Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/02/2010, a pag. 49, l'articolo di Alessandra Farkas dal titolo " Rushdie, il libro della clandestinità ".


Salman Rushdie, Alessandra Farkas
NEW YORK — Sono passati ormai 21 anni da quando, il 14 febbraio 1989, l’ayatollah Khomeini lanciò la sua terribile fatwa, chiedendo la morte di Salman Rushdie reo, con i suoi Versi satanici (editi in Italia da Mondadori), di blasfemia nei confronti del Corano e della religione di Maometto.
«È finalmente giunto il momento che io racconti questa storia pubblicamente: scriverò un libro sul periodo della mia clandestinità» ha dichiarato ieri il 62enne Rushdie dall’Università di Emory ad Atlanta, dove domani si aprirà una mostra personale sulle lettere, fotografie e disegni dello scrittore, realizzati proprio durante gli anni della sua drammatica fuga dai fanatici islamici decisi a dargli una lezione.
Il nuovo romanzo, che ancora non ha un titolo definitivo, si focalizzerà sugli anni tra il 1989 e il 1998, quando Rushdie visse nella massima segretezza alla periferia di Londra, scortato notte e giorno dagli agenti segreti britannici e da Scotland Yard. Mentre il mondo musulmano insorgeva dando alle fiamme il libro, in enormi falò pubblici precursori di analoghe, future violenze, i suoi «Versetti» diventavano un bestseller mondiale, trasformandolo in una star.
Ma anche se nel 1998 il governo dell’allora presidente riformista iraniano, Mohammad Khatami, raggiunse con Londra un compromesso in base al quale Teheran si impegnava a non fare nulla per applicare direttamente la fatwa, la dittatura non l’ha mai ufficialmente abrogata. E infatti anche oggi gruppi di musulmani radicali continuano a minacciarlo, invitando a boicottare il romanzo.
«Ogni anno, il 14 febbraio, ricevo puntualmente una sorta di biglietto di San Valentino— ha rivelato lo scrittore in una recente intervista— con cui l’Iran mi informa di non aver dimenticato la promessa di eliminarmi. Ma più che una minaccia— precisa— si tratta di una sorta di espediente retorico».
A riaprire dolorosamente la ferita, nel febbraio 2009, le dichiarazioni dell’allora portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Hassan Qashqavi, secondo cui «l’editto religioso è ancora valido perché solo l’autorità che l’ha emesso poteva revocarla». Prima di morire, quattro mesi dopo la fatwa, l’ayatollah Khomeini disse che «anche se Salman Rushdie si pentisse e diventasse l’uomo più pio di tutti i tempi, è obbligo di ogni buon musulmano impiegare ogni sforzo e ricchezza per mandarlo all’inferno».
Anche se vive senza scorta a Manhattan da ormai dodici anni, la sua non è certo una tranquilla esistenza qualunque. «Questo incubo mi è già costato quasi trecentomila euro: un’enormità per uno scrittore» sbottò già nel 1993 in un’intervista alla Bbc «non ne posso più di vivere braccato in uno stato di continuo terrore» aggiunse «e sotto la protezione costante della polizia».
Per intervistarlo, nel 1995, persino David Cronenberg, l’acclamato regista di «Crash» e «La mosca», dovette sottoporsi agli inquisitori di Scotland Yard. «Alla vigilia dell’appuntamento ricevetti una telefonata cospiratoria di uno 007 di Sua Maestà» ricorda Cronenberg «"Un agente ti incontrerà nella lobby del tuo albergo", mi disse, "il suo nome è Sinclair. Prenderete un taxi insieme che vi condurrà a un luogo top secret"».
Prima del rendez-vouz, altri agenti perquisirono il regista da cima a fondo. «Quando finalmente arrivai a stringergli la mano, Rushdie mi chiese di chiudere la porta, perché non gli piaceva far ascoltare le sue conversazioni ai poliziotti». E aveva ragione. Due anni fa lo scrittore ha fatto causa a una sua ex guardia del corpo, Ron Evans, autore di un libro scandalistico in cui è ritratto come «uno spilorcio, perfido, arrogante ed estremamente antipatico».
Gli agenti l’avevano ribattezzato «Scruffy», trasandato e per dispetto una sera lo chiusero a chiave dentro alla credenza, per poter andare indisturbati al pub. Ma di questo è probabile che non vi sarà traccia nel libro.
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