I cinque libri di Isacco Blumenfeld Angel Wagenstein
Baldini Castaldi Dalai Euro 19
Seduto sul terrazzo davanti a una tazza di caffè con panna, il vecchio si abbandona ai ricordi e ripercorre la sua vita. Sì, ma quale vita? A giudicare dai passaporti che ha collezionato, di esistenze ne ha avute almeno cinque. Nell’ordine: “Suddito dell’impero austroungarico, cittadino della Repubblica polacca, cittadino sovietico, individuo di razza ebraica residente nei territori orientali del Reich…e infine cittadino della Repubblica federale austriaca”.
A biografie estreme, estremi rimedi, potrebbe essere il motto dell’ultimo libro di Angel Wagenstein, infaticabile scrittore di origine bulgara, classe 1929.
Poiché era impossibile compendiare il fato del protagonista in un unico racconto, ecco “I cinque libri di Isacco Blumenfeld”. Vien subito alla mente il paragone irriverente con gli altrettanti volumi del Pentateuco, e il confronto sarebbe certo fuori luogo se non fosse per l’onnipresente ironia e autoironia che satura il testo. L’eroe, si fa per dire, comincia la propria avventura in uno shtetl galiziano, è figlio di un sarto squattrinato e ovviamente strimpella il violino.
L’augusto imperatore Francesco Giuseppe regge da lontano le sorti di quel minuscolo paese, dove tutto procede secondo ordine, gli ebrei fanno gli ebrei e cianciano interminabilmente tra loro sognando di emigrare in America. Gli altri fanno gli altri e indulgono anzichenò all’antisemitismo. Ma in fondo, nel vecchio mondo dei ricordi, le cose non vanno poi così male o almeno, come pensa già il piccolo Isacco, “potrebbero andare peggio”.
Il protagonista non ha nemmeno il tempo di mettere i pantaloni lunghi (per altro, visti i tempi, sarebbero una bella spesa) che già s’innamora della figlia del rabbino e viene chiamato alle armi nel vittorioso esercito imperiale. Ma è il 1918, e le vittorie non sembrano più tanto a portata di mano. Lui, Isacco, è nato sotto una stella così, un astro dispettoso. Con il dissolversi dell’impero austroungarico, ha la prima vera lezione di vita: tutto cambia attorno a lui, e il suo fato s’ingarbuglia sempre di più. La trama del racconto sembrerebbe destinata a perdersi un po’ stancamente nell’eterno tran-tran dei vinti, quand’ecco che i nazisti s’incaricano di dare al racconto una lugubre accelerazione. Poiché la fortuna aiuta gli sfortunati, o almeno così lui crede, Isacco finisce “solo” in un campo di lavori forzati e riesce a scampare, se pure di un soffio, la pelle.
Wagenstein ha la mano un po’ pesante nell’ambientare i suoi personaggi in un’Europa orientale fin troppo chagalliana. Isacco e i compagni di sventura sembrano nutrirsi di inesauribili storielle ebraiche, e se ne vanno a zonzo per il creato senza mai rendersi davvero conto di dove sono, come smarriti in un loro giudaismo minimale. Tutto il libro è malato di nonsenso, ma è un assurdo tipicamente ebraico, fatto di frasi che s’aprono a telescopio l’una nell’altra e domande infilate a raffica senza che nessuno, e tantomeno l’autore del romanzo, si degnino di aspettare le risposte.
Più che le peripezie, o i sentimenti degli attori, sono proprio loro, le parole, ad accattivarsi la simpatia del lettore. Decisamente tante, e paradossali, come vuole la legge degli yiddishe witze, i motti di spirito, che non risparmiano nessuno, nemmeno il Signore d’Israele. In verità, più Isacco ne dice e meno la sua vicenda di ebreo sradicato ci sembra lontana e irreale. Se Wagenstein voleva curare il passato a parole, quasi quasi ci è riuscito.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore