qualsiasi ulteriore aggressione sarebbe stata interpretata come una minaccia diretta alla sicurezza della nostra nazione, e avrei pertanto reagito di conseguenza, senza necessariamente limitarci all'uso di armi convenzionali.
La nostra politica in Iran consistette nel rendere possibile allo scià il mantenimento del trono, a condizione che adottasse riforme politiche ed evitasse ai fanatici estremisti di prendere il potere, ma alla fine furono gli iraniani stessi a decidere. L'ingiustificata cattura e il sequestro dei diplomatici statunitensi da parte dei militanti fu la principale causa della mia sconfitta alle elezioni successive, ma la mia decisione di astenermi da qualsiasi intervento militare - a meno che non avessero fatto del male anche solo a un ostaggio - si rivelò saggia.
Con la nostra preponderante potenza mi-litare avrei potuto ordinare una distruzione di massa in Iran, ma ciò avrebbe provocato la morte di migliaia di iraniani innocenti ed è certo che a quel punto i nostri ostaggi sarebbero stati assassinati.
Invece, preferimmo insistere, con grande tenacia e pazienza, esaurendo ogni possibile apertura diplomatica che ci si presentasse. Alla fine, grazie all'aiuto degli algerini e di altri, negoziai giorno e notte, senza interruzione, per tre giorni interi gli ultimi della mia presidenza - mentre il presidente eletto Ronald Reagan e i suoi consiglieri scelsero di non lasciarsi coinvolgere e non s'informarono neppure dei progressi fatti.
Gli ostaggi salirono a bordo di un aereo e rimasero in attesa del decollo già parecchie ore prima dell'inaugurazione della nuova presidenza, e fu loro consentito di lasciare l'Iran subito dopo che ebbe termine il mio mandato di presidente degli Stati Uniti. Erano tutti sani e salvi. Quantunque sia vero che non c'impegnammo in alcun combattimento militare durante la mia presidenza, non lo ritengo un segno di debolezza, né qualcosa che necessiti giustificazioni. Sapemmo mantenere la pace, per noi stessi e molti altri, ed espandemmo enormemente la nostra influenza globale, proteggendo al contempo la sicurezza, la potenza, gli ideali e l'integrità degli Stati Uniti.
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