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La Stampa Rassegna Stampa
15.02.2010 Per i palestinesi il New York Times non è abbastanza anti israeliano. Ma l'hanno mai letto ?
Cronaca di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 15 febbraio 2010
Pagina: 16
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Gli arabi contro il Nyt: 'Troppo filo-israeliano'»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/02/2010, a pag. 16, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Gli arabi contro il Nyt: 'Troppo filo-israeliano' ".

L'articolo riporta correttamente la questione. Da parte nostra aggiungiamo una considerazione. Il corrispondentre sarà pure equilibrato, come sostiene il direttore del New York Times, ma non è la nostra opinione.
Bronner, forse per il fatto che è ebreo e per potersi difendere da accuse del genere, da sempre è sbilanciato a favore degli avversari di Israele. Un atteggiamento sbagliato che non serve, come dimostra la vicenda.
Ai palestinesi non basta un corrispondente che ne privilegi le ragioni, vedasi il caso Enderlin, corrispondente di France 2, inventore di una delle più grosse mistificazioni giornalistiche, il caso al Doura, che ha arrecato enormi danni all'immagine di Israele.
Anche Enderlin, come Bronner, è ebreo, ma ha scelto di appartenere al club degli ebrei 'buoni', dove buoni significa pregiudizialmente contro lo Stato ebraico, che è poi la posizione del New York Times, il cui corrispondente è sempre pronto a sposare ogni causa con molta disinvoltura, come dimostra il caso del ragazzo ebreo americano aggredito da dimostranti palestinesi e salvato dall'essere linciato da un soldato di Tzahal. Il New York Times l'aveva presentato come ragazzo palestinese aggredito da militari israeliani.
Se il New York Times è un giornale filo israeliano, non ci resta che sperare nell'involontario appoggio della stampa palestinese. Ecco il pezzo:


Ethan Bronner

Ethan Bronner, capo dell’ufficio di corrispondenza del «New York Times» a Gerusalemme ha un figlio di 20 anni che veste la divisa dell’esercito di Israele e tanto basta ai gruppi di attivisti palestinesi per chiederne l’immediata rimozione dall’incarico. Ma il direttore Bill Keller respinge la richiesta e va all’attacco dei «diktat basati sui pregiudizi»: «Se li dovessimo accettare non potremmo più fare il nostro mestiere».
Il braccio di ferro sulla sorte di Bronner, che ha alle spalle 25 anni di esperienza in Medio Oriente e la guida della redazione Esteri del «New York Times», inizia quando il sito Electronic Intifada svela la notizia: «Ha un figlio sotto le armi nelle forze armate israeliane». È l’inizio di una campagna online contro di lui, che vede l’«Angry Arab News Service» tacciarlo di fare «propaganda a favore di Israele» e il gruppo liberal «Fairness and Accurancy in Reporting» denunciare l’esistenza di un «inaccettabile conflitto di interesse» fra il Bronner giornalista incaricato di «raccontare con correttezza il conflitto arabo-israeliano» e il Bronner padre «di un soldato in guerra».
Il risultato sono almeno 400 lettere di protesta giunte alla redazione del «New York Times» nelle quali lettori come Linda Mamoun di Boulder, in Colorado, invocano l’allontanamento di Bronner perché «sebbene scriva in maniera bilanciata non può continuare a ricoprire la sua posizione avendo legami militari con Israele». La vicenda si trasforma in un duello fra premi Pulitzer con Alex Jones, che guida il «Center on Press, Politics and Public Policy» di Harvard, favorevole al richiamo «perché l’apparenza di un conflitto di interesse è spesso più importante del conflitto medesimo» e David Shipler, ex capo dell’ufficio del «New York Times» a Gerusalemme negli anni Ottanta, contrario perché «non c’è alcun conflitto di sorta».
In una cornice di polemiche in crescendo il primo a prendere posizione dentro il giornale è Clark Hoyt, che con la carica di Public Editor è il garante dei lettori, traendo la seguente conclusione: «Ho un enorme rispetto per Bronner e il suo lavoro, non ha commesso alcun errore e non si tratta di punirlo ma è una situazione difficile e sarebbe meglio trovargli una sistemazione altrove, almeno per la durata del servizio militare del figlio».
La sentenza di Hoyt fa traballare l’incarico di Bronner, che si limita a replicare: «Vorrei essere giudicato sulla base del lavoro e non delle biografia». È a questo punto che il direttore, Bill Keller, risponde a Hoyt, ai lettori e ai gruppi di militanti che hanno sollevato il caso. Anzitutto facendo sapere che Bronner lo aveva informato per tempo che il figlio 20enne aveva deciso di andare volontario nell’esercito israeliano per un anno. E poi scrivendo una replica di 95 righe che va ben oltre la difesa del giornalista, teorizzando l’impossibilità di cedere alle richieste basate sui pregiudizi del «politically correct».
«Il motivo per cui non raccolgo l’invito a sostituire Ethan Bronner non è solo l’integrità e l’esperienza del giornalista né la contrarietà ad accettare le tesi più selvaggiamente faziose di chi lo accusa ma per rispetto ai lettori», esordisce Keller, rivendicando di avere sul campo in più posti caldi «giornalisti che hanno storie umane fatte di idee, convinzioni e relazioni» ma che hanno dimostrato nel corso degli anni di essere capaci di «tenerle da parte in maniera disciplinata» trasformandole in «preziosi strumenti di valutazione» delle realtà che si trovano a raccontare.
Si tratta di C.J. Chivers, l’ex marine al seguito delle truppe in Afghanistan, Anthony Shadid, un americano-libanese che guida la sede di Baghdad, Nazila Fathi, corrispondente da Teheran, che è un’iraniana già esiliata dall’attuale regime, e Bronner sposato ad un’israeliana e con un figlio dentro Tzahal. «Se accettassi di rinunciare a Bronner per il figlio, poi ci chiederebbero di non mandare più reporter ebrei in Israele, di non mandare più ebrei in Paesi ostili a Israele, di non mandare più reporter sposati con ebrei, sposati con israeliani, sposati con arabi, sposati con evangelici e così via, senza più fine», scrive Keller per spiegare come «la volontà di prevenire l’apparenza della faziosità» porterebbe a «premiare i pregiudizi degli zeloti di ogni tipo» determinando la demolizione dell’identità stessa del «Times» che si fonda proprio su reporter come Chivers, Shadid, Fathi e Bronner.

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