Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 16/02/2010, a pag. 35, l'articolo di Francesca Caferri dal titolo "Dalla lingerie agli affari la rivolta delle saudite".
L'articolo descrive correttamente la situazione delle donne in Arabia Saudita.
Quelle che possono permettersi di lavorare sono mosche bianche e comunque possono farlo solo grazie al permesso accordato loro dal maschio di turno. La loro esistenza è contraddistinta da una serie di divieti assurdi, come quello che impedisce loro di guidare la macchina.
Caferri riporta le dichiarazioni di Wajeha al Huwaidar, una delle più note attiviste della zona: " Le cose non sono diverse rispetto a 30-40 anni fa. Le donne in posizioni di primo piano sono lì perché mariti o padri glielo concedono. La legge non è cambiata: ci serve ancora il permesso di padre o marito per lavorare e per lasciare il paese. E gli ostacoli sono ancora moltissimi ".
Allora non è ben chiaro a che cosa si riferisca il titolo. In che cosa consisterebbe la rivolta delle saudite? Vivevano e continuano a vivere in una prigione fondamentalista e maschilista. Le femministe occidentali non sprecano una sillaba in loro aiuto, anzi, si focalizzano sulla ridicola difesa del burqa, il simbolo per eccellenza della discriminazione della donna, quello che le donne afghane vorrebbero togliere, ma non possono, pena la lapidazione dei fondamentalisti e che alcune donne occidentali si ficcano in testa proclamando di essere fiere e libere di portarlo.
Ecco l'articolo:
Negli uffici del gruppo finanziario Al Dukheil l´unico uomo che non ascolta Khlood Al Dukheil è l´anziano Abdul Karim, incaricato di preparare tè e caffè: «Mi ha visto giocare qui - dice lei - continuerà sempre a trattarmi come una bambina». Abdul Karim è un caso a parte: il resto degli impiegati quando Khlood parla, ascolta ed esegue. Anche se il suo ufficio è a Ryad, capitale dell´Arabia Saudita, uno dei paesi più conservatori del mondo, dove una donna alla testa di un´azienda è una rarità. Qui alle donne è vietato mostrarsi in pubblico senza abaya (la lunga veste nera che le copre fino ai piedi) e velo, sedersi in un ristorante con un uomo che non sia un familiare e - caso unico al mondo - guidare. «Quando sono tornata dagli Stati Uniti - spiega Al Dukheil - le manager come me erano poche: ma ora non più».
Khlood è l´avanguardia di un gruppo sempre più numeroso: quello delle saudite che si stanno imponendo nell´economia e nella società, sfidando le regole che per anni le hanno relegate ai margini. Il movimento è composito e ampio: dalle businesswomen come lei, alle studentesse della prima università mista, alle donne impegnate in uno sciopero dello shopping per protestare contro il fatto che nei negozi di lingerie le donne non possono lavorare. E le clienti devono discutere di reggiseni e sottovesti con commessi uomini. «È una provocazione - spiega Reem Asaad, professoressa di Economia e organizzatrice della protesta - dietro c´è molto altro: la rivendicazione di un ruolo diverso, di più diritti. Siamo stanche di aspettare: le cose si muovono lentamente, noi invece siamo impazienti».
Eppure dall´arrivo sul trono di re Abdullah, nel 2005, per le donne in Arabia Saudita le cose sono cambiate come mai prima: il sovrano ha aperto loro gli uffici governativi, permesso l´accesso a professioni fino a poco fa impensabili e concesso a un crescente numero di studentesse borse di studio per l´estero. Un anno fa la prima donna, Nuor Al Faiz, è entrata a nel governo come vice-ministro: e sei donne sono state scelte come consigliere della Shura, l´organismo consultivo voluto dal re.
Piccole rivoluzioni in un paese tanto conservatore: che però a molte non bastano. «Le cose non sono diverse rispetto a 30-40 anni fa», sostiene Wajeha al Huwaidar, una delle più note attiviste del regno. «Le donne in posizioni di primo piano sono lì perché mariti o padri glielo concedono. La legge non è cambiata: ci serve ancora il permesso di padre o marito per lavorare e per lasciare il paese. E gli ostacoli sono ancora moltissimi». Khlood conferma: dei suoi 300 dipendenti solo 3 sono donne. Difficile assumerne altre fino a quando le norme non cambieranno: «Oggi ogni impiegata deve lavorare in un ufficio separato rispetto agli uomini. Ha bisogno di un autista per spostarsi. E potrebbe lasciare in un momento se il marito o il padre le revocasse il permesso. Non puoi correre una gara con una macchina rotta: prima la devi riparare».
Per farlo però occorre tempo, sostiene Bandar Al Aiban, presidente della Commissione dei diritti umani, chiamato dal re a ricoprire l´incarico: «I cambiamenti non possono essere traumatici. Serve gradualità: è l´unica maniera per evitare tensioni». Al Aiban non lo dice chiaramente, ma quando parla di "tensioni" si riferisce all´establishment wahabita. È sull´alleanza con i religiosi conservatori che la dinastia Saud ha fondato le fondamenta del suo potere: un legame da cui non può prescindere e che alcune delle aperture di re Abdullah stanno mettendo a dura prova. «Allah non voleva sovraccaricare le donne con troppi ruoli», spiega uno dei suoi esponenti più in vista, lo Sceicco Abdulaziz Bin Saleh Al Fawzan, quando gli si chiede della sua posizione sui diritti femminili. «Nell´Islam uomini e donne si completano, non competono: alla moglie spetta la cura della casa. Al marito di provvedere a lei».
Una visione che oggi scricchiola: «Non è più questione di noia o di lusso - spiega Hala Al-Hoshan dell´ong Al Nahda, la più vecchia del paese - è l´economia a chiedere alle donne di cambiare ruolo: le famiglie non possono più sopravvivere con un solo reddito». Ad Al Nahda oggi si lavora soprattutto sulla formazione professionale per le giovani: i corsi per diventare esperte di telemarketing e per offrire assistenza telefonica a chi ha problemi di computer sono stati finanziati anche dalla Microsoft di Bill Gates. «Il cambiamento sta avvenendo: è solo più lento di quello che vorremmo», dice Al-Hoshan.
Ne è convinta anche la dottoressa Maha al Munefaa, medico e consigliera della Shura: «Ci sono due forze in azione: quella dall´alto è il re. Quella dal basso sono le ragazze che studiano, Internet, le televisioni satellitari». Nel suo campo Maha è già una pioniera: in ospedale lavora fianco a fianco con uomini e donne, cosa impensabile in altri luoghi, e nelle strade lì intorno gira senza abaya, protetta solo dal camice bianco. Una libertà che sempre più ragazze, secondo i giornali, vogliono assaporare, arrivando a fingersi infermiere per farlo.
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